Avete mai sentito parlare di un'antica civiltà presente in Nordamerica molti secoli prima di Colombo, in grado di fondare città di decine di migliaia di abitanti, costruire alcune tra le più grandi piramidi del mondo e produrre raffinati manufatti in ceramica e metalli preziosi? Se la risposta è no, siete in buona compagnia: anche gran parte degli americani di oggi non conosce la civiltà dei “costruttori di tumuli”, che pure nell'Ottocento fu al centro di un'accesa controversia, in qualche modo anticipatrice delle attuali discussioni sull'archeologia misteriosa.
Di che cosa si tratta? I tumuli sono terrapieni a forma di tronco di cono o di piramide, contenenti spesso camere funerarie destinate ad autorità civili o religiose, oltre a manufatti di pregio in vari materiali come ossidiana, mica, saponaria, ferro, rame e perfino oro e argento. Se ne trovano decine di migliaia, realizzati in un arco di tempo di circa 5000 anni, tra il 3500 a.C. e il XVI secolo, nella regione centro-orientale degli Stati Uniti, soprattutto lungo i fiumi principali dell'area, come l'Ohio, il Mississipi e il Missouri. Molti sono grandi e imponenti come quelli di Cahokia (Illinois), Moundville (Alabama) e Poverty Point (Louisiana): il Tumulo del Monaco, che si trova a Cahokia, è composto da oltre 560.000 metri cubi di terra ed è una delle più grandi piramidi al mondo, comprese quelle d'Egitto e del Mesoamerica. Alcuni tumuli sono piccoli e si notano a malapena; altri ancora formano elaborati disegni geometrici che si possono vedere solo dall'alto, come le linee di Nazca.
Nell'America precolombiana i tumuli erano i centri sociali e politici di società complesse e vivaci come la cultura Adena, la cultura Hopewell e la cultura del Mississippi: alcuni studiosi stimano che al suo picco, nel 1100-1200, la città di Cahokia, centro di un'intensa rete di scambi commerciali, avesse una popolazione di 30-40.000 abitanti. Se queste stime sono corrette, Cahokia sarebbe stata superata da Filadelfia come città più popolata nella storia del Nordamerica soltanto alla fine del Settecento.
Quando i nativi americani incontrarono gli esploratori spagnoli, nel XVI secolo, la costruzione di tumuli era ancora in corso; ma quando cominciò l'espansione degli Stati Uniti verso ovest, circa due secoli più tardi, i nativi avevano smesso di costruire tumuli e il significato di quei monumenti era ormai sconosciuto. Tra i primi a interrogarsi sul mistero dei tumuli vi furono alcuni padri fondatori degli Stati Uniti, come Benjamin Franklin e il terzo presidente Thomas Jefferson, che condusse studi scientifici su un tumulo nella sua proprietà di Monticello (Virginia), arrivando alla conclusione che vi fossero stati seppelliti più di mille corpi umani lungo un arco di tempo di diversi secoli.
All'epoca di Franklin e Jefferson la maggior parte degli americani pensava che gli “Indiani d'America” fossero troppo primitivi e selvaggi per aver potuto realizzare quelle costruzioni monumentali e quei manufatti così pregiati. Molti cominciarono invece a pensare che i tumuli fossero l'opera di un'antica civiltà – la “razza perduta” – che si era estinta prima dello sbarco di Colombo.
Dalla fine del Settecento in poi si moltiplicarono le ipotesi sull'identità dei costruttori di tumuli: esploratori vichinghi, egizi, ebrei, greci, romani, celti, norvegesi, fenici, africani, indiani (asiatici) e perfino superstiti di Atlantide; praticamente tutti i popoli tranne i nativi americani.
Il più popolare sostenitore della teoria della “razza perduta” fu forse Josiah Priest, il cui libro American Antiquities and Discoveries in the West (1833) divenne un bestseller con decine di migliaia di copie vendute e contribuì a diffondere l'idea dei costruttori di tumuli come una razza bianca di guerrieri poi estinta, forse sterminata dagli antenati dei nativi americani.
Perché il mito della “razza perduta” ebbe tanto successo? Il primo a rispondere in modo convincente a questa domanda, curiosamente, non fu uno scienziato, ma lo scrittore di fantascienza Robert Silverberg, in un bel saggio del 1968: il mito dei costruttori di tumuli era motivato politicamente. Se i nativi americani erano selvaggi incapaci di conquiste culturali significative, il loro sterminio diventava meno grave; se per di più avevano preso il posto della razza perduta, non potevano nemmeno vantare diritti di proprietà sulla terra; se infine l'antica razza sterminata dagli antenati dei nativi americani era di origine europea, il cerchio era completo. Nell'uccidere i nativi americani per impossessarsi dei loro territori, gli americani non stavano facendo altro che riprendersi ciò che molti secoli prima era appartenuto ai loro antenati. Per questa ragione le poche voci critiche, che sostenevano che i costruttori di tumuli fossero in realtà i nativi americani stessi, vennero a lungo ignorate.
L'interesse verso i costruttori di tumuli continuò a crescere durante il XIX secolo, di pari passo con l'insediamento dei bianchi nel Midwest, centro della cultura dei tumuli: proprio gli interrogativi sulle origini dei tumuli contribuirono a sviluppare l'archeologia americana e a farla evolvere da un piano prevalentemente speculativo verso la direzione dell'indagine empirica e della classificazione dei reperti. Il primo studio sistematico sui tumuli fu condotto da Ephraim G. Squier, un ingegnere civile, e Edwin H. Davis, un medico, tra il 1845 e il 1847: i due appassionati fecero scavi e ricerche su circa duecento siti, fornendo mappe e disegni dettagliati. Squier e Davis suggerirono un collegamento tra i costruttori di tumuli e le culture del Messico, Centroamerica e Perù e si trattennero da speculazioni sulla loro origine.
La tesi della “razza perduta” sembrò essere rafforzata da diversi ritrovamenti di tavolette con iscrizioni alfabetiche in lingue estranee al continente americano: il caso più famoso è quello delle “tavolette di Davenport”, due tavolette di ardesia incise ritrovate nel 1877 da un pastore luterano, Jacob Gass, in una fattoria dell'Iowa. Una delle tavolette mostrava cerchi concentrici con strani simboli da alcuni interpretati come segni zodiacali, l'altra mostrava su una faccia vari disegni e sulla faccia opposta una serie di caratteri alfabetici tratti da una dozzina di lingue diverse: questa tavoletta fu soprannominata la “stele di Rosetta americana”[1]. In seguito Gass trovò anche molti altri manufatti associati alla cultura dei costruttori di tumuli, tra i quali una terza tavoletta con incisioni e due pipe con fornelli a forma di elefanti.
Le tavolette di Davenport erano una manna dal cielo per la tesi che i costruttori di tumuli appartenessero a una “razza perduta”, perché dimostravano non solo le loro capacità tecnologiche, ma anche il fatto che conoscevano la scrittura, a differenza dei nativi americani, e testimoniavano quindi la loro superiorità culturale sugli indigeni.
In un primo momento l'autenticità di questi manufatti non fu messa in dubbio e fu anzi avvalorata da studiosi come Spencer Baird, della Smithsonian Institution. Ma pochi anni più tardi, nel 1882, l'entomologo Cyrus Thomas fu incaricato dal Bureau of American Ethnology di condurre uno studio approfondito e adeguatamente finanziato sui costruttori di tumuli. Thomas non era un archeologo, ma scelse degli assistenti preparati con i quali fece ricerche su ben duemila siti sparsi in ventuno Stati e raccolse un'enorme quantità di manufatti: più di quarantamila.
Thomas scoprì che l'edizione 1872 del famoso dizionario Webster (pubblicato ancora oggi in edizioni aggiornate) conteneva un campione dei caratteri di alfabeti antichi, tra i quali tutti i caratteri incisi sulle tavolette di Davenport. Con questa scoperta Thomas diede un colpo mortale alla credibilità delle tavolette ritrovate da Gass, ma il suo contributo non si limitò a questo: egli dimostrò che i primi testimoni europei, come il cronista dell'esploratore spagnolo Hernando De Soto, noto come il “Gentiluomo di Elvas”, spiegavano chiaramente che ancora nel Cinquecento gli Indiani costruivano i tumuli sui quali venivano edificati i templi e le case dei capi. Non solo, ma esistevano anche dipinti del XVI secolo che raffiguravano le camere funerarie all'interno dei tumuli. Infine, numerose testimonianze riferivano che almeno alcune culture indiane conoscevano l'agricoltura ed erano perfettamente in grado di costruire città grandi e ben organizzate. Per esempio il Gentiluomo di Elvas scrive di aver visto città circondate da mura e con almeno cinque o seimila abitanti, mentre ancora nel 1773 il botanico di Philadelphia William Bartram, nel resoconto di un viaggio compiuto per studiare la flora delle colonie del Sud, racconta di aver visto una città di circa quindicimila abitanti e campi coltivati a grano e fagioli lunghi quasi tre chilometri.
Il lavoro di Thomas distrusse una volta per tutte il mito della razza perduta, che da quel momento uscì dal campo accademico e rimase presente solo nella cultura popolare, dalla quale non è mai scomparso. Ancora nel 2010 il documentario “The Lost Civilizations of North America” ha ripreso la vecchia tesi della razza perduta, sia pure rivisitata in chiave politicamente corretta, meritandosi una recensione al vetriolo sullo Skeptical Inquirer[2].
Alla base della teoria dei costruttori di tumuli c'era l'incapacità di ammettere che popolazioni diverse da quella europea potessero aver realizzato opere altrettanto imponenti, come i tumuli del Nordamerica o le piramidi d'Egitto: un pregiudizio che oggi chiamiamo etnocentrismo. Negli anni successivi l'idea della razza perduta, presente ancora nelle pubblicazioni della Società teosofica, si sviluppò fino a dare origine a quella di antichi alieni che avevano colonizzato la Terra nell'antichità, ma l'idea di base era la stessa: i popoli antichi che abitavano al di fuori dell'Europa non potevano aver costruito delle opere così sofisticate, quindi doveva essere stato qualcun altro.
La genealogia esatta della teoria degli “antichi astronauti” è un problema complesso che ancora oggi è materia di studio e di discussione; qui è sufficiente ricordare che l'idea dei colonizzatori alieni, che oggi conosciamo per autori contemporanei come Erich von Däniken e Graham Hancock, si trova in opere ben più antiche come il Libro dei dannati di Charles Fort (1919), molta letteratura di Lovecraft e il Mattino dei maghi di Pauwels e Bergier (1960): evidentemente il mito della colonizzazione aliena faceva molta presa sull'immaginario novecentesco.
Che cosa ci insegna la controversia sui costruttori di tumuli?
Prima di tutto che è importante conoscere la storia della scienza. Se non si conoscono la teoria della razza perduta, il suo fondamento etnocentrico e gli sviluppi successivi, è difficile capire come siano nati gli “antichi astronauti” di von Däniken e Hancock, interpretare correttamente il loro successo e riconoscere il razzismo che li alimenta, come osserva Kenneth Feder. Se invece conosciamo la teoria della razza perduta capiamo molto più facilmente perché, per esempio, nel libro Impronte degli dei Graham Hancock sottolinea più volte che il dio Inca Wiraqocha doveva essere di aspetto caucasico, con gli occhi azzurri e la pelle chiara. Allo stesso modo capiamo perché von Däniken scrive nel libro Signs of the Gods? «Capisco bene che gioco con la dinamite se chiedo se gli extraterrestri distribuirono compiti specifici alle razze di base fin dall'inizio, cioè le programmarono con capacità speciali» e arriva a chiedersi «Forse la razza nera fu un fallimento e gli extraterrestri ne cambiarono il DNA con l'ingegneria genetica per poi programmare una razza bianca o gialla?»
Naturalmente per gli pseudoarcheologi di oggi diventa sempre più difficile sostenere tesi esplicitamente razziste e quindi i loro argomenti si fanno più sottili: non fanno più riferimento al colore della pelle, ma sottolineano che le popolazioni attuali del Centroamerica o dell'Egitto sono povere e poco avanzate tecnologicamente e quindi che è improbabile che i loro antenati possano avere costruito i meravigliosi monumenti che si trovano in quei luoghi.
Questo non significa, naturalmente, che tutta la pseudoarcheologia abbia un fondamento razzista, ma che l'etnocentrismo e il razzismo sono tra le idee di fondo che contribuiscono, almeno in alcuni casi di rilievo, alla sua popolarità.
La seconda lezione che possiamo ricavare dalla controversia sui costruttori di tumuli è che bisogna prendere in esame le motivazioni profonde di una teoria e non limitarsi al “debunking”: sarebbe sbagliato e semplicistico pensare che siano stati dei falsi come le tavolette di Davenport a decretare il successo della teoria della razza perduta. Il successo del mito della razza scomparsa non dipendeva dalle prove empiriche a suo favore, ma dalla popolarità delle idee che sosteneva. Le prove che i costruttori di tumuli fossero gli stessi nativi americani esistevano già dal XVI secolo, ma furono ignorate fino alla fine dell'Ottocento perché gli studiosi erano talmente convinti della superiorità della “razza bianca” da non essere in grado di accettare una realtà in contrasto con la loro convinzione. A questo va aggiunto che il mito dei costruttori di tumuli serviva, non necessariamente in cattiva fede, a giustificare il genocidio dei nativi americani. La controprova arriva dal fatto che anche quando le presunte prove della teoria della razza perduta furono smentite da Thomas questa convinzione non fu abbandonata del tutto e rimase presente nella cultura popolare, arrivando fino ai giorni nostri.
Allo stesso modo, quando studiamo le teorie pseudoscientifiche di oggi, non dobbiamo analizzare soltanto le prove che portano (di solito false, inesistenti o male interpretate), ma anche le idee che stanno a monte di queste teorie e che sono il fattore determinante per il loro successo. Un discorso analogo vale per le leggende metropolitane e le teorie del complotto: per comprendere a fondo tutte queste convinzioni lo studio delle prove empiriche deve essere completato dallo studio delle idee, attraverso discipline come la storia della scienza, la psicologia e la sociologia.
Di che cosa si tratta? I tumuli sono terrapieni a forma di tronco di cono o di piramide, contenenti spesso camere funerarie destinate ad autorità civili o religiose, oltre a manufatti di pregio in vari materiali come ossidiana, mica, saponaria, ferro, rame e perfino oro e argento. Se ne trovano decine di migliaia, realizzati in un arco di tempo di circa 5000 anni, tra il 3500 a.C. e il XVI secolo, nella regione centro-orientale degli Stati Uniti, soprattutto lungo i fiumi principali dell'area, come l'Ohio, il Mississipi e il Missouri. Molti sono grandi e imponenti come quelli di Cahokia (Illinois), Moundville (Alabama) e Poverty Point (Louisiana): il Tumulo del Monaco, che si trova a Cahokia, è composto da oltre 560.000 metri cubi di terra ed è una delle più grandi piramidi al mondo, comprese quelle d'Egitto e del Mesoamerica. Alcuni tumuli sono piccoli e si notano a malapena; altri ancora formano elaborati disegni geometrici che si possono vedere solo dall'alto, come le linee di Nazca.
Nell'America precolombiana i tumuli erano i centri sociali e politici di società complesse e vivaci come la cultura Adena, la cultura Hopewell e la cultura del Mississippi: alcuni studiosi stimano che al suo picco, nel 1100-1200, la città di Cahokia, centro di un'intensa rete di scambi commerciali, avesse una popolazione di 30-40.000 abitanti. Se queste stime sono corrette, Cahokia sarebbe stata superata da Filadelfia come città più popolata nella storia del Nordamerica soltanto alla fine del Settecento.
Quando i nativi americani incontrarono gli esploratori spagnoli, nel XVI secolo, la costruzione di tumuli era ancora in corso; ma quando cominciò l'espansione degli Stati Uniti verso ovest, circa due secoli più tardi, i nativi avevano smesso di costruire tumuli e il significato di quei monumenti era ormai sconosciuto. Tra i primi a interrogarsi sul mistero dei tumuli vi furono alcuni padri fondatori degli Stati Uniti, come Benjamin Franklin e il terzo presidente Thomas Jefferson, che condusse studi scientifici su un tumulo nella sua proprietà di Monticello (Virginia), arrivando alla conclusione che vi fossero stati seppelliti più di mille corpi umani lungo un arco di tempo di diversi secoli.
All'epoca di Franklin e Jefferson la maggior parte degli americani pensava che gli “Indiani d'America” fossero troppo primitivi e selvaggi per aver potuto realizzare quelle costruzioni monumentali e quei manufatti così pregiati. Molti cominciarono invece a pensare che i tumuli fossero l'opera di un'antica civiltà – la “razza perduta” – che si era estinta prima dello sbarco di Colombo.
Dalla fine del Settecento in poi si moltiplicarono le ipotesi sull'identità dei costruttori di tumuli: esploratori vichinghi, egizi, ebrei, greci, romani, celti, norvegesi, fenici, africani, indiani (asiatici) e perfino superstiti di Atlantide; praticamente tutti i popoli tranne i nativi americani.
Il più popolare sostenitore della teoria della “razza perduta” fu forse Josiah Priest, il cui libro American Antiquities and Discoveries in the West (1833) divenne un bestseller con decine di migliaia di copie vendute e contribuì a diffondere l'idea dei costruttori di tumuli come una razza bianca di guerrieri poi estinta, forse sterminata dagli antenati dei nativi americani.
Perché il mito della “razza perduta” ebbe tanto successo? Il primo a rispondere in modo convincente a questa domanda, curiosamente, non fu uno scienziato, ma lo scrittore di fantascienza Robert Silverberg, in un bel saggio del 1968: il mito dei costruttori di tumuli era motivato politicamente. Se i nativi americani erano selvaggi incapaci di conquiste culturali significative, il loro sterminio diventava meno grave; se per di più avevano preso il posto della razza perduta, non potevano nemmeno vantare diritti di proprietà sulla terra; se infine l'antica razza sterminata dagli antenati dei nativi americani era di origine europea, il cerchio era completo. Nell'uccidere i nativi americani per impossessarsi dei loro territori, gli americani non stavano facendo altro che riprendersi ciò che molti secoli prima era appartenuto ai loro antenati. Per questa ragione le poche voci critiche, che sostenevano che i costruttori di tumuli fossero in realtà i nativi americani stessi, vennero a lungo ignorate.
L'interesse verso i costruttori di tumuli continuò a crescere durante il XIX secolo, di pari passo con l'insediamento dei bianchi nel Midwest, centro della cultura dei tumuli: proprio gli interrogativi sulle origini dei tumuli contribuirono a sviluppare l'archeologia americana e a farla evolvere da un piano prevalentemente speculativo verso la direzione dell'indagine empirica e della classificazione dei reperti. Il primo studio sistematico sui tumuli fu condotto da Ephraim G. Squier, un ingegnere civile, e Edwin H. Davis, un medico, tra il 1845 e il 1847: i due appassionati fecero scavi e ricerche su circa duecento siti, fornendo mappe e disegni dettagliati. Squier e Davis suggerirono un collegamento tra i costruttori di tumuli e le culture del Messico, Centroamerica e Perù e si trattennero da speculazioni sulla loro origine.
La tesi della “razza perduta” sembrò essere rafforzata da diversi ritrovamenti di tavolette con iscrizioni alfabetiche in lingue estranee al continente americano: il caso più famoso è quello delle “tavolette di Davenport”, due tavolette di ardesia incise ritrovate nel 1877 da un pastore luterano, Jacob Gass, in una fattoria dell'Iowa. Una delle tavolette mostrava cerchi concentrici con strani simboli da alcuni interpretati come segni zodiacali, l'altra mostrava su una faccia vari disegni e sulla faccia opposta una serie di caratteri alfabetici tratti da una dozzina di lingue diverse: questa tavoletta fu soprannominata la “stele di Rosetta americana”[1]. In seguito Gass trovò anche molti altri manufatti associati alla cultura dei costruttori di tumuli, tra i quali una terza tavoletta con incisioni e due pipe con fornelli a forma di elefanti.
Le tavolette di Davenport erano una manna dal cielo per la tesi che i costruttori di tumuli appartenessero a una “razza perduta”, perché dimostravano non solo le loro capacità tecnologiche, ma anche il fatto che conoscevano la scrittura, a differenza dei nativi americani, e testimoniavano quindi la loro superiorità culturale sugli indigeni.
In un primo momento l'autenticità di questi manufatti non fu messa in dubbio e fu anzi avvalorata da studiosi come Spencer Baird, della Smithsonian Institution. Ma pochi anni più tardi, nel 1882, l'entomologo Cyrus Thomas fu incaricato dal Bureau of American Ethnology di condurre uno studio approfondito e adeguatamente finanziato sui costruttori di tumuli. Thomas non era un archeologo, ma scelse degli assistenti preparati con i quali fece ricerche su ben duemila siti sparsi in ventuno Stati e raccolse un'enorme quantità di manufatti: più di quarantamila.
Thomas scoprì che l'edizione 1872 del famoso dizionario Webster (pubblicato ancora oggi in edizioni aggiornate) conteneva un campione dei caratteri di alfabeti antichi, tra i quali tutti i caratteri incisi sulle tavolette di Davenport. Con questa scoperta Thomas diede un colpo mortale alla credibilità delle tavolette ritrovate da Gass, ma il suo contributo non si limitò a questo: egli dimostrò che i primi testimoni europei, come il cronista dell'esploratore spagnolo Hernando De Soto, noto come il “Gentiluomo di Elvas”, spiegavano chiaramente che ancora nel Cinquecento gli Indiani costruivano i tumuli sui quali venivano edificati i templi e le case dei capi. Non solo, ma esistevano anche dipinti del XVI secolo che raffiguravano le camere funerarie all'interno dei tumuli. Infine, numerose testimonianze riferivano che almeno alcune culture indiane conoscevano l'agricoltura ed erano perfettamente in grado di costruire città grandi e ben organizzate. Per esempio il Gentiluomo di Elvas scrive di aver visto città circondate da mura e con almeno cinque o seimila abitanti, mentre ancora nel 1773 il botanico di Philadelphia William Bartram, nel resoconto di un viaggio compiuto per studiare la flora delle colonie del Sud, racconta di aver visto una città di circa quindicimila abitanti e campi coltivati a grano e fagioli lunghi quasi tre chilometri.
Il lavoro di Thomas distrusse una volta per tutte il mito della razza perduta, che da quel momento uscì dal campo accademico e rimase presente solo nella cultura popolare, dalla quale non è mai scomparso. Ancora nel 2010 il documentario “The Lost Civilizations of North America” ha ripreso la vecchia tesi della razza perduta, sia pure rivisitata in chiave politicamente corretta, meritandosi una recensione al vetriolo sullo Skeptical Inquirer[2].
Alla base della teoria dei costruttori di tumuli c'era l'incapacità di ammettere che popolazioni diverse da quella europea potessero aver realizzato opere altrettanto imponenti, come i tumuli del Nordamerica o le piramidi d'Egitto: un pregiudizio che oggi chiamiamo etnocentrismo. Negli anni successivi l'idea della razza perduta, presente ancora nelle pubblicazioni della Società teosofica, si sviluppò fino a dare origine a quella di antichi alieni che avevano colonizzato la Terra nell'antichità, ma l'idea di base era la stessa: i popoli antichi che abitavano al di fuori dell'Europa non potevano aver costruito delle opere così sofisticate, quindi doveva essere stato qualcun altro.
La genealogia esatta della teoria degli “antichi astronauti” è un problema complesso che ancora oggi è materia di studio e di discussione; qui è sufficiente ricordare che l'idea dei colonizzatori alieni, che oggi conosciamo per autori contemporanei come Erich von Däniken e Graham Hancock, si trova in opere ben più antiche come il Libro dei dannati di Charles Fort (1919), molta letteratura di Lovecraft e il Mattino dei maghi di Pauwels e Bergier (1960): evidentemente il mito della colonizzazione aliena faceva molta presa sull'immaginario novecentesco.
Che cosa ci insegna la controversia sui costruttori di tumuli?
Prima di tutto che è importante conoscere la storia della scienza. Se non si conoscono la teoria della razza perduta, il suo fondamento etnocentrico e gli sviluppi successivi, è difficile capire come siano nati gli “antichi astronauti” di von Däniken e Hancock, interpretare correttamente il loro successo e riconoscere il razzismo che li alimenta, come osserva Kenneth Feder. Se invece conosciamo la teoria della razza perduta capiamo molto più facilmente perché, per esempio, nel libro Impronte degli dei Graham Hancock sottolinea più volte che il dio Inca Wiraqocha doveva essere di aspetto caucasico, con gli occhi azzurri e la pelle chiara. Allo stesso modo capiamo perché von Däniken scrive nel libro Signs of the Gods? «Capisco bene che gioco con la dinamite se chiedo se gli extraterrestri distribuirono compiti specifici alle razze di base fin dall'inizio, cioè le programmarono con capacità speciali» e arriva a chiedersi «Forse la razza nera fu un fallimento e gli extraterrestri ne cambiarono il DNA con l'ingegneria genetica per poi programmare una razza bianca o gialla?»
Naturalmente per gli pseudoarcheologi di oggi diventa sempre più difficile sostenere tesi esplicitamente razziste e quindi i loro argomenti si fanno più sottili: non fanno più riferimento al colore della pelle, ma sottolineano che le popolazioni attuali del Centroamerica o dell'Egitto sono povere e poco avanzate tecnologicamente e quindi che è improbabile che i loro antenati possano avere costruito i meravigliosi monumenti che si trovano in quei luoghi.
Questo non significa, naturalmente, che tutta la pseudoarcheologia abbia un fondamento razzista, ma che l'etnocentrismo e il razzismo sono tra le idee di fondo che contribuiscono, almeno in alcuni casi di rilievo, alla sua popolarità.
La seconda lezione che possiamo ricavare dalla controversia sui costruttori di tumuli è che bisogna prendere in esame le motivazioni profonde di una teoria e non limitarsi al “debunking”: sarebbe sbagliato e semplicistico pensare che siano stati dei falsi come le tavolette di Davenport a decretare il successo della teoria della razza perduta. Il successo del mito della razza scomparsa non dipendeva dalle prove empiriche a suo favore, ma dalla popolarità delle idee che sosteneva. Le prove che i costruttori di tumuli fossero gli stessi nativi americani esistevano già dal XVI secolo, ma furono ignorate fino alla fine dell'Ottocento perché gli studiosi erano talmente convinti della superiorità della “razza bianca” da non essere in grado di accettare una realtà in contrasto con la loro convinzione. A questo va aggiunto che il mito dei costruttori di tumuli serviva, non necessariamente in cattiva fede, a giustificare il genocidio dei nativi americani. La controprova arriva dal fatto che anche quando le presunte prove della teoria della razza perduta furono smentite da Thomas questa convinzione non fu abbandonata del tutto e rimase presente nella cultura popolare, arrivando fino ai giorni nostri.
Allo stesso modo, quando studiamo le teorie pseudoscientifiche di oggi, non dobbiamo analizzare soltanto le prove che portano (di solito false, inesistenti o male interpretate), ma anche le idee che stanno a monte di queste teorie e che sono il fattore determinante per il loro successo. Un discorso analogo vale per le leggende metropolitane e le teorie del complotto: per comprendere a fondo tutte queste convinzioni lo studio delle prove empiriche deve essere completato dallo studio delle idee, attraverso discipline come la storia della scienza, la psicologia e la sociologia.
Note
1) La stele di Rosetta è un'antica lastra egizia con iscrizioni in geroglifico, demotico e greco, ritrovata nel 1799, che fornì la chiave per la comprensione dei geroglifici.
2) La recensione fu pubblicata in tre parti con il titolo “Civilizations Lost and Found: Fabricating History” (vedere la bibliografia per i dettagli).
Riferimenti bibliografici
- Robert Silverberg, Mound Builders of Ancient America: The Archaeology of a Myth. New York Graphic Society Ltd, Greenwich, Connecticut, 1968.
- Kenneth L. Feder, Frodi, miti e misteri. Scienza e pseudoscienza in archeologia, Roma, Avverbi, 2004.
- Thomas S. Garlinghouse, “Revisiting the Mound-Builder Controversy”, in History Today, Volume 51, Issue 9, September 2001.
- Kenneth Feder, Bradley T. Lepper, Terry A. Barnhart, Deborah A. Bolnick, “Civilizations Lost and Found: Fabricating History - Part One: An Alternate Reality”, Skeptical Inquirer, Volume 35.5, September/October 2011.
- Kenneth Feder, Bradley T. Lepper, Terry A. Barnhart, Deborah A. Bolnick, “Civilizations Lost and Found: Fabricating History - Part Two: False Messages in Stone”, Skeptical Inquirer, Volume 35.6, November/December 2011.
- Kenneth Feder, Bradley T. Lepper, Terry A. Barnhart, Deborah A. Bolnick, “Civilizations Lost and Found: Fabricating History - Part Three: Real Messages in DNA”, Skeptical Inquirer, Volume 36.1, January/February 2012.
- Keith Fitzpatrick-Matthews, “Is Pseudoarchaeology Racist?”, post del blog Bad Archaeology, 12 gennaio 2014.
- Kristina Killgrove, “What Archaeologists Really Think About Ancient Aliens, Lost Colonies, And Fingerprints Of The Gods”, in Forbes, 3 settembre 2015.