Martin Gardner ha esaminato con attenzione le caratteristiche di un autore pseudoscientifico. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in molti casi ci troviamo di fronte a «un pensatore brillante» in grado di «sviluppare teorie incredibilmente complesse» e capace di «difenderle con libri di grande erudizione, con osservazioni profonde, e spesso con generose porzioni di scienza vera». Proprio per questo diventa difficile, anche per un lettore di notevole cultura e preparazione, individuare i difetti all’interno di un’argomentazione «estremamente persuasiva», in cui tutti gli elementi «si incastrano magnificamente, come i pezzi di un puzzle»[1].
L’archeologo Kenneth L. Feder ha specificato come i motivi di tale difficoltà risiedano nella impossibilità di possedere conoscenze specialistiche in qualsiasi ambito del sapere. L’esempio utilizzato è relativo al celebre Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier: «Mi chiedevo con stupore come fosse possibile che autori così apparentemente ferrati in fisica, psicologia, chimica, biologia e storia si confondessero quando toccavano il mio campo, l’archeologia. Come potevano “provare” con tanta sicurezza l’esistenza di ogni tipo di fenomeno nei vari campi della scienza, e poi sbagliare in maniera così grossolana quando si trattava del passato dell’umanità?» Ecco la spiegazione: «di tutte le discipline affrontate ne Il mattino dei maghi, l’archeologia era l’unica che conoscevo profondamente», mentre le altre affermazioni contenute nel libro «mi apparivano suggestive soprattutto perché non avevo la conoscenza necessaria per valutarle con cognizione». In realtà, tali affermazioni potevano essere «facilmente criticate, confutate e respinte dagli esperti dei relativi settori»[2].
Anche il contenuto storico dei lavori che si occupano di “misteri” va dunque maneggiato con estrema cautela, al pari delle informazioni che vengono fornite in campo scientifico. Faremo qualche esempio riferito ad alcuni testi dedicati al mito di Atlantide, utilizzando due fra le tradizionali categorie impiegate per comprendere il modo in cui i non specialisti si pongono di fronte allo studio della storia.
1) Precursori eccellenti. In uno dei tanti volumi di successo prodotti dalla cosiddetta “archeologia alternativa”, Le profezie dei Maya di Gilbert e Cotterell, si può leggere: «delle centinaia di libri scritti sul tema di Atlantide, il più autorevole resta Atlantis, the Antediluvian World, scritto da Ignatius Donnelly»[3]. Purtroppo questa è un’affermazione che non ha alcun fondamento. È certamente vero che l’opera di Donnelly rappresenta un momento importante nella storia degli studi sul mito di Atlantide. Ma è altrettanto vero che le interpretazioni in esso contenute sono state superate - e da tempo - dagli sviluppi della ricerca scientifica e storica[4]. Appellarsi a Donnelly per Atlantide sarebbe un po’ come tirare in ballo Aristotele per discutere del cosmo. È evidente che nessuno oserebbe negare la grandezza di Aristotele; d’altra parte oggi non è particolarmente ragionevole sostenere che la Terra sia al centro dell’universo.
2) Dimenticanze. Il giornalista Sergio Frau ha pubblicato un volume dal titolo Le Colonne d’Ercole. Un’inchiesta, nel quale si sostiene che le Colonne d’Ercole, collocate da Eratostene allo stretto di Gibilterra, erano situate in precedenza presso il Canale di Sicilia. Quanto all’Atlantide, non era altro che la Sardegna. Naturalmente non spetta a noi entrare nel merito della validità scientifica di questa ipotesi, la cui analisi - è bene ribadirlo - va lasciata agli specialisti della materia. Ci interessa, invece, vedere come Frau presenta il suo lavoro sotto il profilo storiografico: «questa è la prima volta, in 2200 anni circa - da quando cioè, secondo la nostra inchiesta (e l’ipotesi che ne è poi conseguita), Eratostene le spostò a Gibilterra - che le Colonne d’Ercole da oltrepassare per sbarcare ad Atlantide, nel pieno Far West degli antichi greci, sono di nuovo al Canale di Sicilia, dove - presumibilmente - erano ancora nel 356 a.C., a indicare l’inizio delle terre e dei mari cartaginesi. Dei mille e mille libri pubblicati sull’argomento nessuno, finora, l’ha mai fatto, obbligati com’erano tutti a uscire da Gibilterra, nell’Oceano Atlantico»[5]. Purtroppo le cose non stanno affatto in questo modo. Infatti, a partire dalla rinascita degli studi sul mito di Atlantide, dopo la scoperta dell’America, il dibattito sulla collocazione delle Colonne d’Ercole - che per molti si trovavano in un luogo diverso rispetto allo Stretto di Gibilterra - è stato ampio e diffuso. Non solo. Almeno uno tra gli studiosi impegnati nella controversia ha proposto esattamente (alla fine del Settecento) che le “Colonne” fossero presso il Canale di Sicilia e che Atlantide dovesse essere identificata con la Sardegna: si tratta del francese Jean-Baptiste-Claude Izouard, detto Delisle de Sales.
L’originalità delle proprie ricerche è rivendicata anche dall’ingegner Felice Vinci, autore di una fortunata opera dal titolo Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica. Secondo Vinci, «la geografia omerica fa riferimento a un contesto del quale conosciamo bene la toponomastica, ma che, nel contempo, se confrontato con la realtà fisica del mondo greco, presenta incomprensibili anomalie». Ma la soluzione è a portata di mano: «una possibile chiave per penetrare finalmente in questa singolare realtà geografica ce la fornisce Plutarco, il quale in una sua opera, il De facie quae in orbe lunae apparet, fa un’affermazione sorprendente: «l’isola Ogigia, dove la dea Calipso trattenne a lungo Ulisse prima di consentirgli il ritorno a Itaca, è situata nell’Atlantico del nord, “a cinque giorni di navigazione dalla Britannia”»[6]. Anche in questo caso, non spetta a noi entrare nel merito della correttezza dell’ipotesi. Facciamo soltanto notare come nella precedente citazione siano presenti due termini totalmente fuori posto: «finalmente» e «sorprendente». Di “sorprendente”, infatti, non c’è assolutamente niente, visto che del passo di Plutarco gli studiosi discutono almeno da quattrocento anni. Allo stesso modo, “finalmente” sarebbe stato più appropriato per un argomento proposto davvero per la prima volta, aprendo la strada a una soluzione mai ipotizzata in precedenza. Ma, anche in questo caso, l’idea che i poemi omerici traggano la loro origine da racconti ambientati nel Baltico non rappresenta una novità, e ha il suo grande interprete nel famoso erudito svedese Olaus Rudbeck (vissuto nel Seicento), le cui disinvolte associazioni linguistiche furono giudicate (già allora) completamente inaccettabili da Leibniz, secondo cui non era possibile «far passare Ulisse per il Nord», soltanto «in base a certe allusioni di nomi»[7].
Per acquisire credibilità agli occhi della comunità scientifica, è certamente opportuno conoscere anche la storia della propria disciplina. Come ha scritto Arnaldo Momigliano, uno dei grandi storici del Novecento, «rendersi conto delle origini dei propri problemi e delle risposte date da altri prima di noi», è indispensabile per valutare correttamente «la propria originalità»[8]. Magari prestando più attenzione al fatto che una teoria possa risultare vera, piuttosto che originale.
L’archeologo Kenneth L. Feder ha specificato come i motivi di tale difficoltà risiedano nella impossibilità di possedere conoscenze specialistiche in qualsiasi ambito del sapere. L’esempio utilizzato è relativo al celebre Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier: «Mi chiedevo con stupore come fosse possibile che autori così apparentemente ferrati in fisica, psicologia, chimica, biologia e storia si confondessero quando toccavano il mio campo, l’archeologia. Come potevano “provare” con tanta sicurezza l’esistenza di ogni tipo di fenomeno nei vari campi della scienza, e poi sbagliare in maniera così grossolana quando si trattava del passato dell’umanità?» Ecco la spiegazione: «di tutte le discipline affrontate ne Il mattino dei maghi, l’archeologia era l’unica che conoscevo profondamente», mentre le altre affermazioni contenute nel libro «mi apparivano suggestive soprattutto perché non avevo la conoscenza necessaria per valutarle con cognizione». In realtà, tali affermazioni potevano essere «facilmente criticate, confutate e respinte dagli esperti dei relativi settori»[2].
Anche il contenuto storico dei lavori che si occupano di “misteri” va dunque maneggiato con estrema cautela, al pari delle informazioni che vengono fornite in campo scientifico. Faremo qualche esempio riferito ad alcuni testi dedicati al mito di Atlantide, utilizzando due fra le tradizionali categorie impiegate per comprendere il modo in cui i non specialisti si pongono di fronte allo studio della storia.
1) Precursori eccellenti. In uno dei tanti volumi di successo prodotti dalla cosiddetta “archeologia alternativa”, Le profezie dei Maya di Gilbert e Cotterell, si può leggere: «delle centinaia di libri scritti sul tema di Atlantide, il più autorevole resta Atlantis, the Antediluvian World, scritto da Ignatius Donnelly»[3]. Purtroppo questa è un’affermazione che non ha alcun fondamento. È certamente vero che l’opera di Donnelly rappresenta un momento importante nella storia degli studi sul mito di Atlantide. Ma è altrettanto vero che le interpretazioni in esso contenute sono state superate - e da tempo - dagli sviluppi della ricerca scientifica e storica[4]. Appellarsi a Donnelly per Atlantide sarebbe un po’ come tirare in ballo Aristotele per discutere del cosmo. È evidente che nessuno oserebbe negare la grandezza di Aristotele; d’altra parte oggi non è particolarmente ragionevole sostenere che la Terra sia al centro dell’universo.
Il moderno monumento simbolico delle Colonne d'Ercole al Cancello degli Ebrei, Gibilterra. ©Julo (Wikimedia)
L’originalità delle proprie ricerche è rivendicata anche dall’ingegner Felice Vinci, autore di una fortunata opera dal titolo Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica. Secondo Vinci, «la geografia omerica fa riferimento a un contesto del quale conosciamo bene la toponomastica, ma che, nel contempo, se confrontato con la realtà fisica del mondo greco, presenta incomprensibili anomalie». Ma la soluzione è a portata di mano: «una possibile chiave per penetrare finalmente in questa singolare realtà geografica ce la fornisce Plutarco, il quale in una sua opera, il De facie quae in orbe lunae apparet, fa un’affermazione sorprendente: «l’isola Ogigia, dove la dea Calipso trattenne a lungo Ulisse prima di consentirgli il ritorno a Itaca, è situata nell’Atlantico del nord, “a cinque giorni di navigazione dalla Britannia”»[6]. Anche in questo caso, non spetta a noi entrare nel merito della correttezza dell’ipotesi. Facciamo soltanto notare come nella precedente citazione siano presenti due termini totalmente fuori posto: «finalmente» e «sorprendente». Di “sorprendente”, infatti, non c’è assolutamente niente, visto che del passo di Plutarco gli studiosi discutono almeno da quattrocento anni. Allo stesso modo, “finalmente” sarebbe stato più appropriato per un argomento proposto davvero per la prima volta, aprendo la strada a una soluzione mai ipotizzata in precedenza. Ma, anche in questo caso, l’idea che i poemi omerici traggano la loro origine da racconti ambientati nel Baltico non rappresenta una novità, e ha il suo grande interprete nel famoso erudito svedese Olaus Rudbeck (vissuto nel Seicento), le cui disinvolte associazioni linguistiche furono giudicate (già allora) completamente inaccettabili da Leibniz, secondo cui non era possibile «far passare Ulisse per il Nord», soltanto «in base a certe allusioni di nomi»[7].
Per acquisire credibilità agli occhi della comunità scientifica, è certamente opportuno conoscere anche la storia della propria disciplina. Come ha scritto Arnaldo Momigliano, uno dei grandi storici del Novecento, «rendersi conto delle origini dei propri problemi e delle risposte date da altri prima di noi», è indispensabile per valutare correttamente «la propria originalità»[8]. Magari prestando più attenzione al fatto che una teoria possa risultare vera, piuttosto che originale.
Note
1) Gardner, M. 1998. Nel nome della scienza. Ancona: Transeuropa, p. 14.
2) Feder, K.L. 2004. Frodi, miti e misteri. Scienza e pseudoscienza in archeologia. Roma: Avverbi, pp. 25-26.
3) Gilbert, A.G., Cotterell, M. 2004. Le profezie dei Maya. Milano: Corbaccio, p. 200.
4) Ciardi, M. 2011. Le metamorfosi di Atlantide. Storie scientifiche e immaginarie da Platone a Walt Disney. Roma: Carocci.
5) Frau, S. 2002. Le Colonne d’Ercole. Un’inchiesta. Roma: Nur neon, pp. 353-354.
6) Vinci, F. 1998. Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica. Seconda edizione riveduta e ampliata. Roma: Palombi Editori, p. 13.
7) Ciardi, M. 2002. Atlantide. Una controversia scientifica da Colombo a Darwin. Roma: Carocci, p. 59.
8) Momigliano, A. 1987. Storia e storiografia antica. Bologna: Il Mulino, p. 8.