Non molto tempo dopo la scoperta dell’America, i navigatori individuarono l’esistenza di una corrente calda che da quelle terre avanzava rapidamente verso nord. Fra questi ci fu il navigatore spagnolo Antón de Alaminos, il quale prese parte al secondo viaggio di Colombo verso il Nuovo Mondo nel 1493 e alla spedizione che condusse Juan Ponce de León alla scoperta della Florida nel 1513. Secondo alcuni Ponce de León stava cercando la fonte della giovinezza, ma pare non sia stato particolarmente fortunato. Molta più fortuna ebbe invece de Alaminos quando nel 1519, inviato da Hernán Cortés in patria, in soli due mesi percorse la rotta Messico-Spagna, grazie al favore della corrente. Il sorprendente e caratteristico flusso iniziò ad essere meglio compreso nella seconda metà del Settecento, soprattutto per merito di una delle innumerevoli ricerche innovative di Benjamin Franklin, consentendo alle navi di seguire il corso della corrente grazie alla misurazione della sua temperatura. Franklin immaginò «the gulph stream» come un enorme fiume, rappresentandolo su una mappa destinata a diventare famosa (qui riprodotta).
Nel secolo successivo si svolse un ampio dibattito sull’origine della corrente, che vide la formulazione di numerose ipotesi. Di particolare interesse risulta quella proposta da Giulio Grablovitz, studioso di fisica terrestre e celeste, nato a Trieste nel 1846. Grablovitz, che si occupò in particolar modo di maree e terremoti, collaborò a lungo con il Reale Comitato Talassografico e il Reale Istituto Idrografico della Marina. Nel 1885 venne chiamato a far parte della Regia Commissione istituita in seguito al terremoto del 28 luglio 1883 presso Casamicciola sull’isola d’Ischia. A Grablovitz fu quindi affidato l’incarico di costruire il locale osservatorio geofisico. Fu tra i primi a redigere tavole e carte mondiali per la determinazione degli epicentri dei terremoti. Inoltre, costruì numerosi strumenti, alcuni dei quali vennero premiati con la medaglia d’oro all’Esposizione di Milano del 1906. Fu anche fondatore della Società Sismologica Italiana. Si può quindi senz’altro dire che Grablovitz fu uno scienziato di tutto rispetto.
Nel 1876 Grablovitz pubblicò una Nuova teoria sismica delle maree (Trieste, Stabilimento Tipografico Appolonio & Caprin), in cui tentava di dare una spiegazione unitaria ai «fenomeni atmosferici, oceanici e tellurici». Nel capitolo introduttivo, Sulle maree del globo in generale, esaminando l’ubicazione della «gran corrente marina conosciuta sotto il nome di Gulf Stream», che gli scienziati avevano cercato di «spiegare in molti modi, senza giungere mai ad una conclusione teorica inoppugnabile», Grablovitz scriveva: «Quest’ubicazione corrisponde esattamente all’istmo che, secondo le tradizioni egiziane, congiungeva la sommersa Atlantide (ora mare di Sargasso) all’America meridionale. Questa parte, ora sottomarina, del mondo sarebbe tuttora in movimento, secondo la mia teoria, ed il movimento semidiurno darebbe luogo a lentissime alterazioni del sottosuolo dell’Atlantico; delle quali abbiamo una prova nella scomparsa delle numerosissime alghe marine, che imbarazzavano la traversata all’epoca della scoperta dell’America. L’estensione e la violenza del terremoto di Lisbona mi provano esser questo la pura e semplice continuazione della catastrofe che sommerse l’Atlantide».
Come ben sappiamo, non risulta affatto sorprendente che uno scienziato vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento utilizzi il mito di Atlantide nell’ambito di una discussione sulla storia geologica della Terra (cfr. Query n. 21). Di questo era ben consapevole Aldo Mieli, uno dei padri della storia della scienza come disciplina specifica, il quale ebbe modo di esprimere la sua opinione all’interno di una recensione ad uno dei primi testi critici dedicati all’analisi della storia delle teorie su Atlantide, quello pubblicato da Alexander Bessmertny nel 1932. Nella recensione Mieli sottolineava, infatti, che «la questione di Atlantide», oltre ai «romanzieri», interessava ancora molte categorie di persone, in primo luogo, «i geologi e i paleontologi», intenti a determinare se nei tempi antichi «un continente, assai esteso, avesse fatto da ponte tra il Vecchio Mondo e l’America». Tuttavia, non molto tempo dopo, l’avanzamento della ricerca scientifica avrebbe dimostrato definitivamente che un simile continente non era mai esistito. Eppure, ancora nel 1972, Peter Kolosimo, nel suo Astronavi sulla Preistoria, faceva riferimento alla speculazione ottocentesca di Grablovitz, riproponendola attraverso una delle fonti sovietiche a cui spesso attingeva: «Chatherine Hagemeister, pure sovietica, scriveva nel 1955: “Atlantide doveva essere l’ostacolo che impediva alla Corrente del Golfo di raggiungere l’Europa. La sua scomparsa, avvenuta 10-11 mila anni fa, spiega la fine dell’ultimo periodo glaciale”». Se questa ipotesi poteva avere un senso nel secolo precedente, e forse ancora nel 1955, certamente non era più proponibile nel 1972.
A partire dall’ampia ed erudita Dissertation sur l’Atlantide, pubblicata nel 1841 da Thomas-Henri Martin, in Études sur le «Timée» de Platon, (finalmente ora disponibile in una edizione critica e commentata), in molti hanno tentato di fornire un elenco completo delle molteplici ipotesi formulate per individuare la collocazione geografica di Atlantide. Probabilmente non sarà mai possibile realizzare un simile elenco, dato l’incredibile numero dei soggetti che si sono interessati al tema e l’assoluta trasversalità dell’argomento. Tuttavia, proprio per questo motivo, come sottolineava Aldo Mieli nella sua recensione già citata, le teorie formulate «dai filosofi e dagli scienziati» sull’esistenza di Atlantide devono essere considerate con la massima attenzione soprattutto da parte degli «storici della scienza». Infatti, facendo emergere nuove carte dagli archivi o studiando vecchi testi abbandonati sugli scaffali delle librerie, gli storici hanno la possibilità di scrivere nuove storie o rivedere interpretazioni consolidate. Ma c’è un altro aspetto, altrettanto importante. Grazie alla conoscenza dell’evoluzione storica della scienza, infatti, è possibile comprendere perché la formulazione di certe teorie (come quelle sull’esistenza di Atlantide) ha avuto un senso nel passato ed è pienamente giustificabile nel contesto dell’epoca. E perché poi, a un certo punto, quel senso ha cessato di esistere.
Nel secolo successivo si svolse un ampio dibattito sull’origine della corrente, che vide la formulazione di numerose ipotesi. Di particolare interesse risulta quella proposta da Giulio Grablovitz, studioso di fisica terrestre e celeste, nato a Trieste nel 1846. Grablovitz, che si occupò in particolar modo di maree e terremoti, collaborò a lungo con il Reale Comitato Talassografico e il Reale Istituto Idrografico della Marina. Nel 1885 venne chiamato a far parte della Regia Commissione istituita in seguito al terremoto del 28 luglio 1883 presso Casamicciola sull’isola d’Ischia. A Grablovitz fu quindi affidato l’incarico di costruire il locale osservatorio geofisico. Fu tra i primi a redigere tavole e carte mondiali per la determinazione degli epicentri dei terremoti. Inoltre, costruì numerosi strumenti, alcuni dei quali vennero premiati con la medaglia d’oro all’Esposizione di Milano del 1906. Fu anche fondatore della Società Sismologica Italiana. Si può quindi senz’altro dire che Grablovitz fu uno scienziato di tutto rispetto.
Nel 1876 Grablovitz pubblicò una Nuova teoria sismica delle maree (Trieste, Stabilimento Tipografico Appolonio & Caprin), in cui tentava di dare una spiegazione unitaria ai «fenomeni atmosferici, oceanici e tellurici». Nel capitolo introduttivo, Sulle maree del globo in generale, esaminando l’ubicazione della «gran corrente marina conosciuta sotto il nome di Gulf Stream», che gli scienziati avevano cercato di «spiegare in molti modi, senza giungere mai ad una conclusione teorica inoppugnabile», Grablovitz scriveva: «Quest’ubicazione corrisponde esattamente all’istmo che, secondo le tradizioni egiziane, congiungeva la sommersa Atlantide (ora mare di Sargasso) all’America meridionale. Questa parte, ora sottomarina, del mondo sarebbe tuttora in movimento, secondo la mia teoria, ed il movimento semidiurno darebbe luogo a lentissime alterazioni del sottosuolo dell’Atlantico; delle quali abbiamo una prova nella scomparsa delle numerosissime alghe marine, che imbarazzavano la traversata all’epoca della scoperta dell’America. L’estensione e la violenza del terremoto di Lisbona mi provano esser questo la pura e semplice continuazione della catastrofe che sommerse l’Atlantide».
Come ben sappiamo, non risulta affatto sorprendente che uno scienziato vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento utilizzi il mito di Atlantide nell’ambito di una discussione sulla storia geologica della Terra (cfr. Query n. 21). Di questo era ben consapevole Aldo Mieli, uno dei padri della storia della scienza come disciplina specifica, il quale ebbe modo di esprimere la sua opinione all’interno di una recensione ad uno dei primi testi critici dedicati all’analisi della storia delle teorie su Atlantide, quello pubblicato da Alexander Bessmertny nel 1932. Nella recensione Mieli sottolineava, infatti, che «la questione di Atlantide», oltre ai «romanzieri», interessava ancora molte categorie di persone, in primo luogo, «i geologi e i paleontologi», intenti a determinare se nei tempi antichi «un continente, assai esteso, avesse fatto da ponte tra il Vecchio Mondo e l’America». Tuttavia, non molto tempo dopo, l’avanzamento della ricerca scientifica avrebbe dimostrato definitivamente che un simile continente non era mai esistito. Eppure, ancora nel 1972, Peter Kolosimo, nel suo Astronavi sulla Preistoria, faceva riferimento alla speculazione ottocentesca di Grablovitz, riproponendola attraverso una delle fonti sovietiche a cui spesso attingeva: «Chatherine Hagemeister, pure sovietica, scriveva nel 1955: “Atlantide doveva essere l’ostacolo che impediva alla Corrente del Golfo di raggiungere l’Europa. La sua scomparsa, avvenuta 10-11 mila anni fa, spiega la fine dell’ultimo periodo glaciale”». Se questa ipotesi poteva avere un senso nel secolo precedente, e forse ancora nel 1955, certamente non era più proponibile nel 1972.
A partire dall’ampia ed erudita Dissertation sur l’Atlantide, pubblicata nel 1841 da Thomas-Henri Martin, in Études sur le «Timée» de Platon, (finalmente ora disponibile in una edizione critica e commentata), in molti hanno tentato di fornire un elenco completo delle molteplici ipotesi formulate per individuare la collocazione geografica di Atlantide. Probabilmente non sarà mai possibile realizzare un simile elenco, dato l’incredibile numero dei soggetti che si sono interessati al tema e l’assoluta trasversalità dell’argomento. Tuttavia, proprio per questo motivo, come sottolineava Aldo Mieli nella sua recensione già citata, le teorie formulate «dai filosofi e dagli scienziati» sull’esistenza di Atlantide devono essere considerate con la massima attenzione soprattutto da parte degli «storici della scienza». Infatti, facendo emergere nuove carte dagli archivi o studiando vecchi testi abbandonati sugli scaffali delle librerie, gli storici hanno la possibilità di scrivere nuove storie o rivedere interpretazioni consolidate. Ma c’è un altro aspetto, altrettanto importante. Grazie alla conoscenza dell’evoluzione storica della scienza, infatti, è possibile comprendere perché la formulazione di certe teorie (come quelle sull’esistenza di Atlantide) ha avuto un senso nel passato ed è pienamente giustificabile nel contesto dell’epoca. E perché poi, a un certo punto, quel senso ha cessato di esistere.
Riferimenti bibliografici
- D. Bigalli. 2000. Millenarismo e America. Nascita del Nuovo Mondo o fine dell’Antico?, Milano: Edizioni Libreria Cortina.
- M. Ciardi. 2002. Atlantide. Una controversia scientifica da Colombo a Darwin, Roma: Carocci.
- M. Ciardi. 2011. Le metamorfosi di Atlantide. Storie scientifiche e immaginarie da Platone a Walt Disney, Roma: Carocci, 2011.
- P. Kolosimo. 1972. Astronavi sulla preistoria, Milano: Sugar Editore, p. 378.
- T. H. Martin. 2017. Atlantide (1841). Appunti per la fine di una leggenda, a cura di L. Anatrini, Milano-Udine: Mimesis.
- A. Mieli. 1933. Recensione a Alexander Bessmertny, Das Atlantisrätsel. Geschichte und Erklärung der Atlantishypothesen, Leipzig: R. Voigtländer (1932), in «Archeion», 15, p. 123.