All’inizio dello scorso agosto, in occasione del centesimo anniversario della scomparsa dell’archeologo dilettante Charles Dawson (1864-1916) sono stati resi pubblici i risultati di una serie di nuove ricerche, in corso da qualche anno, sui reperti legati al cosiddetto “uomo di Piltdown” o Eoanthropus dawsoni (“uomo alba di Dawson”), come era stato denominato all’epoca della sua presentazione alla comunità scientifica. L’articolo, apparso su una rivista open access, Royal Society Open Science, è il frutto della collaborazione di un nutrito gruppo di studiosi, coordinati dai paleoantropologi Isabelle De Groote e Chris Brian Sringer[1].
La storia è probabilmente nota a molti dei lettori di Query. Ne aveva parlato, ad esempio, Sergio De Santis su Scienza & Paranormale (n. 43 e 44). In questa sede, quindi, ci limiteremo ad accennarla. Nel dicembre del 1912, un affermato paleontologo, Arthur Smith Woodward (1864-1944), insieme a Dawson, che era un archeologo dilettante, come dicevamo, ma comunque un fellow della Geological Society e della Society of Antiquaries of London con oltre cinquanta articoli - come autore o co-autore - al suo attivo, presentarono al pubblico quanto a partire dal 1908 (o almeno così il secondo affermava) era stato reperito a Piltdown, nella contea del Sussex, nell’Inghilterra meridionale. Si trattava di parte di una mandibola simile a quella di una scimmia e di diversi frammenti di un cranio, che appariva umano: gli strumenti litici e i mammiferi fossili che erano stati ritrovati nello stesso sito portavano a datare E. dawsoni al primo Pleistocene o, piuttosto, addirittura al Pliocene (nell’accezione che queste due epoche avevano agli inizi del Novecento). Come ha ricordato il paleontologo inglese Darren Naish in un intervento sul suo blog Tetrapod Zoology ospitato dalla piattaforma web della rivista Scientific American, «l’uomo di Piltdown corrispondeva alle aspettative degli inizi del ventesimo secolo su come un antenato degli umani poteva essere. Abbinava un cervello di grandi dimensioni con una mandibola simile a quella di una scimmia (confermando quindi l’idea che l’evoluzione di cervelli grandi avesse aperto la strada all’evoluzione degli ominidi), ed era vissuto in Europa (confermando che [questo] fosse un evento euroasiatico [...])»[2]. Negli anni successivi, sempre in presenza di Dawson, altri reperti erano stati raccolti nello stesso sito (poi noto come Piltdown I). Nel 1915, un anno prima di morire, l’appassionato aveva raccontato di aver ritrovato in una diversa località sempre nelle vicinanze (Piltdown II) altri resti attribuibili all’Uomo di Piltdown.
Per quanto il “fossile” avesse sollevato dubbi già in quei primi anni, questi rimasero minoritari all’interno della comunità scientifica[3] e E. dawsoni fu ritenuta per decenni una specie legittima, da considerare quando si tentava di ricostruire l’albero genealogico umano. Fu solo nei primi anni Cinquanta, riesaminando i reperti originali cui fino ad allora era stato garantito scarso accesso, che i "paleo-antropologi" Kenneth Page Oakley, Wilfrid Edward Le Gros Clark e Joseph Weiner dimostrarono che ci si trovava di fronte ad un falso, prodotto utilizzando una mandibola di una qualche specie di scimmia e frammenti di crani umani. Da quel momento, si è aperta la caccia al responsabile della frode: Dawson è sempre stato il principale sospettato, mentre altri nomi, compreso quello dello stesso Smith Woodward, sono stati chiamati in causa, come protagonisti o comprimari, nel corso del tempo.
De Groote e Stinger si sono chiesti se le nuove tecniche di analisi oggi utilizzate nel campo delle scienze forensi e degli studi museali potevano essere in grado di fornire maggiori informazioni su come era stato realizzato il falso. Hanno quindi messo insieme un gruppo di specialisti in diverse discipline ("paleo-antropologi", bioarcheologi, esperti di analisi scientifiche applicate a materiali conservati in collezioni museali etc.), che hanno sottoposto i reperti ad una nuova serie di analisi morfometriche, genetiche, chimico-fisiche e di diagnostica per immagini. Non sempre sono riusciti a farli “parlare”, ma hanno comunque avuto modo di ottenere alcune risposte.
In letteratura, la mandibola era stata attribuita al genere Pongo, che comprende due diverse specie, gli oranghi del Borneo (P. pygmaeus) e di Sumatra (P. abelii). Il tentativo di estrarre materiale genetico utilizzabile da questa è purtroppo fallito, ma analisi morfometriche hanno potuto confermare che la mandibola è compatibile con due denti isolati, un canino ed un molare, recuperati in momenti successivi da Dawson rispettivamente a Piltdown I e Piltdown II. Il DNA recuperato da questi ultimi indica che presumibilmente provengono dallo stesso individuo, un orango del Borneo geneticamente vicino alla popolazione che oggi vive nel Sarawak sud-occidentale (odierna Malesia), confermando e precisando così l’ipotesi iniziale. Forse si trattava di resti scheletrici provenienti da una qualche raccolta museale o collezione privata cui il falsario aveva avuto accesso: una datazione “certa” potrebbe essere indicativa, ma mentre due precedenti test del C14 pubblicati in letteratura avevano dato risultati discordanti (500 +/- 100 e 90 +/- 120 anni fa, quest’ultimo piuttosto in linea con il periodo della “scoperta”), in questo caso il campione - della stessa mandibola - era troppo contaminato per essere utilizzato.
Risultati di minor conto sono invece stati ottenuti sui frammenti di cranio umano: il numero e la tipologia di questi indica che sono stati utilizzati almeno due, se non tre, crani diversi, ma disgraziatamente sono falliti anche in questo caso, per cause diverse, i tentativi di datazione su alcuni frammenti attraverso il test del C14, cosa che, come per i resti dell’orango, porta gli autori a suggerire una grande cautela nel considerare i risultati - divergenti, seppure comunque medievali - ottenuti da altri laboratori in passato, perché è possibile che siano inficiati dai problemi rilevati in questa occasione.
Più interessanti, invece, i risultati ottenuti attraverso la tomografia computerizzata, una metodica di diagnostica per immagini, e quindi non distruttiva, che attraverso i raggi X permette di riprodurre sezioni del reperto e vederne l’interno. Come ha spiegato De Groote in un articolo divulgativo uscito sempre lo stesso 10 agosto, «abbiamo notato che molte delle ossa e dei denti sono stati riempiti con ghiaia a quella di Piltdown mantenuta in quella posizione con un tampone [sempre dello stesso materiale]»[4]. Ci si potrebbe chiedere perché un falsario avrebbe dovuto perdere del tempo in dettagli che possono sembrare irrilevanti. In questo modo, però, le ossa apparivano più pesanti e quindi più con le caratteristiche di un fossile. Non solo: il fatto che il materiale estraneo fosse compatibile con quello del sito poteva essere un falso indizio per far credere che le ossa fossero lì da tempo. Un’impressione ottenuta dal falsario anche grazie alla colorazione delle ossa con tinture marroni/rossastre, che l’analisi spettrografica non ha permesso di identificare con certezza: erano probabilmente però ricche di ferro, e in alcuni casi, di cromo e argento. Il falsario, però, non doveva essere un conservatore esperto: le tomografie hanno infatti permesso di rilevare una serie di danni rozzi riconducibili alla preparazione degli artefatti. Come notano gli autori, «forse, se i cinque anni della Prima Guerra Mondiale non si fossero frapposti e se ad un maggior numero di persone fosse stato dato accesso agli originali che ai calchi il falso sarebbe stato scoperto prima».
Secondo gli autori, «l’uniformità del modus operandi rilevabile dai resti, e l’utilizzo di un limitato numero di esemplari per creare il materiale sia di Piltdown I che di Piltdown II sono indicativi di un singolo falsario. Questo è stato molto probabilmente Charles Dawson» (e ancora «se Dawson abbia agito da solo non è certo»). Un’ipotesi che è però diventata certezza in molti degli articoli divulgativi scritti a riguardo, spesso conditi con affermazioni come «risolto il mistero di Piltdown». In realtà gli autori dello studio appaiono consapevoli che, pur avendo portato ad una nuova comprensione di come sia stata realizzata la frode, i nuovi risultati non possono essere determinanti per identificare con certezza il colpevole. Al limite, possono essere utili per rinforzare o indebolire le ipotesi che sono già state fatte in questi sessant’anni.
Mettiamo il caso che, come è probabile, la frode di Piltdown sia però dovuta davvero a Dawson. Perché l’ha fatto? Come avevamo scritto sul precedente numero di Query occupandoci del cosiddetto Vangelo della moglie di Gesù, è difficile dire con certezza perché qualcuno decida di creare un falso. In questo caso, per De Groote et al. è possibile che lo scopo principale dello studioso per diletto fosse quello di ottenere un riconoscimento dei suoi successi come archeologo e paleontologo, ad esempio attraverso l’elezione tra i fellow della Royal Society, un obiettivo che effettivamente non conseguì nel 1913. C’è da dire che ricerche precedenti hanno ritenuto che alla base di diversi degli articoli pubblicati da Dawson prima dell’esplosione della faccenda di Piltdown ci fossero, in realtà, delle frodi. Un «falsario seriale», quindi, come lo ha descritto De Groote[5].
Se per la storia della scienza si tratta di una vicenda estremamente interessante, ci si potrebbe chiedere perché dovrebbe ancora interessare i paleoantropologi di oggi - come sono De Groote, Stringer e altri autori del recente articolo. Una possibile risposta è fornita proprio da De Groote nell’articolo di Michael Price sul sito di Science: «per quanto sia improbabile che una bufala così sfacciata come questa si verifichi di nuovo nell’antropologia fisica grazie alla raffinatezza delle tecniche di analisi contemporanee - dice - c’è ancora il rischio di essere troppo rapidi nell’accettare interpretazioni che corrispondono a quanto gli scienziati si attendono di trovare. Questo è specialmente vero quando gli antropologi ammassano [e sostanzialmente celano agli altri] le loro collezioni - continua De Groote - cosa che rimane fin troppo comune nel suo campo. L’uomo di Piltdown costituisce un buon esempio della necessità per noi di fare un passo indietro e guardare alle prove per quel che sono - dice - e non per quanto confermano i nostri preconcetti»[6].
Si ringrazia per la collaborazione Sofia Lincos.
La storia è probabilmente nota a molti dei lettori di Query. Ne aveva parlato, ad esempio, Sergio De Santis su Scienza & Paranormale (n. 43 e 44). In questa sede, quindi, ci limiteremo ad accennarla. Nel dicembre del 1912, un affermato paleontologo, Arthur Smith Woodward (1864-1944), insieme a Dawson, che era un archeologo dilettante, come dicevamo, ma comunque un fellow della Geological Society e della Society of Antiquaries of London con oltre cinquanta articoli - come autore o co-autore - al suo attivo, presentarono al pubblico quanto a partire dal 1908 (o almeno così il secondo affermava) era stato reperito a Piltdown, nella contea del Sussex, nell’Inghilterra meridionale. Si trattava di parte di una mandibola simile a quella di una scimmia e di diversi frammenti di un cranio, che appariva umano: gli strumenti litici e i mammiferi fossili che erano stati ritrovati nello stesso sito portavano a datare E. dawsoni al primo Pleistocene o, piuttosto, addirittura al Pliocene (nell’accezione che queste due epoche avevano agli inizi del Novecento). Come ha ricordato il paleontologo inglese Darren Naish in un intervento sul suo blog Tetrapod Zoology ospitato dalla piattaforma web della rivista Scientific American, «l’uomo di Piltdown corrispondeva alle aspettative degli inizi del ventesimo secolo su come un antenato degli umani poteva essere. Abbinava un cervello di grandi dimensioni con una mandibola simile a quella di una scimmia (confermando quindi l’idea che l’evoluzione di cervelli grandi avesse aperto la strada all’evoluzione degli ominidi), ed era vissuto in Europa (confermando che [questo] fosse un evento euroasiatico [...])»[2]. Negli anni successivi, sempre in presenza di Dawson, altri reperti erano stati raccolti nello stesso sito (poi noto come Piltdown I). Nel 1915, un anno prima di morire, l’appassionato aveva raccontato di aver ritrovato in una diversa località sempre nelle vicinanze (Piltdown II) altri resti attribuibili all’Uomo di Piltdown.
Per quanto il “fossile” avesse sollevato dubbi già in quei primi anni, questi rimasero minoritari all’interno della comunità scientifica[3] e E. dawsoni fu ritenuta per decenni una specie legittima, da considerare quando si tentava di ricostruire l’albero genealogico umano. Fu solo nei primi anni Cinquanta, riesaminando i reperti originali cui fino ad allora era stato garantito scarso accesso, che i "paleo-antropologi" Kenneth Page Oakley, Wilfrid Edward Le Gros Clark e Joseph Weiner dimostrarono che ci si trovava di fronte ad un falso, prodotto utilizzando una mandibola di una qualche specie di scimmia e frammenti di crani umani. Da quel momento, si è aperta la caccia al responsabile della frode: Dawson è sempre stato il principale sospettato, mentre altri nomi, compreso quello dello stesso Smith Woodward, sono stati chiamati in causa, come protagonisti o comprimari, nel corso del tempo.
De Groote e Stinger si sono chiesti se le nuove tecniche di analisi oggi utilizzate nel campo delle scienze forensi e degli studi museali potevano essere in grado di fornire maggiori informazioni su come era stato realizzato il falso. Hanno quindi messo insieme un gruppo di specialisti in diverse discipline ("paleo-antropologi", bioarcheologi, esperti di analisi scientifiche applicate a materiali conservati in collezioni museali etc.), che hanno sottoposto i reperti ad una nuova serie di analisi morfometriche, genetiche, chimico-fisiche e di diagnostica per immagini. Non sempre sono riusciti a farli “parlare”, ma hanno comunque avuto modo di ottenere alcune risposte.
In letteratura, la mandibola era stata attribuita al genere Pongo, che comprende due diverse specie, gli oranghi del Borneo (P. pygmaeus) e di Sumatra (P. abelii). Il tentativo di estrarre materiale genetico utilizzabile da questa è purtroppo fallito, ma analisi morfometriche hanno potuto confermare che la mandibola è compatibile con due denti isolati, un canino ed un molare, recuperati in momenti successivi da Dawson rispettivamente a Piltdown I e Piltdown II. Il DNA recuperato da questi ultimi indica che presumibilmente provengono dallo stesso individuo, un orango del Borneo geneticamente vicino alla popolazione che oggi vive nel Sarawak sud-occidentale (odierna Malesia), confermando e precisando così l’ipotesi iniziale. Forse si trattava di resti scheletrici provenienti da una qualche raccolta museale o collezione privata cui il falsario aveva avuto accesso: una datazione “certa” potrebbe essere indicativa, ma mentre due precedenti test del C14 pubblicati in letteratura avevano dato risultati discordanti (500 +/- 100 e 90 +/- 120 anni fa, quest’ultimo piuttosto in linea con il periodo della “scoperta”), in questo caso il campione - della stessa mandibola - era troppo contaminato per essere utilizzato.
Risultati di minor conto sono invece stati ottenuti sui frammenti di cranio umano: il numero e la tipologia di questi indica che sono stati utilizzati almeno due, se non tre, crani diversi, ma disgraziatamente sono falliti anche in questo caso, per cause diverse, i tentativi di datazione su alcuni frammenti attraverso il test del C14, cosa che, come per i resti dell’orango, porta gli autori a suggerire una grande cautela nel considerare i risultati - divergenti, seppure comunque medievali - ottenuti da altri laboratori in passato, perché è possibile che siano inficiati dai problemi rilevati in questa occasione.
Più interessanti, invece, i risultati ottenuti attraverso la tomografia computerizzata, una metodica di diagnostica per immagini, e quindi non distruttiva, che attraverso i raggi X permette di riprodurre sezioni del reperto e vederne l’interno. Come ha spiegato De Groote in un articolo divulgativo uscito sempre lo stesso 10 agosto, «abbiamo notato che molte delle ossa e dei denti sono stati riempiti con ghiaia a quella di Piltdown mantenuta in quella posizione con un tampone [sempre dello stesso materiale]»[4]. Ci si potrebbe chiedere perché un falsario avrebbe dovuto perdere del tempo in dettagli che possono sembrare irrilevanti. In questo modo, però, le ossa apparivano più pesanti e quindi più con le caratteristiche di un fossile. Non solo: il fatto che il materiale estraneo fosse compatibile con quello del sito poteva essere un falso indizio per far credere che le ossa fossero lì da tempo. Un’impressione ottenuta dal falsario anche grazie alla colorazione delle ossa con tinture marroni/rossastre, che l’analisi spettrografica non ha permesso di identificare con certezza: erano probabilmente però ricche di ferro, e in alcuni casi, di cromo e argento. Il falsario, però, non doveva essere un conservatore esperto: le tomografie hanno infatti permesso di rilevare una serie di danni rozzi riconducibili alla preparazione degli artefatti. Come notano gli autori, «forse, se i cinque anni della Prima Guerra Mondiale non si fossero frapposti e se ad un maggior numero di persone fosse stato dato accesso agli originali che ai calchi il falso sarebbe stato scoperto prima».
Secondo gli autori, «l’uniformità del modus operandi rilevabile dai resti, e l’utilizzo di un limitato numero di esemplari per creare il materiale sia di Piltdown I che di Piltdown II sono indicativi di un singolo falsario. Questo è stato molto probabilmente Charles Dawson» (e ancora «se Dawson abbia agito da solo non è certo»). Un’ipotesi che è però diventata certezza in molti degli articoli divulgativi scritti a riguardo, spesso conditi con affermazioni come «risolto il mistero di Piltdown». In realtà gli autori dello studio appaiono consapevoli che, pur avendo portato ad una nuova comprensione di come sia stata realizzata la frode, i nuovi risultati non possono essere determinanti per identificare con certezza il colpevole. Al limite, possono essere utili per rinforzare o indebolire le ipotesi che sono già state fatte in questi sessant’anni.
Mettiamo il caso che, come è probabile, la frode di Piltdown sia però dovuta davvero a Dawson. Perché l’ha fatto? Come avevamo scritto sul precedente numero di Query occupandoci del cosiddetto Vangelo della moglie di Gesù, è difficile dire con certezza perché qualcuno decida di creare un falso. In questo caso, per De Groote et al. è possibile che lo scopo principale dello studioso per diletto fosse quello di ottenere un riconoscimento dei suoi successi come archeologo e paleontologo, ad esempio attraverso l’elezione tra i fellow della Royal Society, un obiettivo che effettivamente non conseguì nel 1913. C’è da dire che ricerche precedenti hanno ritenuto che alla base di diversi degli articoli pubblicati da Dawson prima dell’esplosione della faccenda di Piltdown ci fossero, in realtà, delle frodi. Un «falsario seriale», quindi, come lo ha descritto De Groote[5].
Se per la storia della scienza si tratta di una vicenda estremamente interessante, ci si potrebbe chiedere perché dovrebbe ancora interessare i paleoantropologi di oggi - come sono De Groote, Stringer e altri autori del recente articolo. Una possibile risposta è fornita proprio da De Groote nell’articolo di Michael Price sul sito di Science: «per quanto sia improbabile che una bufala così sfacciata come questa si verifichi di nuovo nell’antropologia fisica grazie alla raffinatezza delle tecniche di analisi contemporanee - dice - c’è ancora il rischio di essere troppo rapidi nell’accettare interpretazioni che corrispondono a quanto gli scienziati si attendono di trovare. Questo è specialmente vero quando gli antropologi ammassano [e sostanzialmente celano agli altri] le loro collezioni - continua De Groote - cosa che rimane fin troppo comune nel suo campo. L’uomo di Piltdown costituisce un buon esempio della necessità per noi di fare un passo indietro e guardare alle prove per quel che sono - dice - e non per quanto confermano i nostri preconcetti»[6].
Si ringrazia per la collaborazione Sofia Lincos.
Note
1) De Groote, I. et al. 2016. New genetic and morphological evidence suggests a single hoaxer created ‘Piltdown man’. “Royal Society Open Science” vol. 3, n. 8, 160328, DOI: 10.1098/rsos.160328. Disponibile all'url https://tinyurl.com/gu8la9p
3) Si veda nota 2.
5) Si veda nota 4.
6) Price, M. August 9 2016. Study reveals culprit behind Piltdown Man, one of science’s most famous hoaxes. Science website, DOI: 10.1126/science.aag0741. Disponibile all'url http://www.sciencemag.org/news/2016/08/study-reveals-culprit-behind-piltdown-man-one-sc...