Si può essere pressoché certi che fin dall’età del rame i nostri lontani antenati erano abbastanza consapevoli del fatto che un metallo è duttile e malleabile al punto giusto per essere lavorato quand’esso si presenti con un colore appropriato. Rosso scuro prima, poi arancio, via via verso il giallo e infine il desiderato “calor bianco”. Oggi abbiamo opportuni strumenti di misura e sappiamo che il rosso corrisponde a una temperatura attorno ai 700°C, mentre per raggiungere il calor bianco si deve salire a più di 1000°C. Gli uomini del rame non avevano i termometri che noi possediamo. Eppure stimavano, osservando il colore del metallo incandescente, la sua temperatura, senza nemmeno sapere cosa fosse questa grandezza fisica.
Verrebbe da pensare che, tutto sommato, gli uomini del passato lontano avevano ragione a misurare la temperatura del materiale osservandone il colore: è, dopotutto, lo stesso che si fa anche oggi, in modo più preciso e accurato ma, di certo, non immergendo nel metallo fuso un termometro (magari uno a mercurio). Si fonderebbe anch’esso. Qual è dunque la vera storia della temperatura e del colore? Perché dovrebbe risultare un argomento di particolare interesse scientifico?
La storia è lunga ma si può riassumere a grandi tappe in questo modo. Anzitutto viaggiamo nel tempo fino all’Ottocento. La fisica sta galoppando, un numero sempre più grande di fenomeni naturali viene spiegato in termini di leggi fisiche generali, precise, complete. Nella seconda metà di quel secolo Maxwell, basandosi sui risultati di altri valenti studiosi, come Ampère, Faraday, Coulomb, Neumann, Lenz… pubblica il trattato sull’elettromagnetismo, nel quale compendia in poche, possenti equazioni il comportamento di cariche elettriche immobili e in movimento, spiegando cosa siano le correnti elettriche, i fulmini, il magnetismo, la natura stessa della luce, in termini di un’onda di energia oscillante e viaggiante con enorme velocità. In quello stesso periodo vengono scritte le leggi che illustrano e riassumono la natura e la sostanza della temperatura, del trasporto termico di energia, del dettaglio statistico di gas e altre sostanze composte da moltissime particelle. Si tratta del trionfo della termodinamica e dei suoi fondatori, ancora Maxwell, e Boltzmann, Joule, Carnot, Kelvin… Ci sono tutti gli ingredienti per una ricetta complicata, quella che permette di comprendere in quale modo un pezzo di metallo (fatto non si sa di che cosa, a quel tempo) riscaldato (e dunque argomento di interesse della termodinamica) emetta luce di un certo colore (vuol dire: radiazione elettromagnetica di una determinata lunghezza d’onda, pane per i denti di Maxwell e delle sue equazioni). Cosa si fa, dunque? Si prendono gli ingredienti e si mescola per bene: un oggetto caldo è un aggregato di qualcosa che, al variare della sua temperatura, emette onde luminose. Un attimo però: di che materiale è fatto questo oggetto caldo? Rame? Forse una pietra? Un cristallo? La faccenda si complica: come si fa a scrivere una teoria diversa per ogni tipo di materiale riscaldato? Non sarebbe meglio avere un oggetto “standard” al quale riferirsi per poi capire cosa succede a una data temperatura senza preoccuparsi del materiale che lo costituisce? I fisici fanno proprio così. Si inventano un corpo “universale” per studiare questo fenomeno in generale. Per costruirlo è facile: si prende una scatola (fatta da quello che ci pare), si fa un forellino su una delle sue pareti e si guarda quello che si vede nel forellino al variare della temperatura della scatola. La radiazione che si osserva nel buco è detta “radianza del corpo nero”. Sì, il foro è un “corpo nero”, nel senso che assorbe tutto quello che gli arriva addosso. Attenzione: non vuol dire che noi vediamo necessariamente “nero”. Dipende dalla temperatura. Se è elevata, le pareti della scatola con il buco emettono radiazione elettromagnetica di lunghezza relativamente corta (o frequenza relativamente grande), ossia vediamo il foro “rosso”, oppure “giallo”, come il metallo scaldato. Solo che, essendo un foro, ciò che osserviamo non dipende dal materiale ma solamente dalla sua temperatura.
Bene, cosa concludono nel 1800 gli addetti ai lavori? Mescolando le equazioni di Maxwell, la termodinamica e il conteggio statistico dell’energia scambiata fra la scatola (il foro) e le onde elettromagnetiche, deve risultare che al crescere della frequenza della radiazione (andando verso il colore violetto, insomma) l’energia emessa dal foro deve crescere. Quanto? Sempre di più. Ma quanto? All’infinito. Stiamo scherzando? Infinita energia? Cosa significa, che il buco nella scatola espelle un fiotto devastante di radiazione elettromagnetica? Non pare proprio, osservando un foro anche molto caldo. Color bianco, certo, ma non esplode mica! Eppure è proprio così. Un disastro. Anzi, una catastrofe, che i fisici battezzano proprio “catastrofe ultravioletta”: le leggi classiche della termodinamica e dell’elettromagnetismo della fine Ottocento conducono a un’espressione, detta equazione di Rayleigh-Jeans, per l’energia emessa da un corpo nero a una data temperatura, che “esplode” con il crescere della frequenza della radiazione. Gli esperimenti fatti per bene mostrano invece che l’energia emessa diminuisce fino a scomparire per valori sia molto grandi che molto piccoli della frequenza dell’onda elettromagnetica irradiata dal corpo nero.
Per chi, a quel tempo, pensava di potere dormire sugli allori di una fisica fatta e finita, si prospetta un periodo di duro lavoro. Cosa c’è di sbagliato nelle equazioni di Maxwell o nella termodinamica statistica? La soluzione non è semplice e richiede una profonda revisione delle modalità con le quali le onde elettromagnetiche, che “vanno e vengono” dalle pareti della scatola che “sostiene” il corpo nero, scambiano energia con le pareti stesse. A quei tempi si pensava che tutti i valori di frequenza del campo elettromagnetico (la rapidità delle sue oscillazioni) potessero essere trasportate con pari dignità - probabilità, se si preferisce - nell’atto dello scambio con quel qualcosa che costituisce le pareti della scatola. Non si parlava ancora di atomi, per quelli bisogna aspettare ancora qualche anno, fino almeno al 1905 con un lavoro di Einstein sul moto browniano e la sostanza fisica degli atomi, per l’appunto. Eppure qualcosa c’è nelle pareti della scatola, qualcosa che può ricevere e restituire energia sotto forma di onde elettromagnetiche. Qualcosa che vibra, oscilla, “risuona” con le onde che lo investe. Non chiamiamo atomo questo qualcosa, se non ci va. Ma deve pur esistere. Solo che in questi scambi di energia non si comporta in modo “ordinario”, non accetta tutto quello che gli arriva addosso. Se lo fa, il risultato del calcolo è la catastrofe ultravioletta. Deve comportarsi diversamente, e questo lo pensa più di altri Max Planck, un fisico tedesco che, dopo infinite prove e calcoli e tentativi, nel mese di dicembre del 1900 a un convegno comunica ai colleghi che tutto torna se, invece di ammettere scambi di energia di ogni valore, si immagina che gli oscillatori delle pareti della scatola accettino energia “a granelli”, secondo “pacchetti” di valore multiplo intero di un “granello standard”, non ulteriormente divisibile. I conti che Planck presenta sono poco convincenti per lo stesso autore, che non sa darsi una ragione del modello, eppure riproducono la curva di irraggiamento con una precisione impressionante. Nessuna catastrofe ultravioletta. L’energia della radiazione che esce dal forellino ha un massimo di intensità che dipende dalla temperatura della scatola, ma poi si comporta tranquillamente per valori molto grandi o piccoli della frequenza, esattamente come si osserva nella realtà. Cosa aveva scoperto Max Planck? Che la natura, in determinate situazioni, si muove “a passi discreti”, e non con la continuità che è sotto ai nostri occhi nelle ordinarie manifestazioni della meccanica classica. Quando si ha a che fare con scambi di radiazione elettromagnetica su scale atomiche, come accade nell’esperimento del corpo nero, le regole della natura presentano un carattere “quantistico”. Sarà, quello della legge di Planck del corpo nero, il primo, importante, formidabile spunto teorico che condurrà a una profonda rivoluzione del nostro modo di vedere, capire, interpretare il mondo in termini di una nuova fisica. I quanti di scambio energetico diventeranno protagonisti anche dell’effetto fotoelettrico (descritto nel 1905 da Einstein, ancora lui), saranno chiamati in seguito fotoni e illuminano ancora la nostra visione del mondo di cui siamo parte. Una lunga storia, dagli uomini del rame ai laboratori di fisica quantistica. I fotoni, gli atomi, la radiazione sono sempre gli stessi.
Verrebbe da pensare che, tutto sommato, gli uomini del passato lontano avevano ragione a misurare la temperatura del materiale osservandone il colore: è, dopotutto, lo stesso che si fa anche oggi, in modo più preciso e accurato ma, di certo, non immergendo nel metallo fuso un termometro (magari uno a mercurio). Si fonderebbe anch’esso. Qual è dunque la vera storia della temperatura e del colore? Perché dovrebbe risultare un argomento di particolare interesse scientifico?
La storia è lunga ma si può riassumere a grandi tappe in questo modo. Anzitutto viaggiamo nel tempo fino all’Ottocento. La fisica sta galoppando, un numero sempre più grande di fenomeni naturali viene spiegato in termini di leggi fisiche generali, precise, complete. Nella seconda metà di quel secolo Maxwell, basandosi sui risultati di altri valenti studiosi, come Ampère, Faraday, Coulomb, Neumann, Lenz… pubblica il trattato sull’elettromagnetismo, nel quale compendia in poche, possenti equazioni il comportamento di cariche elettriche immobili e in movimento, spiegando cosa siano le correnti elettriche, i fulmini, il magnetismo, la natura stessa della luce, in termini di un’onda di energia oscillante e viaggiante con enorme velocità. In quello stesso periodo vengono scritte le leggi che illustrano e riassumono la natura e la sostanza della temperatura, del trasporto termico di energia, del dettaglio statistico di gas e altre sostanze composte da moltissime particelle. Si tratta del trionfo della termodinamica e dei suoi fondatori, ancora Maxwell, e Boltzmann, Joule, Carnot, Kelvin… Ci sono tutti gli ingredienti per una ricetta complicata, quella che permette di comprendere in quale modo un pezzo di metallo (fatto non si sa di che cosa, a quel tempo) riscaldato (e dunque argomento di interesse della termodinamica) emetta luce di un certo colore (vuol dire: radiazione elettromagnetica di una determinata lunghezza d’onda, pane per i denti di Maxwell e delle sue equazioni). Cosa si fa, dunque? Si prendono gli ingredienti e si mescola per bene: un oggetto caldo è un aggregato di qualcosa che, al variare della sua temperatura, emette onde luminose. Un attimo però: di che materiale è fatto questo oggetto caldo? Rame? Forse una pietra? Un cristallo? La faccenda si complica: come si fa a scrivere una teoria diversa per ogni tipo di materiale riscaldato? Non sarebbe meglio avere un oggetto “standard” al quale riferirsi per poi capire cosa succede a una data temperatura senza preoccuparsi del materiale che lo costituisce? I fisici fanno proprio così. Si inventano un corpo “universale” per studiare questo fenomeno in generale. Per costruirlo è facile: si prende una scatola (fatta da quello che ci pare), si fa un forellino su una delle sue pareti e si guarda quello che si vede nel forellino al variare della temperatura della scatola. La radiazione che si osserva nel buco è detta “radianza del corpo nero”. Sì, il foro è un “corpo nero”, nel senso che assorbe tutto quello che gli arriva addosso. Attenzione: non vuol dire che noi vediamo necessariamente “nero”. Dipende dalla temperatura. Se è elevata, le pareti della scatola con il buco emettono radiazione elettromagnetica di lunghezza relativamente corta (o frequenza relativamente grande), ossia vediamo il foro “rosso”, oppure “giallo”, come il metallo scaldato. Solo che, essendo un foro, ciò che osserviamo non dipende dal materiale ma solamente dalla sua temperatura.
Bene, cosa concludono nel 1800 gli addetti ai lavori? Mescolando le equazioni di Maxwell, la termodinamica e il conteggio statistico dell’energia scambiata fra la scatola (il foro) e le onde elettromagnetiche, deve risultare che al crescere della frequenza della radiazione (andando verso il colore violetto, insomma) l’energia emessa dal foro deve crescere. Quanto? Sempre di più. Ma quanto? All’infinito. Stiamo scherzando? Infinita energia? Cosa significa, che il buco nella scatola espelle un fiotto devastante di radiazione elettromagnetica? Non pare proprio, osservando un foro anche molto caldo. Color bianco, certo, ma non esplode mica! Eppure è proprio così. Un disastro. Anzi, una catastrofe, che i fisici battezzano proprio “catastrofe ultravioletta”: le leggi classiche della termodinamica e dell’elettromagnetismo della fine Ottocento conducono a un’espressione, detta equazione di Rayleigh-Jeans, per l’energia emessa da un corpo nero a una data temperatura, che “esplode” con il crescere della frequenza della radiazione. Gli esperimenti fatti per bene mostrano invece che l’energia emessa diminuisce fino a scomparire per valori sia molto grandi che molto piccoli della frequenza dell’onda elettromagnetica irradiata dal corpo nero.
Per chi, a quel tempo, pensava di potere dormire sugli allori di una fisica fatta e finita, si prospetta un periodo di duro lavoro. Cosa c’è di sbagliato nelle equazioni di Maxwell o nella termodinamica statistica? La soluzione non è semplice e richiede una profonda revisione delle modalità con le quali le onde elettromagnetiche, che “vanno e vengono” dalle pareti della scatola che “sostiene” il corpo nero, scambiano energia con le pareti stesse. A quei tempi si pensava che tutti i valori di frequenza del campo elettromagnetico (la rapidità delle sue oscillazioni) potessero essere trasportate con pari dignità - probabilità, se si preferisce - nell’atto dello scambio con quel qualcosa che costituisce le pareti della scatola. Non si parlava ancora di atomi, per quelli bisogna aspettare ancora qualche anno, fino almeno al 1905 con un lavoro di Einstein sul moto browniano e la sostanza fisica degli atomi, per l’appunto. Eppure qualcosa c’è nelle pareti della scatola, qualcosa che può ricevere e restituire energia sotto forma di onde elettromagnetiche. Qualcosa che vibra, oscilla, “risuona” con le onde che lo investe. Non chiamiamo atomo questo qualcosa, se non ci va. Ma deve pur esistere. Solo che in questi scambi di energia non si comporta in modo “ordinario”, non accetta tutto quello che gli arriva addosso. Se lo fa, il risultato del calcolo è la catastrofe ultravioletta. Deve comportarsi diversamente, e questo lo pensa più di altri Max Planck, un fisico tedesco che, dopo infinite prove e calcoli e tentativi, nel mese di dicembre del 1900 a un convegno comunica ai colleghi che tutto torna se, invece di ammettere scambi di energia di ogni valore, si immagina che gli oscillatori delle pareti della scatola accettino energia “a granelli”, secondo “pacchetti” di valore multiplo intero di un “granello standard”, non ulteriormente divisibile. I conti che Planck presenta sono poco convincenti per lo stesso autore, che non sa darsi una ragione del modello, eppure riproducono la curva di irraggiamento con una precisione impressionante. Nessuna catastrofe ultravioletta. L’energia della radiazione che esce dal forellino ha un massimo di intensità che dipende dalla temperatura della scatola, ma poi si comporta tranquillamente per valori molto grandi o piccoli della frequenza, esattamente come si osserva nella realtà. Cosa aveva scoperto Max Planck? Che la natura, in determinate situazioni, si muove “a passi discreti”, e non con la continuità che è sotto ai nostri occhi nelle ordinarie manifestazioni della meccanica classica. Quando si ha a che fare con scambi di radiazione elettromagnetica su scale atomiche, come accade nell’esperimento del corpo nero, le regole della natura presentano un carattere “quantistico”. Sarà, quello della legge di Planck del corpo nero, il primo, importante, formidabile spunto teorico che condurrà a una profonda rivoluzione del nostro modo di vedere, capire, interpretare il mondo in termini di una nuova fisica. I quanti di scambio energetico diventeranno protagonisti anche dell’effetto fotoelettrico (descritto nel 1905 da Einstein, ancora lui), saranno chiamati in seguito fotoni e illuminano ancora la nostra visione del mondo di cui siamo parte. Una lunga storia, dagli uomini del rame ai laboratori di fisica quantistica. I fotoni, gli atomi, la radiazione sono sempre gli stessi.