“Giovanni d’Avalos morì per un batterio: dopo 5 secoli nella sua mummia isolato l’Escherichia coli”. Così ha titolato l’edizione web del Corriere del Mezzogiorno[1] lo scorso 16 giugno, in una delle occasioni in cui un titolo tradisce sia lo studio originale, sia lo stesso articolo del quotidiano che in teoria dovrebbe riassumere. Qui, su Query, ci siamo già occupati di mummie ed è quindi interessante raccontare anche questa storia.
Un tempo (fino al 1594) sistemati lungo l’abside della basilica dei Frati predicatori di San Domenico Maggiore di Napoli, decine di sarcofaghi di nobili partenopei sono oggi conservati nel ballatoio della sacrestia barocca della stessa chiesa. Studiati a partire dal 1983[2] dallo storico della medicina e paleopatologo dell’Università di Pisa Gino Fornaciari e collaboratori, hanno rivelato la presenza di diverse mummie, sia di origine naturale, sia dovute a processi di imbalsamazione.[3]
Una di queste è quella di Giovanni d’Avalos d’Aquino d’Aragona (1538-1586), figlio cadetto del principe Alfonso III (1502-1546), marchese del Vasto e Grande di Spagna, morto a Vigevano mentre era governatore di Milano, e della duchessa Maria d’Aragona (1503-1568), vicina agli ambienti eterodossi di Juan de Valdés (c. 1505-1541), Bernardino “Ochino” (1487-1564) e Pietro Carnesecchi (1508-1567), anch’essa sepolta presso la basilica.
Nel giugno del 2022, il bioinformatico George S. Long e la paleobiologa Jennifer Klunk, entrambi del McMaster Ancient DNA Centre dell’omonima università in Canada (diretto da uno degli altri autori dello studio, Hendrik Poinar), e i loro collaboratori (fra cui lo stesso Fornaciari e altri studiosi italiani come gli archeologi e storici della medicina Antonio Fornaciari e Valentina Giuffra e la storica moderna Lavinia Gazzè) hanno pubblicato un articolo intitolato “A 16th century Escherichia coli draft genome associated with an opportunistic bile infection”. Lo studio è comparso sulla rivista open access Communications Biology[4] e ha origine in alcune pionieristiche ricerche degli anni '80, ma impiega le più recenti tecniche dell’isolamento del DNA antico (aDNA) e dello studio filogenetico dei patogeni.
Calcoli biliari estratti dalla mummia di d’Avalos sono stati infatti oggetto di una procedura di laboratorio che ha permesso di estrarre aDNA e di ricostruire il più antico genoma ad ora noto di Escherichia coli, un batterio comunemente presente nella flora batterica intestinale degli animali a sangue caldo che, in alcuni ceppi, è in grado di provocare disturbi anche gravi nell’essere umano, quali gastroenteriti, infezioni del tratto urinario, meningiti neonatali e altre patologie.
Ma è stato questo patogeno ad uccidere il nobile partenopeo, come propone il titolo del Corriere del Mezzogiorno? Probabilmente no. Al di là dell’E. coli e della colecistite cronica, infatti, Giovanni d’Avalos, morto a 48 anni, non godeva certo di buona salute: lo studio paleopatologico ha infatti evidenziato che, tra l’altro, soffriva di obesità e di antracosi polmonare grave[5]. Si può anzi ipotizzare che già da tempo avesse rinunciato a tornei e giostre, le attività ludiche di un cavaliere come lui, a causa delle sue condizioni fisiche.
Fornaciari, in dichiarazioni rilasciate all’ANSA, ha chiarito che è «poco probabile che l’infezione sia stata la causa della morte, che resta ignota»:[6] infatti l’E. coli di cui è stato ricostruito il genoma manca delle caratteristiche delle forme moderne che producono i disturbi più gravi. Nel caso di d’Avalos, quindi, il batterio, in maniera opportunistica, si era probabilmente sviluppato solo in presenza di un calo delle difese immunitarie, senza appunto causarne il decesso.
L’Italia è ricca di mummie. Chissà che la pubblicazione di questo studio non porti questi o altri ricercatori a replicare le analisi su altri resti umani alla ricerca di patogeni che, dal punto di vista del DNA antico e quindi della filogenesi, sono ancora poco studiati come appunto Escherichia coli, Pseudomonas aeruginosa e Staphylococcus aureus. Come infatti ha ricordato Poinar, il concentrarsi sugli agenti patogeni che causano pandemie «come unica narrazione della mortalità di massa nel nostro passato non tiene conto del grande onere che deriva dai commensali opportunistici»[7] che si avvantaggiano dello stress delle vite vissute dai nostri antenati. Oggi che è possibile, studiarli non è solo utile alla storia della medicina e alla storia sociale, ma pure a comprendere meglio i patogeni che ancora ci continuano a colpire.
Un tempo (fino al 1594) sistemati lungo l’abside della basilica dei Frati predicatori di San Domenico Maggiore di Napoli, decine di sarcofaghi di nobili partenopei sono oggi conservati nel ballatoio della sacrestia barocca della stessa chiesa. Studiati a partire dal 1983[2] dallo storico della medicina e paleopatologo dell’Università di Pisa Gino Fornaciari e collaboratori, hanno rivelato la presenza di diverse mummie, sia di origine naturale, sia dovute a processi di imbalsamazione.[3]
Una di queste è quella di Giovanni d’Avalos d’Aquino d’Aragona (1538-1586), figlio cadetto del principe Alfonso III (1502-1546), marchese del Vasto e Grande di Spagna, morto a Vigevano mentre era governatore di Milano, e della duchessa Maria d’Aragona (1503-1568), vicina agli ambienti eterodossi di Juan de Valdés (c. 1505-1541), Bernardino “Ochino” (1487-1564) e Pietro Carnesecchi (1508-1567), anch’essa sepolta presso la basilica.
Nel giugno del 2022, il bioinformatico George S. Long e la paleobiologa Jennifer Klunk, entrambi del McMaster Ancient DNA Centre dell’omonima università in Canada (diretto da uno degli altri autori dello studio, Hendrik Poinar), e i loro collaboratori (fra cui lo stesso Fornaciari e altri studiosi italiani come gli archeologi e storici della medicina Antonio Fornaciari e Valentina Giuffra e la storica moderna Lavinia Gazzè) hanno pubblicato un articolo intitolato “A 16th century Escherichia coli draft genome associated with an opportunistic bile infection”. Lo studio è comparso sulla rivista open access Communications Biology[4] e ha origine in alcune pionieristiche ricerche degli anni '80, ma impiega le più recenti tecniche dell’isolamento del DNA antico (aDNA) e dello studio filogenetico dei patogeni.
Calcoli biliari estratti dalla mummia di d’Avalos sono stati infatti oggetto di una procedura di laboratorio che ha permesso di estrarre aDNA e di ricostruire il più antico genoma ad ora noto di Escherichia coli, un batterio comunemente presente nella flora batterica intestinale degli animali a sangue caldo che, in alcuni ceppi, è in grado di provocare disturbi anche gravi nell’essere umano, quali gastroenteriti, infezioni del tratto urinario, meningiti neonatali e altre patologie.
Ma è stato questo patogeno ad uccidere il nobile partenopeo, come propone il titolo del Corriere del Mezzogiorno? Probabilmente no. Al di là dell’E. coli e della colecistite cronica, infatti, Giovanni d’Avalos, morto a 48 anni, non godeva certo di buona salute: lo studio paleopatologico ha infatti evidenziato che, tra l’altro, soffriva di obesità e di antracosi polmonare grave[5]. Si può anzi ipotizzare che già da tempo avesse rinunciato a tornei e giostre, le attività ludiche di un cavaliere come lui, a causa delle sue condizioni fisiche.
Fornaciari, in dichiarazioni rilasciate all’ANSA, ha chiarito che è «poco probabile che l’infezione sia stata la causa della morte, che resta ignota»:[6] infatti l’E. coli di cui è stato ricostruito il genoma manca delle caratteristiche delle forme moderne che producono i disturbi più gravi. Nel caso di d’Avalos, quindi, il batterio, in maniera opportunistica, si era probabilmente sviluppato solo in presenza di un calo delle difese immunitarie, senza appunto causarne il decesso.
L’Italia è ricca di mummie. Chissà che la pubblicazione di questo studio non porti questi o altri ricercatori a replicare le analisi su altri resti umani alla ricerca di patogeni che, dal punto di vista del DNA antico e quindi della filogenesi, sono ancora poco studiati come appunto Escherichia coli, Pseudomonas aeruginosa e Staphylococcus aureus. Come infatti ha ricordato Poinar, il concentrarsi sugli agenti patogeni che causano pandemie «come unica narrazione della mortalità di massa nel nostro passato non tiene conto del grande onere che deriva dai commensali opportunistici»[7] che si avvantaggiano dello stress delle vite vissute dai nostri antenati. Oggi che è possibile, studiarli non è solo utile alla storia della medicina e alla storia sociale, ma pure a comprendere meglio i patogeni che ancora ci continuano a colpire.
Note
3) Sulla pratica dell’imbalsamazione si veda il “Terzo Occhio” di Query 30 , relativo a uno studio cui aveva collaborato lo stesso docente pisano.
4) Long, G. S. et al. 2022. A 16th century Escherichia coli draft genome associated with an opportunistic bile infection. “Communications Biology”, n. 5, article number 599, doi:10.1038/s42003-022-03527-1, disponibile all’url https://tinyurl.com/2sr5bdjf
5) Idem, Supplementary Appendix to: A 16th Century Escherichia coli draft genome associated with an opportunistic bile infection, disponibile all’url https://tinyurl.com/2p83j3cz