Ormai è sotto gli occhi (e, per fortuna, non negli occhi) di tutti. Il fatidico puntino luminoso e concentrato, rosso (o verde, e magari anche di altri colori) è un fenomeno famigliare da molti anni. Tanto da non destare più curiosità o ammirazione particolare in chi chi ne fa uso, magari per sottolineare con un puntatore una frase o un'immagine durante una conferenza; oppure, probabilmente senza accorgersene, per godersi buona musica o un bel film con un lettore di CD o di DVD. Forse però non tutti sanno cosa sia davvero un LASER e quale sia la sua incredibile storia scientifica e tecnologica che lo ha portato fino ai giorni nostri.
Il nome, anzitutto. LASER è una sigla, va dunque scritta tutta in maiuscolo, e sta per "Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation" ovvero "Amplificazione di Luce per Emissione Stimolata di Radiazione". In realtà, però, prima del LASER c'è stato un marchingegno simile che si chiamava MASER e che amplificava, invece che Light, ovvero luce, delle Microonde .
Un attimo: amplificazione di che tipo? Microonde? Come quelle del forno? Procediamo con ordine. È necessario fare un salto indietro nel tempo, quando Einstein si stava impossessando dei formalismi e dei primi modelli in grado di descrivere, secondo le leggi della nascente fisica dei quanti, il comportamento della materia e della radiazione elettromagnetica. A quei tempi (attorno al 1916), si iniziava a capire che atomi e molecole funzionano come invisibili serbatoi di energia "discreta", cioè che sono in grado di assorbire e cedere radiazione (visibile o meno) in forma di "grani" energetici detti fotoni, che però viaggiano comportandosi, se non sono disturbati, come onde di tipo elettromagnetico, come aveva spiegato qualche decennio prima James Maxwell.
Einstein aveva compreso che vi sono essenzialmente tre modi nei quali atomi e molecole fanno questo lavoro: se sono carichi di energia in eccesso, "eccitati" come anche si dice, tendono spontaneamente (e piuttosto casualmente) a liberarsi di questo fardello elettromagnetico per tornare a quello che viene detto "stato fondamentale" (a energia più bassa). Se invece queste porzioni di materia vengono illuminate da radiazione di determinata energia sono in grado di fare il processo inverso, ovvero di assorbire questa radiazione e, dunque, di "eccitarsi". Questi due fenomeni erano già stati annunciati pochi anni prima da Bohr quando il grande fisico danese tentava di giustificare il primo modello "quantistico" per l'atomo di idrogeno.
Einstein però ipotizza una terza modalità di interazione fra radiazione e materia, ovvero quella che avviene quando una molecola o un atomo già eccitato viene investito di energia che servirebbe proprio per eccitarlo. In questo caso accade una cosa insolita: l'atomo si diseccita, cioè rilascia l'energia in eccesso come risposta allo "stimolo" che gli è pervenuto dall'energia che lo ha investito, e lo fa in modo pressoché istantaneo. Il bilancio è dunque il seguente: arriva un certo ammontare di energia elettromagnetica che fa "scattare" il rilascio di un'eguale quantità di energia da parte dell'atomo eccitato e ci si ritrova dunque con due unità di energia rispetto a quella in ingresso.
Il fatto fondamentale è che una di queste due unità di energia può subito essere utilizzata per innescare a sua volta il rilascio di altre due unità di energia da un atomo che si trovava "da quelle parti" anch'esso eccitato. E così via, in una specie di reazione a catena che genera energia elettromagnetica in quantità anche notevolissime ma, soprattutto, di tipo "coerente", ovvero organizzato, come al comando di un immaginario direttore di orchestra che con la bacchetta dirige l'emissione di energia a cascata. Si tratta inoltre di radiazione "monocromatica", ovvero di una ben precisa energia o frequenza, fatto che per noi corrisponde a un colore ben preciso.
Più in dettaglio, la storia di questo fenomeno, dopo l'idea teorica originale di Einstein, passa attraverso una lunga serie di tentativi di realizzazione sperimentale (non sempre di successo), alimentati anche grazie agli studi sulle microonde e dedicati alla costruzione dei primi radar di utilizzo militare. Restando nel campo delle microonde (sì, proprio quelle che utilizziamo per scaldare o cuocere cibi contenenti acqua con il nostro forno) nel 1954 tre studiosi (Townes, Basov e Prokhorov) riescono a realizzare la parte più complicata dell'idea di Einstein: quella di ottenere abbastanza molecole "eccitate", e di mantenerle tali per il tempo necessario a investirle con la radiazione che ne avrebbe scatenato poi la diseccitazione. Si tratta altrimenti di un fenomeno molto improbabile, di fatto non privilegiato dalla natura. Questi scienziati ci riescono manipolando la molecola di ammoniaca e costruiscono dunque un amplificatore di radiazione elettromagnetica di tipo microonde per causa di questo stimolo esterno. Ecco perché la sigla MASER.
Passano poi altri anni di studi complessi per riuscire a costruire, nel 1960, una versione ottica, cioè funzionante con luce visibile, di questo apparato. L'autore principale del primo prototipo, basato su un cristallo di rubino (che è ossido di alluminio "sporcato" con del cromo), è Mainman ma già nello stesso anno viene realizzato un sistema più affidabile e stabile, capace di generare luce visibile, nel quale gli atomi coinvolti sono una miscela di elio e neon. Si tratta del primo, vero e proprio LASER con caratteristiche simili a come noi lo conosciamo e per questo risultato dobbiamo essere grati a Javan, Bennet e Herriot.
I decenni successivi vedono una continua evoluzione tecnologica di questo strumento, anche grazie allo sviluppo di nuovi materiali e, in particolare, nel 1970, all'introduzione delle fibre ottiche che, come si sa, sono in grado di trasportare luce al loro interno un po' come un fluido scorre in un tubo, seguendone la curvatura.
È difficile immaginare oggi un mondo senza LASER. Le proprietà di questa radiazione (ripetiamo: coerenza, monocromaticità, ma anche la capacità di attraversare lunghi percorsi senza disperdersi spazialmente in modo eccessivo, e dunque la possibilità di giungere lontana senza essersi troppo attenuata) la rendono fondamentalmente differente dalla luce "normale", come quella emessa da un filamento di una lampadina o da atomi che "scaricano" energia in un tubo a fluorescenza. In questi casi, infatti, la luce è incoerente: non c'è nessun "direttore di orchestra" che stabilisce il "concerto elettromagnetico" tipico del LASER e ogni atomo, per emissione "spontanea", decide un po' quando gli pare il momento di scaricare la sua energia in eccesso. Questa orchestra disorganizzata dà luogo all'emissione usuale di radiazione o di luce alla quale siamo abituati e stiamo utilizzando sicuramente in questo istante per leggere e guardarci attorno.
La luce LASER invece permette di realizzare esperimenti di misura a precisione incredibilmente elevata di posizione e spostamento di parti mobili di un macchinario, o di evidenziare proprietà fondamentali della radiazione elettromagnetica e della sua interazione a livello atomico o molecolare. La sua concentrazione e direzionalità sono alla base del funzionamento di bisturi chirurgici ormai insostituibili per la correzione di difetti oculari o per il sezionamento preciso e selettivo di tessuti, come pure per il taglio micrometrico di materiali pesanti (dalla plastica agli acciai) in campo industriale. La telecomunicazione digitale sarebbe impensabile senza impulsi ottici a frequenze (e dunque rapidità) elevatissime: come se avessimo moltiplicato il ritmo di pulsazione del vecchio, simpatico codice Morse di molti miliardi di volte, avendo, al posto di punti e linee su un nastro di carta, lampi di luce che chiamiamo ormai con abitudine "bit" di informazione, gli stessi che popolano i nostri CD, DVD, macchine fotografiche. Tutto digitale. Moltissimo trasportato, letteralmente alla velocità della luce, dal nostro amico LASER.