Il tempo è oggetto delle elaborazioni di filosofi e artisti da millenni, e intriga tutti gli esseri umani. Il motivo è semplice: fin da tempo immemorabile ci siamo resi conto che, mentre il tempo dei fenomeni naturali è ciclico, il nostro non lo è. La rotazione della Terra definisce giorno e notte, la Luna definisce il mese, le stagioni definiscono l’anno; la nostra esistenza è inserita in un insieme di cicli naturali in cui il tempo si ripete, nascita e morte si susseguono. Per noi, invece, non è così. Il nostro tempo è lineare: una linea che si spezza brutalmente, irreparabilmente, per tutti.
Proprio per costruire qualcosa che superasse il logorio del tempo l’umanità ha prodotto le cose più belle: l’arte, la filosofia, la religione, la stessa scienza. Orazio che vuole scrivere un’ode più duratura del bronzo; le piramidi d’Egitto che devono rivaleggiare con le montagne nei secoli; Achille che disdegna una vita di contadino umile, ma lunga e prospera, preferendo una vita di guerriero valoroso che morirà giovane, ma le cui gesta saranno cantate dagli aedi per millenni: tutto ciò nasce dal tentativo umano di vincere Chrónos. I Greci erano formidabili nel costruire miti che rappresentavano le angosce più profonde. Chrónos è un Titano che divora i propri figli, come rappresentato nel quadretto (bellissimo e orribile insieme) di Goya; è il tempo che sgretola l’uomo e le sue opere, è il peggiore degli incubi. Il pensiero di ciascuno di noi vi si sofferma in alcuni momenti, più facilmente quando, trascorsi gli anni della giovinezza in cui ci si sente immortali, iniziamo a vedere i primi segni d’invecchiamento. E così cerchiamo di combattere questo destino ineluttabile.
Dagli antichi sapienti fino a Heidegger, non c’è pensatore che non abbia in qualche modo affrontato la questione del tempo; la discussione sulle infinite accezioni sviluppate sul tema sarebbe vastissima. Fra tutte, voglio sottolineare un’idea che ancora ci condiziona, e che spiega anche perché abbiamo tanta difficoltà ad accettare le idee di tempo che vengono dalla scienza moderna. Siamo figli di un’età dell’oro – il periodo che va all’incirca dal Seicento al Novecento – in cui l’idea di tempo che avevano i grandi saggi e la gente comune coincideva: era l’idea per cui esiste un orologio unico, indipendente dagli avvenimenti, che procede imperterrito col suo tic-tac. Fu il concetto teorizzato da Newton come «absolute time», un tempo libero che prescinde dai fatti della fisica. Questo stesso concetto, che guida le nostre esistenze e ci permette di organizzarci la vita, ci rende difficile fare i conti con le scoperte scientifiche degli ultimi cento anni.
Il tempo è infatti molto più complesso di quanto pensiamo. Noi esseri umani non siamo che scimmie antropomorfe, d’altronde; siamo corpi macroscopici che si muovono a velocità ridicole rispetto a quella della luce. Viviamo in un pianeta tranquillo al centro di un sistema di moti periodici ordinati, lontani dai fenomeni catastrofici che interessano il cosmo; il buco nero più vicino è a 36.000 anni luce di distanza al centro della nostra galassia, tanto lontano che possiamo anche trascurarne l’esistenza. Ma sarebbe un atto d’arroganza estendere le nostre stesse categorie a mondi molto diversi dal nostro: mondi di particelle subatomiche la cui velocità si approssima tranquillamente a quella della luce, mondi di grandi distanze e buchi neri, zone in cui lo spazio-tempo si deforma. E infatti, è come se fino ai primi anni del secolo scorso avessimo potuto intravedere solo un brandello di un grandissimo affresco, solo il tempo statico e assoluto che usiamo abitualmente. Con la teoria della relatività speciale e poi quella generale abbiamo scrostato l’intonaco scoprendo l’affresco intero: vediamo cos’è il tempo non solo nel nostro mondo, ma anche nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande.
La prima nuova caratteristica del tempo viene scoperta da Einstein nel 1905, grazie a un esperimento mentale dal risultato sconvolgente. Einstein parte dalla legge galileiana di composizione delle velocità: se sono su un treno che viaggia a 50 km/h e lancio un sasso a 50 km/h, la velocità del treno e quella del sasso rispetto al treno si compongono, così la velocità del sasso rispetto al suolo sarà di 100 km/h. Ma che succede se sul treno accendo una lampadina? La luce viaggia sempre a velocità c, il limite per qualunque oggetto che si muova nello spazio-tempo, che non può sommarsi alla velocità del treno senza violare le leggi dell’elettromagnetismo. Einstein non ha nessuna intenzione di cambiare i paradigmi della fisica; piuttosto, sta cercando di evitare una contraddizione. Il suo ragionamento, semplice eppure geniale, lo porta a concludere che se la velocità c (ovvero spazio diviso tempo) rimane costante, allora sono lo spazio e il tempo a cambiare. Spazio e tempo non sono più assoluti, ma dipendono dalla velocità, diventano plastici; se uno si allunga, l’altro si contrae. È la teoria della relatività speciale.
Emergono ora fenomeni che in apparenza sono paradossi, ma che in realtà vengono verificati quotidianamente in laboratorio: se accelero una particella come un muone in un acceleratore, la vedo vivere decine di migliaia di volte più della sua vita normale. La dilatazione temporale, ovvero il fatto che il tempo diventa una cosa plastica per un oggetto che si muove con velocità relativistiche, è un dato sperimentale che ha anche applicazioni pratiche: la utilizziamo per la produzione di radioisotopi in medicina, per esempio.
Ed è ancora nulla rispetto a ciò che avviene una decina d’anni più tardi con la rivoluzione della relatività generale. Einstein prova a descrivere la fisica delle grandi distanze cosmiche e la racchiude in un’equazione semplice, bellissima, che rappresenta una novità assoluta: mostra come lo spazio-tempo sia deformato dalla massa-energia, deformazione che chiamiamo gravità. Per fare un esempio, il Sole deforma la struttura spaziotemporale in cui si trova, creando una sorta di buca quadridimensionale; un oggetto come la Terra piazzato nelle vicinanze orbiterà intorno al Sole seguendo tale deformazione. Si tratta di salto drammatico, poiché non parliamo solo di spazio-tempo plastico, ma di spazio-tempo come sostanza materiale, una delle due componenti dell’universo insieme a massa-energia. Con l’equazione di Einstein nasce la cosmologia moderna.
Le sorprese continuano nei decenni successivi, quando si misura cosa succede allo spazio-tempo e alla massa-energia dal punto di vista dinamico, di nuovo confermando quanto stava scritto nelle equazioni di Einstein. Si osserva che, se la massa-energia implica energia positiva, all’opposto lo spazio-tempo è energia negativa, e che il totale di queste due energie di segno opposto è zero. Abbiamo quindi un universo a energia nulla, una costruzione perfetta che si forma in modo spontaneo. Uno stato di vuoto si trasforma rimanendo uno stato di vuoto, senza che ciò equivalga a un noioso “niente”; piuttosto, prende le forme meravigliose dell’universo materiale in cui viviamo. I dati sperimentali ci costringono ad accettare come reali concetti estremi che vanno ben oltre qualsiasi invenzione fantascientifica.
L’ennesima prova di quanto scritto nelle equazioni di Einstein è stata fornita nel 2016 dall’osservazione, per la prima volta, delle onde gravitazionali. A un miliardo e 400 milioni di anni luce da noi si sono fusi due buchi neri, ciascuno con una massa equivalente a trenta o quaranta masse solari e una velocità pari a 150.000 km/s, metà di quella della luce. L’enorme quantità di energia generata negli ultimi istanti prima della collisione è stata sufficiente a far vibrare lo spazio-tempo, producendo il segnale arrivato fino a noi sugli interferometri del LIGO. Lo spazio-tempo ha una costante elastica mostruosamente grande, troppo perché un oggetto costruito dall’uomo possa farla oscillare, ma i buchi neri ci sono riusciti. Anche se questo dimostra che si tratta di una sostanza materiale e non di una struttura astratta, facciamo fatica a immaginarcelo.
Einstein stesso rimase interdetto quando gli fecero notare due conseguenze delle sue equazioni di cui non si era subito reso conto. Ad accorgersi della prima fu il giovane fisico Georges Lemaître. Convinto di aver fatto uno sbaglio, Lemaître sottopose i propri calcoli a Einstein, e questi confermò che tornava tutto ma inorridì di fronte alla conclusione: stando all’equazione, lo spazio-tempo dipende dal tempo, implicando che l’universo abbia avuto un’origine. Einstein era prigioniero del pregiudizio millenario che voleva un universo eterno e immutabile, tant’è vero che aveva introdotto nelle sue equazioni la costante cosmologica per ottenere un sistema statico, che è sempre esistito e sempre esisterà. Lemaître in realtà aveva ragione. Fu poi Hubble a dimostrare che lo spazio-tempo continua a espandersi, e che proviene da una singolarità 13 o 14 miliardi di anni fa; c’è insomma stato un tempo in cui non c’era il tempo.
Un’altra idea incredibile che viene fuori da quelle stesse equazioni fu proposta poco dopo da Karl Schwarzschild. Se consideriamo una grande concentrazione di massa e si usano le equazioni della relatività per capire la sua forza di attrazione, possiamo allora calcolare che in teoria esistono oggetti sferici talmente massicci che niente, neppure la luce, riesce a sfuggire dalla loro gravità. L’idea è semplice: se lancio un sasso, la gravità terrestre lo fa ricadere sulla Terra, mentre se accendo un laser i fotoni non sono deviati significativamente dalla deformazione spaziotemporale locale vicino alla Terra. Se invece al posto della Terra consideriamo un oggetto di 10 o 20 masse solari con le caratteristiche giuste, di colpo anche questo diventa possibile. Nonostante i calcoli, per i primi sessant’anni del secolo scorso l’idea che i buchi neri fossero oggetti fisici fu considerata stravagante. La stragrande maggioranza degli scienziati la riteneva una curiosità matematica, ma impossibile nella realtà; allo stato delle conoscenze di allora, nessuno stato della materia avrebbe permesso a un oggetto di tale densità di esistere senza esplodere. Di nuovo, le cose stavano diversamente.
Penrose, premio Nobel per la Fisica 2020, fu uno dei primi insieme a Stephen Hawking a ipotizzare che i buchi neri potessero essere oggetti celesti reali. Oggi sappiamo che non solo esistono, ma anzi non sono nemmeno così rari come immaginavamo. Sono talmente presenti che può anche capitare che due si incontrino, come è accaduto nel caso della scoperta delle onde gravitazionali. La loro importanza nella dinamica dell’universo cresce ogni giorno di più. Si è scoperto, per esempio, che ci sono enormi buchi neri al centro di ogni galassia: al centro della nostra Via Lattea si trova Sagittarius A*, che ha un peso di 4 milioni di masse solari, ma ci sono galassie complicate e molto attive con al centro buchi neri molto più massicci.
Le regioni dello spazio che si trovano dentro l’orizzonte degli eventi, per ora, ci sono precluse. E non si tratta di regioni piccole: l’orizzonte degli eventi di M87, il primo buco nero di cui una rete di telescopi nel 2017 ha ricostruito un’immagine, potrebbe contenere il nostro intero sistema solare fino a Plutone. Anche se non sappiamo cosa succeda al loro interno, pensiamo che il buco nero non sia una sfera a densità uniforme, ma che l’enorme massa sia tutta concentrata in un punto infinitesimo al centro. Immaginiamo l’effetto sulla deformazione spaziotemporale: in quel punto, il tempo perde di significato. Il tempo, al centro di un buco nero, si ferma.
Torniamo così all’idea da cui eravamo partiti: il sogno di fermare il tempo. Stando alla scienza moderna esistono posti in cui ciò accade, benché siano luoghi da cui stare bene alla larga, visto che qualunque forma di materia verrebbe sbriciolata ben prima di arrivarvi. Arriviamo quasi a un intrigante paradosso. Mentre la nostra intera idea di tempo è imperniata intorno a un sistema di oggetti in movimento periodico e costante – la Terra, la Luna, il Sole stesso che compie un’orbita di 200 milioni di anni intorno a Sagittarius A* –, questo stesso sistema di orologi naturali ruota intorno all’unico punto della nostra galassia, forse, in cui il tempo non è definito o non esiste.
Proprio per costruire qualcosa che superasse il logorio del tempo l’umanità ha prodotto le cose più belle: l’arte, la filosofia, la religione, la stessa scienza. Orazio che vuole scrivere un’ode più duratura del bronzo; le piramidi d’Egitto che devono rivaleggiare con le montagne nei secoli; Achille che disdegna una vita di contadino umile, ma lunga e prospera, preferendo una vita di guerriero valoroso che morirà giovane, ma le cui gesta saranno cantate dagli aedi per millenni: tutto ciò nasce dal tentativo umano di vincere Chrónos. I Greci erano formidabili nel costruire miti che rappresentavano le angosce più profonde. Chrónos è un Titano che divora i propri figli, come rappresentato nel quadretto (bellissimo e orribile insieme) di Goya; è il tempo che sgretola l’uomo e le sue opere, è il peggiore degli incubi. Il pensiero di ciascuno di noi vi si sofferma in alcuni momenti, più facilmente quando, trascorsi gli anni della giovinezza in cui ci si sente immortali, iniziamo a vedere i primi segni d’invecchiamento. E così cerchiamo di combattere questo destino ineluttabile.
Dagli antichi sapienti fino a Heidegger, non c’è pensatore che non abbia in qualche modo affrontato la questione del tempo; la discussione sulle infinite accezioni sviluppate sul tema sarebbe vastissima. Fra tutte, voglio sottolineare un’idea che ancora ci condiziona, e che spiega anche perché abbiamo tanta difficoltà ad accettare le idee di tempo che vengono dalla scienza moderna. Siamo figli di un’età dell’oro – il periodo che va all’incirca dal Seicento al Novecento – in cui l’idea di tempo che avevano i grandi saggi e la gente comune coincideva: era l’idea per cui esiste un orologio unico, indipendente dagli avvenimenti, che procede imperterrito col suo tic-tac. Fu il concetto teorizzato da Newton come «absolute time», un tempo libero che prescinde dai fatti della fisica. Questo stesso concetto, che guida le nostre esistenze e ci permette di organizzarci la vita, ci rende difficile fare i conti con le scoperte scientifiche degli ultimi cento anni.
Il tempo è infatti molto più complesso di quanto pensiamo. Noi esseri umani non siamo che scimmie antropomorfe, d’altronde; siamo corpi macroscopici che si muovono a velocità ridicole rispetto a quella della luce. Viviamo in un pianeta tranquillo al centro di un sistema di moti periodici ordinati, lontani dai fenomeni catastrofici che interessano il cosmo; il buco nero più vicino è a 36.000 anni luce di distanza al centro della nostra galassia, tanto lontano che possiamo anche trascurarne l’esistenza. Ma sarebbe un atto d’arroganza estendere le nostre stesse categorie a mondi molto diversi dal nostro: mondi di particelle subatomiche la cui velocità si approssima tranquillamente a quella della luce, mondi di grandi distanze e buchi neri, zone in cui lo spazio-tempo si deforma. E infatti, è come se fino ai primi anni del secolo scorso avessimo potuto intravedere solo un brandello di un grandissimo affresco, solo il tempo statico e assoluto che usiamo abitualmente. Con la teoria della relatività speciale e poi quella generale abbiamo scrostato l’intonaco scoprendo l’affresco intero: vediamo cos’è il tempo non solo nel nostro mondo, ma anche nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande.
La prima nuova caratteristica del tempo viene scoperta da Einstein nel 1905, grazie a un esperimento mentale dal risultato sconvolgente. Einstein parte dalla legge galileiana di composizione delle velocità: se sono su un treno che viaggia a 50 km/h e lancio un sasso a 50 km/h, la velocità del treno e quella del sasso rispetto al treno si compongono, così la velocità del sasso rispetto al suolo sarà di 100 km/h. Ma che succede se sul treno accendo una lampadina? La luce viaggia sempre a velocità c, il limite per qualunque oggetto che si muova nello spazio-tempo, che non può sommarsi alla velocità del treno senza violare le leggi dell’elettromagnetismo. Einstein non ha nessuna intenzione di cambiare i paradigmi della fisica; piuttosto, sta cercando di evitare una contraddizione. Il suo ragionamento, semplice eppure geniale, lo porta a concludere che se la velocità c (ovvero spazio diviso tempo) rimane costante, allora sono lo spazio e il tempo a cambiare. Spazio e tempo non sono più assoluti, ma dipendono dalla velocità, diventano plastici; se uno si allunga, l’altro si contrae. È la teoria della relatività speciale.
Emergono ora fenomeni che in apparenza sono paradossi, ma che in realtà vengono verificati quotidianamente in laboratorio: se accelero una particella come un muone in un acceleratore, la vedo vivere decine di migliaia di volte più della sua vita normale. La dilatazione temporale, ovvero il fatto che il tempo diventa una cosa plastica per un oggetto che si muove con velocità relativistiche, è un dato sperimentale che ha anche applicazioni pratiche: la utilizziamo per la produzione di radioisotopi in medicina, per esempio.
Ed è ancora nulla rispetto a ciò che avviene una decina d’anni più tardi con la rivoluzione della relatività generale. Einstein prova a descrivere la fisica delle grandi distanze cosmiche e la racchiude in un’equazione semplice, bellissima, che rappresenta una novità assoluta: mostra come lo spazio-tempo sia deformato dalla massa-energia, deformazione che chiamiamo gravità. Per fare un esempio, il Sole deforma la struttura spaziotemporale in cui si trova, creando una sorta di buca quadridimensionale; un oggetto come la Terra piazzato nelle vicinanze orbiterà intorno al Sole seguendo tale deformazione. Si tratta di salto drammatico, poiché non parliamo solo di spazio-tempo plastico, ma di spazio-tempo come sostanza materiale, una delle due componenti dell’universo insieme a massa-energia. Con l’equazione di Einstein nasce la cosmologia moderna.
Le sorprese continuano nei decenni successivi, quando si misura cosa succede allo spazio-tempo e alla massa-energia dal punto di vista dinamico, di nuovo confermando quanto stava scritto nelle equazioni di Einstein. Si osserva che, se la massa-energia implica energia positiva, all’opposto lo spazio-tempo è energia negativa, e che il totale di queste due energie di segno opposto è zero. Abbiamo quindi un universo a energia nulla, una costruzione perfetta che si forma in modo spontaneo. Uno stato di vuoto si trasforma rimanendo uno stato di vuoto, senza che ciò equivalga a un noioso “niente”; piuttosto, prende le forme meravigliose dell’universo materiale in cui viviamo. I dati sperimentali ci costringono ad accettare come reali concetti estremi che vanno ben oltre qualsiasi invenzione fantascientifica.
L’ennesima prova di quanto scritto nelle equazioni di Einstein è stata fornita nel 2016 dall’osservazione, per la prima volta, delle onde gravitazionali. A un miliardo e 400 milioni di anni luce da noi si sono fusi due buchi neri, ciascuno con una massa equivalente a trenta o quaranta masse solari e una velocità pari a 150.000 km/s, metà di quella della luce. L’enorme quantità di energia generata negli ultimi istanti prima della collisione è stata sufficiente a far vibrare lo spazio-tempo, producendo il segnale arrivato fino a noi sugli interferometri del LIGO. Lo spazio-tempo ha una costante elastica mostruosamente grande, troppo perché un oggetto costruito dall’uomo possa farla oscillare, ma i buchi neri ci sono riusciti. Anche se questo dimostra che si tratta di una sostanza materiale e non di una struttura astratta, facciamo fatica a immaginarcelo.
Einstein stesso rimase interdetto quando gli fecero notare due conseguenze delle sue equazioni di cui non si era subito reso conto. Ad accorgersi della prima fu il giovane fisico Georges Lemaître. Convinto di aver fatto uno sbaglio, Lemaître sottopose i propri calcoli a Einstein, e questi confermò che tornava tutto ma inorridì di fronte alla conclusione: stando all’equazione, lo spazio-tempo dipende dal tempo, implicando che l’universo abbia avuto un’origine. Einstein era prigioniero del pregiudizio millenario che voleva un universo eterno e immutabile, tant’è vero che aveva introdotto nelle sue equazioni la costante cosmologica per ottenere un sistema statico, che è sempre esistito e sempre esisterà. Lemaître in realtà aveva ragione. Fu poi Hubble a dimostrare che lo spazio-tempo continua a espandersi, e che proviene da una singolarità 13 o 14 miliardi di anni fa; c’è insomma stato un tempo in cui non c’era il tempo.
Un’altra idea incredibile che viene fuori da quelle stesse equazioni fu proposta poco dopo da Karl Schwarzschild. Se consideriamo una grande concentrazione di massa e si usano le equazioni della relatività per capire la sua forza di attrazione, possiamo allora calcolare che in teoria esistono oggetti sferici talmente massicci che niente, neppure la luce, riesce a sfuggire dalla loro gravità. L’idea è semplice: se lancio un sasso, la gravità terrestre lo fa ricadere sulla Terra, mentre se accendo un laser i fotoni non sono deviati significativamente dalla deformazione spaziotemporale locale vicino alla Terra. Se invece al posto della Terra consideriamo un oggetto di 10 o 20 masse solari con le caratteristiche giuste, di colpo anche questo diventa possibile. Nonostante i calcoli, per i primi sessant’anni del secolo scorso l’idea che i buchi neri fossero oggetti fisici fu considerata stravagante. La stragrande maggioranza degli scienziati la riteneva una curiosità matematica, ma impossibile nella realtà; allo stato delle conoscenze di allora, nessuno stato della materia avrebbe permesso a un oggetto di tale densità di esistere senza esplodere. Di nuovo, le cose stavano diversamente.
Penrose, premio Nobel per la Fisica 2020, fu uno dei primi insieme a Stephen Hawking a ipotizzare che i buchi neri potessero essere oggetti celesti reali. Oggi sappiamo che non solo esistono, ma anzi non sono nemmeno così rari come immaginavamo. Sono talmente presenti che può anche capitare che due si incontrino, come è accaduto nel caso della scoperta delle onde gravitazionali. La loro importanza nella dinamica dell’universo cresce ogni giorno di più. Si è scoperto, per esempio, che ci sono enormi buchi neri al centro di ogni galassia: al centro della nostra Via Lattea si trova Sagittarius A*, che ha un peso di 4 milioni di masse solari, ma ci sono galassie complicate e molto attive con al centro buchi neri molto più massicci.
Le regioni dello spazio che si trovano dentro l’orizzonte degli eventi, per ora, ci sono precluse. E non si tratta di regioni piccole: l’orizzonte degli eventi di M87, il primo buco nero di cui una rete di telescopi nel 2017 ha ricostruito un’immagine, potrebbe contenere il nostro intero sistema solare fino a Plutone. Anche se non sappiamo cosa succeda al loro interno, pensiamo che il buco nero non sia una sfera a densità uniforme, ma che l’enorme massa sia tutta concentrata in un punto infinitesimo al centro. Immaginiamo l’effetto sulla deformazione spaziotemporale: in quel punto, il tempo perde di significato. Il tempo, al centro di un buco nero, si ferma.
Torniamo così all’idea da cui eravamo partiti: il sogno di fermare il tempo. Stando alla scienza moderna esistono posti in cui ciò accade, benché siano luoghi da cui stare bene alla larga, visto che qualunque forma di materia verrebbe sbriciolata ben prima di arrivarvi. Arriviamo quasi a un intrigante paradosso. Mentre la nostra intera idea di tempo è imperniata intorno a un sistema di oggetti in movimento periodico e costante – la Terra, la Luna, il Sole stesso che compie un’orbita di 200 milioni di anni intorno a Sagittarius A* –, questo stesso sistema di orologi naturali ruota intorno all’unico punto della nostra galassia, forse, in cui il tempo non è definito o non esiste.