A partire dagli anni Novanta, quando conobbi il CICAP, andavo spessissimo a chiacchierare con l’allora vice-presidente, professor Piazzoli, al Dipartimento di Fisica dell’Università di Pavia, a pochi metri dal mio Dipartimento di Chimica.
Quasi sempre con Piazzoli trovavo anche Claudio Marciano, tecnologo del Dipartimento, che poi divenne Socio Effettivo e in seguito Socio Emerito del CICAP.
Vale la pena di presentarlo per chi, specialmente i soci più giovani del CICAP, non lo conoscesse.
Marciano aveva una stanza-officina nel seminterrato dell’Istituto che per me era una stanza delle meraviglie o una grotta del tesoro. Sembrava possedere nelle sue scatole qualunque pezzo si potesse desiderare (valvole, ingranaggi, trasformatori, motori...) e se non li aveva riusciva a costruirli. Anche ora, che è in pensione, possiede ben due piccole officine personali nelle sue casette di campagna, zeppe di trapani, un tornio, componenti elettrici ed elettronici... il sogno di ogni appassionato di fai-da-te .
Sono andato a intervistarlo per farmi raccontare della sua vita e delle sue realizzazioni, degne di un Archimede Pitagorico in carne e ossa.
So che sei nato a Genova. Raccontami di quello che hai fatto in quella città, e come sei arrivato alla fine all’Università di Pavia.
Sono nato a Genova nel 1934. Mio padre navigava su navi mercantili, e una volta, visto che già mi ero costruito una radio a galena, mi regalò una batteria da auto (chiusa in una scatola e con una resistenza in serie per non renderla pericolosa), dei relais, dei motorini... Io ci giocai a lungo e da lì nacque la mia passione per l’elettrotecnica e l’elettromeccanica.
Dopo le medie mi iscrissi alla scuola di avviamento professionale e dopo tre anni iniziai quella per periti elettrotecnici. Purtroppo, dopo un anno dovetti interrompere per andare a lavorare (facevo il fattorino per una società di assicurazioni).
Mi iscrissi allora alla scuola serale di radiotecnica Mocci, e ben presto un professore mi propose di lasciare il lavoro da fattorino per seguire gli studenti nel montaggio delle radio, seguendo gli schemi, e i ragazzi chiedevano a me spiegazioni su ciò che non avevano capito delle lezioni.
A un certo punto mi suggerirono di presentarmi all’Istituto di Fisica dell’Università di Genova, dove cercavano un radiomontatore. Io avevo attestati di frequenza ai corsi di radiotecnico, elettrotecnico e montatore radio della Scuola serale, che però non era parificata. Nonostante questo, forse anche grazie alle attitudini pratiche che dimostrai, vinsi il concorso e dal 1957 iniziai a lavorare all’Istituto di Fisica Nucleare di Genova, nel gruppo dei professori Gigli Berzolari, Paolo Emilio Argan ed Emilio Picasso, che in seguito divenne direttore dei lavori per la costruzione del LEP al CERN di Ginevra.
Tra le altre cose, montai su schema l’elettronica di controllo per una camera a diffusione per l’elettrosincrotrone del Laboratorio Nazionale di Fisica Nucleare di Frascati. Andavo un mese a Frascati e poi stavo due mesi a Genova.
Ma quando e come sei arrivato a Pavia?
Gigli a questo punto era a Parma, dove doveva restare tre anni prima di potere chiedere il trasferimento a Pavia e potermi chiamare in quella sede. Io decisi di restare a Genova e aspettare, rifiutando la proposta di lavorare al CERN di Ginevra dove Picasso stava per trasferirsi. In quel periodo lavoravo sempre sui rivelatori di particelle, e fabbricai un innovativo sensore capacitivo per monitorare la variazione di pressione di una camera a bolle (a propano liquido + CO2, 80 cm di diametro, 20-30 bar di pressione) che ora si trova a Frascati.
Finalmente, su invito di Gigli, nel 1963 mi trasferii a Pavia, dove ritrovai il professor Piazzoli, che avevo conosciuto a Genova come studente.
1963? Ancora quasi 30 anni per arrivare al CICAP! E a Pavia cosa facevi?
Be’, per esempio ho costruito un frigorifero da 10 KW che serviva per la camera a diffusione di Frascati, da utilizzare ora col ciclotrone di Milano. A Frascati avevamo un vecchio frigorifero, ma arrivava solo a -60 °C e nessuno era in grado di fornirne uno abbastanza potente. Per un po’ avevamo usato un bagno freddo che arrivava a – 78 °C, fatto con 80 litri di etere etilico e ghiaccio secco, che poi con una serpentina veniva mandato alla camera.
Ovviamente l’etere è infiammabilissimo, quindi ti lascio immaginare i possibili rischi che si correvano... Così ci misi 13 mesi, ma progettai e costruii per Milano un frigorifero a due stadi (il primo fino a -40°C con Freon22, il secondo fino a -80°C, con Freon13) della potenza necessaria, nonostante il pessimismo di alcuni “esperti”.
E poi? Raccontami delle tue famose macchine fotografiche di cui ogni tanto mi parli.
Al CERN di Ginevra, per studiare gli antiprotoni, il gruppo italiano doveva utilizzare come visualizzatore una camera streamer, che richiedeva una tensione impulsiva di 500 mila Volt. Dovevano fotografare le tracce delle particelle, ma le macchine fotografiche a CCD andavano in tilt a causa di quel campo elettrico così elevato. Quindi serviva una macchina elettromeccanica che oltretutto di foto doveva farne centinaia e centinaia – e infatti conteneva 600 metri di pellicola – per avere qualche probabilità di fotografare eventi interessanti, ma rari.
Spiegami meglio...
Gli antiprotoni erano generati dal LEAR, e rivelati da un fotomoltiplicatore; questo triggerava [attivava] la camera streamer, che visualizzava le loro tracce. Per farlo doveva ricaricare i suoi condensatori, e non poteva fare più di 3 scariche al secondo benché la mia macchina potesse scattare anche 5 fotogrammi al secondo.
Tutti pensarono che fosse un’impresa disperata, ma il professor Bendiscioli mi disse di provarci... Io partii da due ingranaggi di trascinamento delle pellicole 35 mm di un vecchio proiettore cinematografico, che avevo tenuto per anni in un cassetto! Facemmo fare da una fonderia di Pavia le fusioni in alluminio dei magazzini delle pellicole e la scatola principale della macchina e costruimmo in officina tutte le parti necessarie. fruga tra varie cose, in un angolo della stanza . Questi sono i modelli in legno da cui partirono per fare la fusione. E questi sono i due magazzini delle pellicole, reali. Quando si verificava un evento nella camera, due macchine identiche (a 20 cm di distanza per ottenere la stereoscopia dell’evento e perfettamente sincronizzate) potevano scattare fino a cinque foto in un secondo. Sono stati così ripresi cinque milioni di fotogrammi per ogni macchina senza mai il minimo guasto! E siamo al 1985.
Questa è la foto dell’annichilazione di un antiprotone che collide con un nucleo di neon, pubblicata anni dopo dal CERN sulla copertina della sua rivista, che è tanto bella da essere diventata famosa e ripresa più volte, addirittura sulla copertina del libro “La particella di Dio”.
Ora una di queste macchine si trova al Museo di Tecnica elettrica di Pavia. Speravo che la seconda finisse al museo di Fisica a Genova, invece con mio grande dolore è stata rottamata!
Tu continuavi ad andare al CERN di Ginevra. Hai fatto altre cose notevoli dopo le macchine fotografiche?
Ricordo un episodio in particolare. Una volta risolsi un problema pratico che aveva bloccato l’Esperimento Obelix, nel 1986. Si dovevano posizionare due camere delicatissime AFS (contenenti centinaia di fili metallici sottilissimi, 150 kg, 2 metri di diametro) (VEDI FOTO) attorno al nucleo del rivelatore. Il camion con piattaforma, appositamente costruito, si era guastato e sarebbe rimasto fermo a lungo.
Allora, spendendo l’equivalente di 50 Euro, ideai un sistema con due catene appese al carro-ponte, un motorino per farle ruotare e un telecomando (con un interruttore e un reostato) messo in fondo a un lungo cavetto, dentro una scatola da caramelle! Tutti i ricercatori del centro si erano radunati per assistere a un grande disastro... invece andò tutto perfettamente e alla fine scoppiò un grande applauso che mi commosse.
Ora siamo agli anni 90...
Terminati gli esperimenti al CERN tornai a lavorare in sede, a Pavia. Avevo costruito venti esperimenti didattici che furono utili anche per le lezioni del professor Piazzoli. Macchine elettrostatiche e altri dispositivi strani, di cui mostravo il funzionamento agli studenti che ne erano incuriositi e dovevano poi spiegarlo scientificamente.
Ricordo la bellissima macchina di Wimshurst che vedevo nella tua officina!
Ah, su quella macchina ho scoperto una cosa che nessuno aveva mai notato in 130 anni, ovvero che dopo averla avviata, può continuare a produrre scintille anche se le spazzole sono staccate dai dischi, che così non si graffiano più. Poi ti spiego meglio, adesso continuiamo... Avevo anche costruito una specie di trenino elettrico per il LENA, ancora in uso, per per trasferire nel nocciolo del reattore di ricerca di Pavia apparati elettronici vari. Occorreva sapere se avrebbero misurato le attivazioni neutroniche senza essere danneggiati.
In realtà, aver costruito quegli esperimenti didattici, che spesso producevano effetti controintuitivi o poco chiari, mi ha spinto – anche su incoraggiamento del professor Piazzoli – a tematiche simili a quelle del CICAP, tanto che più tardi, nel 1996, costruii una camera Kirlian che certi pranoterapeuti afferma(va)no potesse evidenziare l’aura umana.
Il metodo classico si basa su una pellicola fotografica appoggiata a un elettrodo che è collegato a un generatore di alta differenza di potenziale e alta frequenza. Appoggiandovi una mano, la pellicola si impressiona e nella foto, una volta sviluppata, si vedono questi strani aloni. Ho sostituito la pellicola con una sottile camera di plexiglas trasparente (diametro 30 cm, spessore interno 0,5 centimetri) piena di una miscela di neon ed elio. In tal modo, l’'aura’ è visibile dal vivo come una luminosità rossastra, ed è dovuta ovviamente alla ionizzazione dei gas nella camera.
Questa camera Kirlian ha sotto di essa le parti elettroniche, la bomboletta del gas, eccetera, ed è grande come un comodino da notte! È stata esibita a diversi Convegni del CICAP riscuotendo sempre grande interesse. Ci divertivamo sempre a mostrare che anche una carota o una chiave inglese possiedono un’aura!
Al momento, dopo che ho riparato alcune parti, è stata presa in carico da Francesco Grassi, al quale ho illustrato tutti i dettagli del funzionamento.
Nel 2007 – 2008 avevi anche costruito per me la 'Grande Machina’ per fare le Sindoni…
Ah, ma quello era solo un forno elettrico per scaldare il telo...
Sì, però un forno elettrico con resistenze, un motore elettrico esterno collegato a una ventola, un tubo di ricircolo dell’aria calda, un termostato, un quadro di controllo, un cavalletto... il tutto lungo due metri e alto un metro e venti. Quando parlo della Sindone in una conferenza mostro sempre la tua foto, e quella della “Machina”!
Invece rimpiango che sia stato proditoriamente staccato dalla tromba delle scale di Fisica il mio lungo pendolo di Foucault, per il quale avevo ideato il modo per rendere perpetue le oscillazioni. Pensa che ero anche andato a vedere com’era fatto quello dello Science Museum a Londra! questo punto della nostra chiacchierata, Claudio Marciano mi accompagna nell’officina della sua casetta di campagna per mostrarmi un motorino con una ventola supplementare che servirà a migliorare la circolazione dell’aria calda proprio nella Machina della Sindone. Gli dico che lo invidio, e ne approfitto per farmi regalare una ventola che mi servirà per una cappa nel mio 'laboratorio’ personale, nonché per vedere il famoso pedalò gonfiabile che lui aveva costruito anni fa, col quale passeggiava sul mare della Sardegna.
E allora lui mi racconta di una camera a diffusione, più piccola e a scopi didattici, che aveva costruito proprio qua. Durante una prova in Dipartimento, una fessura nella camera, satura di vapori di alcol metilico, aveva provocato una piccola fiammata. Da allora, con suo disappunto, non era più stata utilizzata e ora giace nel Dipartimento di Fisica.
Lo consolo lodando un apparecchio che sembra uno strumento di tortura, e che invece serve a spaccare i ceppi di legna, e il meccanismo per alzare e abbassare la scala di legno che va in mansarda...
Lo lascio con la promessa di tornare a curiosare meglio tra i suoi marchingegni. Marciano mi assicura che la prossima volta mi farà la pasta col pesto alla genovese.
Quasi sempre con Piazzoli trovavo anche Claudio Marciano, tecnologo del Dipartimento, che poi divenne Socio Effettivo e in seguito Socio Emerito del CICAP.
Vale la pena di presentarlo per chi, specialmente i soci più giovani del CICAP, non lo conoscesse.
Marciano aveva una stanza-officina nel seminterrato dell’Istituto che per me era una stanza delle meraviglie o una grotta del tesoro. Sembrava possedere nelle sue scatole qualunque pezzo si potesse desiderare (valvole, ingranaggi, trasformatori, motori...) e se non li aveva riusciva a costruirli. Anche ora, che è in pensione, possiede ben due piccole officine personali nelle sue casette di campagna, zeppe di trapani, un tornio, componenti elettrici ed elettronici... il sogno di ogni appassionato di fai-da-te .
Sono andato a intervistarlo per farmi raccontare della sua vita e delle sue realizzazioni, degne di un Archimede Pitagorico in carne e ossa.
So che sei nato a Genova. Raccontami di quello che hai fatto in quella città, e come sei arrivato alla fine all’Università di Pavia.
Sono nato a Genova nel 1934. Mio padre navigava su navi mercantili, e una volta, visto che già mi ero costruito una radio a galena, mi regalò una batteria da auto (chiusa in una scatola e con una resistenza in serie per non renderla pericolosa), dei relais, dei motorini... Io ci giocai a lungo e da lì nacque la mia passione per l’elettrotecnica e l’elettromeccanica.
Dopo le medie mi iscrissi alla scuola di avviamento professionale e dopo tre anni iniziai quella per periti elettrotecnici. Purtroppo, dopo un anno dovetti interrompere per andare a lavorare (facevo il fattorino per una società di assicurazioni).
Mi iscrissi allora alla scuola serale di radiotecnica Mocci, e ben presto un professore mi propose di lasciare il lavoro da fattorino per seguire gli studenti nel montaggio delle radio, seguendo gli schemi, e i ragazzi chiedevano a me spiegazioni su ciò che non avevano capito delle lezioni.
A un certo punto mi suggerirono di presentarmi all’Istituto di Fisica dell’Università di Genova, dove cercavano un radiomontatore. Io avevo attestati di frequenza ai corsi di radiotecnico, elettrotecnico e montatore radio della Scuola serale, che però non era parificata. Nonostante questo, forse anche grazie alle attitudini pratiche che dimostrai, vinsi il concorso e dal 1957 iniziai a lavorare all’Istituto di Fisica Nucleare di Genova, nel gruppo dei professori Gigli Berzolari, Paolo Emilio Argan ed Emilio Picasso, che in seguito divenne direttore dei lavori per la costruzione del LEP al CERN di Ginevra.
Tra le altre cose, montai su schema l’elettronica di controllo per una camera a diffusione per l’elettrosincrotrone del Laboratorio Nazionale di Fisica Nucleare di Frascati. Andavo un mese a Frascati e poi stavo due mesi a Genova.
Ma quando e come sei arrivato a Pavia?
Gigli a questo punto era a Parma, dove doveva restare tre anni prima di potere chiedere il trasferimento a Pavia e potermi chiamare in quella sede. Io decisi di restare a Genova e aspettare, rifiutando la proposta di lavorare al CERN di Ginevra dove Picasso stava per trasferirsi. In quel periodo lavoravo sempre sui rivelatori di particelle, e fabbricai un innovativo sensore capacitivo per monitorare la variazione di pressione di una camera a bolle (a propano liquido + CO2, 80 cm di diametro, 20-30 bar di pressione) che ora si trova a Frascati.
Finalmente, su invito di Gigli, nel 1963 mi trasferii a Pavia, dove ritrovai il professor Piazzoli, che avevo conosciuto a Genova come studente.
1963? Ancora quasi 30 anni per arrivare al CICAP! E a Pavia cosa facevi?
Be’, per esempio ho costruito un frigorifero da 10 KW che serviva per la camera a diffusione di Frascati, da utilizzare ora col ciclotrone di Milano. A Frascati avevamo un vecchio frigorifero, ma arrivava solo a -60 °C e nessuno era in grado di fornirne uno abbastanza potente. Per un po’ avevamo usato un bagno freddo che arrivava a – 78 °C, fatto con 80 litri di etere etilico e ghiaccio secco, che poi con una serpentina veniva mandato alla camera.
Ovviamente l’etere è infiammabilissimo, quindi ti lascio immaginare i possibili rischi che si correvano... Così ci misi 13 mesi, ma progettai e costruii per Milano un frigorifero a due stadi (il primo fino a -40°C con Freon22, il secondo fino a -80°C, con Freon13) della potenza necessaria, nonostante il pessimismo di alcuni “esperti”.
E poi? Raccontami delle tue famose macchine fotografiche di cui ogni tanto mi parli.
Al CERN di Ginevra, per studiare gli antiprotoni, il gruppo italiano doveva utilizzare come visualizzatore una camera streamer, che richiedeva una tensione impulsiva di 500 mila Volt. Dovevano fotografare le tracce delle particelle, ma le macchine fotografiche a CCD andavano in tilt a causa di quel campo elettrico così elevato. Quindi serviva una macchina elettromeccanica che oltretutto di foto doveva farne centinaia e centinaia – e infatti conteneva 600 metri di pellicola – per avere qualche probabilità di fotografare eventi interessanti, ma rari.
Spiegami meglio...
Gli antiprotoni erano generati dal LEAR, e rivelati da un fotomoltiplicatore; questo triggerava [attivava] la camera streamer, che visualizzava le loro tracce. Per farlo doveva ricaricare i suoi condensatori, e non poteva fare più di 3 scariche al secondo benché la mia macchina potesse scattare anche 5 fotogrammi al secondo.
Tutti pensarono che fosse un’impresa disperata, ma il professor Bendiscioli mi disse di provarci... Io partii da due ingranaggi di trascinamento delle pellicole 35 mm di un vecchio proiettore cinematografico, che avevo tenuto per anni in un cassetto! Facemmo fare da una fonderia di Pavia le fusioni in alluminio dei magazzini delle pellicole e la scatola principale della macchina e costruimmo in officina tutte le parti necessarie. fruga tra varie cose, in un angolo della stanza . Questi sono i modelli in legno da cui partirono per fare la fusione. E questi sono i due magazzini delle pellicole, reali. Quando si verificava un evento nella camera, due macchine identiche (a 20 cm di distanza per ottenere la stereoscopia dell’evento e perfettamente sincronizzate) potevano scattare fino a cinque foto in un secondo. Sono stati così ripresi cinque milioni di fotogrammi per ogni macchina senza mai il minimo guasto! E siamo al 1985.
Questa è la foto dell’annichilazione di un antiprotone che collide con un nucleo di neon, pubblicata anni dopo dal CERN sulla copertina della sua rivista, che è tanto bella da essere diventata famosa e ripresa più volte, addirittura sulla copertina del libro “La particella di Dio”.
Ora una di queste macchine si trova al Museo di Tecnica elettrica di Pavia. Speravo che la seconda finisse al museo di Fisica a Genova, invece con mio grande dolore è stata rottamata!
Tu continuavi ad andare al CERN di Ginevra. Hai fatto altre cose notevoli dopo le macchine fotografiche?
Ricordo un episodio in particolare. Una volta risolsi un problema pratico che aveva bloccato l’Esperimento Obelix, nel 1986. Si dovevano posizionare due camere delicatissime AFS (contenenti centinaia di fili metallici sottilissimi, 150 kg, 2 metri di diametro) (VEDI FOTO) attorno al nucleo del rivelatore. Il camion con piattaforma, appositamente costruito, si era guastato e sarebbe rimasto fermo a lungo.
Allora, spendendo l’equivalente di 50 Euro, ideai un sistema con due catene appese al carro-ponte, un motorino per farle ruotare e un telecomando (con un interruttore e un reostato) messo in fondo a un lungo cavetto, dentro una scatola da caramelle! Tutti i ricercatori del centro si erano radunati per assistere a un grande disastro... invece andò tutto perfettamente e alla fine scoppiò un grande applauso che mi commosse.
Ora siamo agli anni 90...
Terminati gli esperimenti al CERN tornai a lavorare in sede, a Pavia. Avevo costruito venti esperimenti didattici che furono utili anche per le lezioni del professor Piazzoli. Macchine elettrostatiche e altri dispositivi strani, di cui mostravo il funzionamento agli studenti che ne erano incuriositi e dovevano poi spiegarlo scientificamente.
Ricordo la bellissima macchina di Wimshurst che vedevo nella tua officina!
Ah, su quella macchina ho scoperto una cosa che nessuno aveva mai notato in 130 anni, ovvero che dopo averla avviata, può continuare a produrre scintille anche se le spazzole sono staccate dai dischi, che così non si graffiano più. Poi ti spiego meglio, adesso continuiamo... Avevo anche costruito una specie di trenino elettrico per il LENA, ancora in uso, per per trasferire nel nocciolo del reattore di ricerca di Pavia apparati elettronici vari. Occorreva sapere se avrebbero misurato le attivazioni neutroniche senza essere danneggiati.
In realtà, aver costruito quegli esperimenti didattici, che spesso producevano effetti controintuitivi o poco chiari, mi ha spinto – anche su incoraggiamento del professor Piazzoli – a tematiche simili a quelle del CICAP, tanto che più tardi, nel 1996, costruii una camera Kirlian che certi pranoterapeuti afferma(va)no potesse evidenziare l’aura umana.
Il metodo classico si basa su una pellicola fotografica appoggiata a un elettrodo che è collegato a un generatore di alta differenza di potenziale e alta frequenza. Appoggiandovi una mano, la pellicola si impressiona e nella foto, una volta sviluppata, si vedono questi strani aloni. Ho sostituito la pellicola con una sottile camera di plexiglas trasparente (diametro 30 cm, spessore interno 0,5 centimetri) piena di una miscela di neon ed elio. In tal modo, l’'aura’ è visibile dal vivo come una luminosità rossastra, ed è dovuta ovviamente alla ionizzazione dei gas nella camera.
Questa camera Kirlian ha sotto di essa le parti elettroniche, la bomboletta del gas, eccetera, ed è grande come un comodino da notte! È stata esibita a diversi Convegni del CICAP riscuotendo sempre grande interesse. Ci divertivamo sempre a mostrare che anche una carota o una chiave inglese possiedono un’aura!
Al momento, dopo che ho riparato alcune parti, è stata presa in carico da Francesco Grassi, al quale ho illustrato tutti i dettagli del funzionamento.
Nel 2007 – 2008 avevi anche costruito per me la 'Grande Machina’ per fare le Sindoni…
Ah, ma quello era solo un forno elettrico per scaldare il telo...
Sì, però un forno elettrico con resistenze, un motore elettrico esterno collegato a una ventola, un tubo di ricircolo dell’aria calda, un termostato, un quadro di controllo, un cavalletto... il tutto lungo due metri e alto un metro e venti. Quando parlo della Sindone in una conferenza mostro sempre la tua foto, e quella della “Machina”!
Invece rimpiango che sia stato proditoriamente staccato dalla tromba delle scale di Fisica il mio lungo pendolo di Foucault, per il quale avevo ideato il modo per rendere perpetue le oscillazioni. Pensa che ero anche andato a vedere com’era fatto quello dello Science Museum a Londra! questo punto della nostra chiacchierata, Claudio Marciano mi accompagna nell’officina della sua casetta di campagna per mostrarmi un motorino con una ventola supplementare che servirà a migliorare la circolazione dell’aria calda proprio nella Machina della Sindone. Gli dico che lo invidio, e ne approfitto per farmi regalare una ventola che mi servirà per una cappa nel mio 'laboratorio’ personale, nonché per vedere il famoso pedalò gonfiabile che lui aveva costruito anni fa, col quale passeggiava sul mare della Sardegna.
E allora lui mi racconta di una camera a diffusione, più piccola e a scopi didattici, che aveva costruito proprio qua. Durante una prova in Dipartimento, una fessura nella camera, satura di vapori di alcol metilico, aveva provocato una piccola fiammata. Da allora, con suo disappunto, non era più stata utilizzata e ora giace nel Dipartimento di Fisica.
Lo consolo lodando un apparecchio che sembra uno strumento di tortura, e che invece serve a spaccare i ceppi di legna, e il meccanismo per alzare e abbassare la scala di legno che va in mansarda...
Lo lascio con la promessa di tornare a curiosare meglio tra i suoi marchingegni. Marciano mi assicura che la prossima volta mi farà la pasta col pesto alla genovese.