Per la prima volta nella storia dell’astronautica un’azienda privata (Space X) ha portato nello spazio e, più precisamente, in una missione di attracco alla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), la sonda teleguidata Dragon. Dopo il ritiro della flotta degli Space Shuttle, l’avvicendarsi di astronauti e di materiali alla stazione era infatti di (costosa) esclusiva delle navette russe (Soyuz e Progress). L’affacciarsi al panorama dei trasbordi da e verso lo spazio da parte della nuova sonda Dragon dà l’avvio a una nuova epoca della conquista dello spazio: ne sentiremo parlare sicuramente ancora a lungo.
Cosa c’è di così straordinario (o complicato) in una missione di attracco alla enorme Stazione Spaziale? O, più in generale, in cosa consiste l’immissione in orbita di un oggetto qualunque a partire dalla superficie terrestre? Dopotutto è da talmente tanto tempo che si osservano lanci di satelliti di ogni genere (il primo, lo Sputnik, fu nel lontano 1957) che ci si è abituati a questo tipo di imprese. Un po’ come oggi nessuno si stupisce poi troppo di cosa ci permetta di fare internet, oppure le macchine fotografiche digitali, o ancora la rete telefonica senza fili globale. Sono meraviglie della tecnologia e della scienza che meritano attenzione e dedizione, magari dedicando a esse parte dei programmi scolastici (che invece si ostinano a infilare nella testa degli studenti poesie dell’Ottocento, pezzi di storia e battaglie ormai lontanissime nel tempo, matematica utile solo a se stessa e altri anacronismi a dire poco inquietanti).
L’astronautica ha origini antiche nella storia del pensiero scientifico: le basi teoriche per discuterne la fattibilità vanno fatte risalire alla comprensione e alla descrizione della gravità universale e allo studio dei moti che i corpi materiali compiono sotto la sua influenza. Volendo citare i nomi eccelsi a tale proposito pensiamo subito a Galilei e a Newton, i quali avevano compreso, in modi diversi ma convergenti per la maggior parte dei risultati ottenuti, che un oggetto materiale lanciato “verso l’alto” a partire dal nostro laboratorio, è destinato a ricadere al suolo inesorabilmente. A meno che non gli si imprima un moto particolarmente “deciso” grazie al quale possono accadere essenzialmente due cose (anche simultaneamente): se l’oggetto viene sparato verticalmente con una velocità sufficiente, potrà salire a una distanza dalla Terra talmente grande da “sganciarsi” dalla sua forza attrattiva. Ma può accadere anche che l’oggetto, lanciato anche “un po’ in orizzontale” (come quando si spara un proiettile con un fucile inclinato con un certo angolo), sia così rapido che, pur cadendo verticalmente per colpa dell’attrazione terrestre (che nessuno riesce a spegnere), si sposti “in là” abbastanza da vedere la superficie del suolo allontanarsi da esso, per colpa della curvatura terrestre, di più di quanto esso non ricada verso la Terra. In altre parole, il proiettile cade ma il suolo “cade di più”. E dunque il proiettile non arriva mai a toccarlo. In questo caso diciamo che il proiettile “è in orbita”.
Probabilmente questa definizione di “moto orbitale” può lasciare sorpreso qualcuno non addetto ai lavori: sarebbe a dire che un’orbita è una caduta? Esattamente: una caduta continua sotto l’azione della gravità e non, come si potrebbe essere indotti a pensare a primo avviso, un moto “senza peso”, senza interazione con la Terra. Dopotutto i numeri in gioco sono molto chiari: la Stazione Spaziale è in “orbita terrestre bassa” (LEO - Low Earth Orbit - a circa 400 kilometri sopra le nostre zucche). A questa quota la gravità terrestre si fa sentire senza problemi (un po’ meno che al suolo, è vero, ma non certo da spiegare come mai gli astronauti “sembrano senza peso”). La situazione si comprende molto bene immaginando di essere a bordo di un ascensore al quale siano state tagliate le funi (vabbè, un esperimento da non fare) e di osservare come vanno le cose in questa cabina “in caduta libera”. Il peso (la forza di gravità) c’è tutto, ma “non si fa sentire” perché tutto quanto cade (accelerando) sotto l’azione del peso stesso: cabina, passeggeri, oggetti (anche la luce, a dirla tutta). Dunque, rispetto alla cabina, dove l’astronauta (o il passeggero dell’ascensore) fa i suoi esperimenti, tutto va come se il peso non vi fosse: lascio “andare” una matita davanti ai miei occhi, là rimane. Perché io con lei accelero inesorabilmente. Lo stesso, esattamente lo stesso, accade nella Stazione Spaziale o in qualsiasi oggetto “in orbita”, ovvero in “caduta costante” attorno alla Terra. Che l’orbita abbia forma più o meno circolare non conta. Quel che è rilevante è che si tratta di una continua accelerazione verso il centro di attrazione (quello della Terra). Il resto viene da sé.
Allora, tornando alla questione dell’immissione in orbita della sonda Dragon, e di qualsiasi satellite o navetta lanciata in questi 55 anni di esplorazione dello spazio, si devono distinguere due aspetti: la velocità di “arrampicata” verso l’alto e quella di “giostra” trasversale. Dovrebbe essere chiaro che non ha molto senso pensare di sparare in orizzontale, a raso suolo, un missile con velocità sufficiente a “non cadere mai”, visto che a raso suolo troveremmo due ostacoli molto tenaci: l’attrito con l’aria e, a parte questo, un sacco di montagne, palazzi, alberi e altri antipatici problemi. Dunque un po’ verso l’alto dovremo pur salire. Quanto? Beh, se non abbiamo intenzione di fuggire per sempre dal nostro pianeta, non ci interessa raggiungere la velocità di cui si parlava poco fa, ovvero quella che, verticalmente impressa, ci permetta di sconfiggere definitivamente l’attrazione gravitazionale terrestre. Ci basta una velocità tale da portarci ragionevolmente fuori dalle sgrinfie frenanti dell’atmosfera (l’orbita bassa, per l’appunto, ossia almeno un paio di centinaia di chilometri di quota) e, non dimentichiamolo, una velocità “in là” per non cadere mai al suolo. Questa velocità, per il nostro pianeta, dipende dall’altezza dell’orbita. Più lontano è il satellite, minore è la velocità richiesta. Per esempio, la ISS viaggia a circa 28.000 km/h, mentre un satellite GPS se la cava con circa 14.000 km/h. La Luna? Anch’essa è un satellite, e non sfugge a questa regola. Sappiamo quanto ci mette a fare un’orbita, conosciamo il suo raggio, si ottiene facilmente che la sua velocità è di circa 3.600 km/h.
Dunque saliamo verticalmente (all’inizio) per guadagnare quota, poi “viriamo” verso Est (per approfittare del verso di rotazione del nostro pianeta) e con i motori raggiungiamo le velocità richieste. In realtà le cose sono un (bel) po’ più complicate: la velocità non viene conseguita tutta d’un botto come Jules Verne aveva immaginato nel suo lancio verso la Luna grazie a un gigantesco cannone (poveri astronauti...). La spinta è graduale e continua, sfrutta una sequenza di stadi di accelerazione dei missili vettori che sono colossali perché devono portare in alto... oggetti colossali. Sembra una contraddizione, ma è una conseguenza inevitabile delle leggi della meccanica quella di dover pagare moltissimo in termini di massa di carburante per portare in orbita una massa “utile” (il “payload”) relativamente esigua. Pagare moltissimo non è solo un modo di dire: le missioni Soyuz per il trasbordo di astronauti sulla ISS costano circa 60 milioni di dollari a capoccia. Forse la navetta Dragon, quando nel 2015 verrà abilitata al trasbordo di esseri umani e non solo di masserizia, ridurrà questi costi a circa 20 milioni di dollari per astronauta. Ancora caruccio, non c’è che dire. Questo è il prezzo per ora da pagare per vincere (e non del tutto) la forza di newtoniana memoria.
Cosa c’è di così straordinario (o complicato) in una missione di attracco alla enorme Stazione Spaziale? O, più in generale, in cosa consiste l’immissione in orbita di un oggetto qualunque a partire dalla superficie terrestre? Dopotutto è da talmente tanto tempo che si osservano lanci di satelliti di ogni genere (il primo, lo Sputnik, fu nel lontano 1957) che ci si è abituati a questo tipo di imprese. Un po’ come oggi nessuno si stupisce poi troppo di cosa ci permetta di fare internet, oppure le macchine fotografiche digitali, o ancora la rete telefonica senza fili globale. Sono meraviglie della tecnologia e della scienza che meritano attenzione e dedizione, magari dedicando a esse parte dei programmi scolastici (che invece si ostinano a infilare nella testa degli studenti poesie dell’Ottocento, pezzi di storia e battaglie ormai lontanissime nel tempo, matematica utile solo a se stessa e altri anacronismi a dire poco inquietanti).
L’astronautica ha origini antiche nella storia del pensiero scientifico: le basi teoriche per discuterne la fattibilità vanno fatte risalire alla comprensione e alla descrizione della gravità universale e allo studio dei moti che i corpi materiali compiono sotto la sua influenza. Volendo citare i nomi eccelsi a tale proposito pensiamo subito a Galilei e a Newton, i quali avevano compreso, in modi diversi ma convergenti per la maggior parte dei risultati ottenuti, che un oggetto materiale lanciato “verso l’alto” a partire dal nostro laboratorio, è destinato a ricadere al suolo inesorabilmente. A meno che non gli si imprima un moto particolarmente “deciso” grazie al quale possono accadere essenzialmente due cose (anche simultaneamente): se l’oggetto viene sparato verticalmente con una velocità sufficiente, potrà salire a una distanza dalla Terra talmente grande da “sganciarsi” dalla sua forza attrattiva. Ma può accadere anche che l’oggetto, lanciato anche “un po’ in orizzontale” (come quando si spara un proiettile con un fucile inclinato con un certo angolo), sia così rapido che, pur cadendo verticalmente per colpa dell’attrazione terrestre (che nessuno riesce a spegnere), si sposti “in là” abbastanza da vedere la superficie del suolo allontanarsi da esso, per colpa della curvatura terrestre, di più di quanto esso non ricada verso la Terra. In altre parole, il proiettile cade ma il suolo “cade di più”. E dunque il proiettile non arriva mai a toccarlo. In questo caso diciamo che il proiettile “è in orbita”.
Probabilmente questa definizione di “moto orbitale” può lasciare sorpreso qualcuno non addetto ai lavori: sarebbe a dire che un’orbita è una caduta? Esattamente: una caduta continua sotto l’azione della gravità e non, come si potrebbe essere indotti a pensare a primo avviso, un moto “senza peso”, senza interazione con la Terra. Dopotutto i numeri in gioco sono molto chiari: la Stazione Spaziale è in “orbita terrestre bassa” (LEO - Low Earth Orbit - a circa 400 kilometri sopra le nostre zucche). A questa quota la gravità terrestre si fa sentire senza problemi (un po’ meno che al suolo, è vero, ma non certo da spiegare come mai gli astronauti “sembrano senza peso”). La situazione si comprende molto bene immaginando di essere a bordo di un ascensore al quale siano state tagliate le funi (vabbè, un esperimento da non fare) e di osservare come vanno le cose in questa cabina “in caduta libera”. Il peso (la forza di gravità) c’è tutto, ma “non si fa sentire” perché tutto quanto cade (accelerando) sotto l’azione del peso stesso: cabina, passeggeri, oggetti (anche la luce, a dirla tutta). Dunque, rispetto alla cabina, dove l’astronauta (o il passeggero dell’ascensore) fa i suoi esperimenti, tutto va come se il peso non vi fosse: lascio “andare” una matita davanti ai miei occhi, là rimane. Perché io con lei accelero inesorabilmente. Lo stesso, esattamente lo stesso, accade nella Stazione Spaziale o in qualsiasi oggetto “in orbita”, ovvero in “caduta costante” attorno alla Terra. Che l’orbita abbia forma più o meno circolare non conta. Quel che è rilevante è che si tratta di una continua accelerazione verso il centro di attrazione (quello della Terra). Il resto viene da sé.
Allora, tornando alla questione dell’immissione in orbita della sonda Dragon, e di qualsiasi satellite o navetta lanciata in questi 55 anni di esplorazione dello spazio, si devono distinguere due aspetti: la velocità di “arrampicata” verso l’alto e quella di “giostra” trasversale. Dovrebbe essere chiaro che non ha molto senso pensare di sparare in orizzontale, a raso suolo, un missile con velocità sufficiente a “non cadere mai”, visto che a raso suolo troveremmo due ostacoli molto tenaci: l’attrito con l’aria e, a parte questo, un sacco di montagne, palazzi, alberi e altri antipatici problemi. Dunque un po’ verso l’alto dovremo pur salire. Quanto? Beh, se non abbiamo intenzione di fuggire per sempre dal nostro pianeta, non ci interessa raggiungere la velocità di cui si parlava poco fa, ovvero quella che, verticalmente impressa, ci permetta di sconfiggere definitivamente l’attrazione gravitazionale terrestre. Ci basta una velocità tale da portarci ragionevolmente fuori dalle sgrinfie frenanti dell’atmosfera (l’orbita bassa, per l’appunto, ossia almeno un paio di centinaia di chilometri di quota) e, non dimentichiamolo, una velocità “in là” per non cadere mai al suolo. Questa velocità, per il nostro pianeta, dipende dall’altezza dell’orbita. Più lontano è il satellite, minore è la velocità richiesta. Per esempio, la ISS viaggia a circa 28.000 km/h, mentre un satellite GPS se la cava con circa 14.000 km/h. La Luna? Anch’essa è un satellite, e non sfugge a questa regola. Sappiamo quanto ci mette a fare un’orbita, conosciamo il suo raggio, si ottiene facilmente che la sua velocità è di circa 3.600 km/h.
Dunque saliamo verticalmente (all’inizio) per guadagnare quota, poi “viriamo” verso Est (per approfittare del verso di rotazione del nostro pianeta) e con i motori raggiungiamo le velocità richieste. In realtà le cose sono un (bel) po’ più complicate: la velocità non viene conseguita tutta d’un botto come Jules Verne aveva immaginato nel suo lancio verso la Luna grazie a un gigantesco cannone (poveri astronauti...). La spinta è graduale e continua, sfrutta una sequenza di stadi di accelerazione dei missili vettori che sono colossali perché devono portare in alto... oggetti colossali. Sembra una contraddizione, ma è una conseguenza inevitabile delle leggi della meccanica quella di dover pagare moltissimo in termini di massa di carburante per portare in orbita una massa “utile” (il “payload”) relativamente esigua. Pagare moltissimo non è solo un modo di dire: le missioni Soyuz per il trasbordo di astronauti sulla ISS costano circa 60 milioni di dollari a capoccia. Forse la navetta Dragon, quando nel 2015 verrà abilitata al trasbordo di esseri umani e non solo di masserizia, ridurrà questi costi a circa 20 milioni di dollari per astronauta. Ancora caruccio, non c’è che dire. Questo è il prezzo per ora da pagare per vincere (e non del tutto) la forza di newtoniana memoria.