Uno scettico dimenticato

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Nel 1745 l'Università di Torino nominò professore di Eloquenza italiana e Lettere greche il padovano Giuseppe Bartoli (1717-1788). Il suo nome, tuttavia, non ha lasciato una particolare traccia nella storia della letteratura. Questa, però, non è una buona ragione per oscurare il suo ruolo complessivo, che certamente fu importante, nell’ambito della storia della cultura e della scienza. Tale dimenticanza va senz’altro attribuita alla specializzazione delle ricerche nei vari ambiti disciplinari e alla difficoltà di leggere la storia secondo un’ottica che vada oltre quella frammentazione delle culture, di cui tanto si è dibattuto nel Novecento e sulla quale continuiamo a interrogarci.

Prima di tutto bisogna ricordare che Bartoli, come molti dei suoi contemporanei, si interessò allo sviluppo delle scienze e fu in contatto con importanti naturalisti, come Antonio Vallisneri junior, figlio del celebre autore dell’opera De’ corpi marini che su’ monti si truovano (1721) - una delle pietre miliari nella storia della geologia - e Giovanni Poleni, docente di fisica sperimentale (ma anche cultore degli studi classici).

Bartoli, inoltre, risultò protagonista nell’ambito dei nascenti studi archeologici. Uno dei momenti più importanti della sua attività fu sicuramente, all'inizio degli anni '60 del Settecento, la polemica con l'inglese John Turbeville Needham (noto soprattutto per le ricerche sulla generazione spontanea), circa l'origine del Busto di Iside conservato al Museo di Antichità di Torino (ancora non esisteva il Museo Egizio, che venne ufficialmente inaugurato nel 1824). Secondo Needham, le iscrizioni presenti sulla statua evidenziavano un collegamento tra la scrittura geroglifica e gli ideogrammi cinesi, fatto che avrebbe avvalorato l’ipotesi di un’origine egizia della civiltà cinese, appoggiata, fra gli altri, dal celebre orientalista francese Joseph De Guignes, membro dell'Académie des inscriptions et belles-lettres e della Royal Society. Bartoli si oppose a Needham sostenendo che l’Iside era un falso. La sua posizione risultò alla fine quella vincente.

Dal 1775 Bartoli visse a lungo a Parigi, dove strinse relazioni con numerosi ed importanti personaggi, fra cui Benjamin Frankiln. Nella capitale francese ebbe modo di constatare come un altro argomento di potenziale interesse archeologico, l’esistenza di Atlantide, fosse molto sentito e discusso nella patria dell’Illuminismo. Nel 1779 decise così di realizzare un corposo ed elaborato Essai sur l’explication historique que Platon a donnée de son Atlantide et qu’on n’a pas considérée jusq’à present.

Bartoli pensò il suo Essai come facente parte di un’opera composita, dedicata ad una analisi del progresso delle scienze e delle arti nel Settecento, e contenente la traduzione in francese ed in versi italiani di un discorso pronunciato dal re di Svezia Gustavo III l’anno precedente. Proprio uno svedese, come Bartoli ben sapeva, il celebre Olaus Rudbeck, aveva proposto alla fine del Seicento una delle interpretazioni più originali dei passi in cui Platone aveva parlato di Atlantide, collocando l'origine della mitica civiltà proprio nella terra scandinava. Tuttavia, anche se numerosi interpreti avevano ritenuto che Atlantide dovesse essere identificata con l’America, l’ipotesi più accreditata, nella seconda metà del Settecento, era ancora quella che collocava Atlantide oltre lo stretto di Gibilterra ed individuava nelle Canarie e nelle Azzorre i resti di quell’antico continente sprofondato, come era riportato nel primo volume dell’Encyclopédie (1751) alla voce Atlantique ou Isle Atlantique. A questa ipotesi, sostenuta nel secolo precedente dal poliedrico gesuita Athanasius Kircher, avevano aderito molti nomi noti dell'Illuminismo francese.

A partire dagli anni ‘60, tuttavia, altre interpretazioni si erano fatte largo nella discussione sulla leggendaria terra di Atlantide. Queste interpretazioni avevano una caratteristica comune: sostenevano con forza l’idea che le Colonne d’Ercole di cui aveva parlato Platone non dovessero essere ricercate là dove la tradizione le aveva sempre collocate, cioè presso lo Stretto di Gibilterra, ma in un luogo diverso (che naturalmente variava a seconda della teoria proposta).

Nel 1762 il teologo protestante Charles-Frédéric Baër, nativo di Strasburgo, aveva dato alle stampe, in qualità di cappellano e segretario del re di Svezia a Parigi, nonché di socio corrispondente dell’Académie des Sciences, un Essai historique et critique sur les Atlantiques, in cui (sulla scia degli apologeti seicenteschi, i quali avevano interpretato le leggende pagane come una forma degenerata della narrazione biblica), aveva considerato il racconto tramandato da Platone nient’altro che una particolare versione, sotto forma di favola, della storia degli Ebrei dopo il Diluvio universale. La mitica regione descritta nel Timeo e nel Crizia, dunque, non era nient’altro che la Palestina.

Nel 1775, invece, il noto astronomo Jean-Sylvain Bailly, nella Histoire de l’astronomie ancienne, depuis son origine jusqu’à l’établissement de l’école d’Alexandrie, aveva sostenuto l’origine asiatica della civiltà di Atlantide. L’Histoire ottenne un grande successo scientifico e di pubblico, ma provocò anche forti reazioni. Voltaire, ad esempio, inviò al collega alcune lettere critiche sull’argomento. La corrispondenza durò dal dicembre 1775 al febbraio 1776. Bailly non si scoraggiò di fronte ad una critica così autorevole, ma approfittò dell’occasione per dare vita a due ulteriori volumi, concepiti come risposta alle interrogazioni di Voltaire, le Lettres sur l’origine des sciences et sur celle des peuples de l’Asie (1777), dove venne pubblicata anche la corrispondenza con il collega filosofo, e le Lettres sur l’Atlantide de Platon et sur l’ancienne histoire de l’Asie (1779). In quest’ultima opera, l’astronomo francese localizzò il luogo d’origine della mitica civiltà in maniera ancora più esatta rispetto a quello che aveva fatto nel 1775, identificando Atlantide con lo Spitzbergen, l’arcipelago che si estende nel Mar Glaciale Artico a circa 650 km dalla costa settentrionale della Norvegia, fra la Groenlandia e la Terra di Francesco Giuseppe.

Infine, proprio nel 1779, aveva preso avvio la monumentale Histoire nouvelle de tous les peuples du monde, reduite aux seuls faits qui peuvent instruire et piquer la curiosité ou Histoire des hommes di Delisle de Sales, nei cui due primi volumi veniva presentata l’Histoire des Atlantes. De Sales, che collocava la zona corrispondente al dominio degli Atlantidei fra il Caucaso e la Spagna, sosteneva che, nei tempi antichi, Atlantide fosse stata “una grande isola” nel cuore del Mediterraneo, «situata pressappoco nella posizione attuale della Sardegna, che non esisteva affatto allora, e che potrebbe invece corrispondere ad uno dei resti di Atlantide» (l'ipotesi dell'Atlantide sarda, come sappiamo, ha incontrato una certa fortuna anche in tempi recenti).

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L’analisi di Bartoli, dopo aver esaminato criticamente le varie ipotesi in campo, intendeva muoversi su di un piano completamente diverso rispetto a questa congerie di interpretazioni. Egli rifiutò l’idea che dal racconto platonico potessero essere ricavate informazioni storiche e scientifiche attendibili. In primo luogo, perché i testi degli antichi andavano maneggiati con molta cautela. Ma, sopratutto, perché era evidente che Atlantide fosse dovuta all'immaginazione di uno dei più grandi creatori di miti di tutti tempi, miti che andavano valutati esclusivamente all'interno della sua complessa opera filosofica. In sostanza, il racconto di Platone sull’Atlantide doveva essere giudicato soltanto come una metafora delle vicende politiche relative all’Atene del V secolo a.C.

Dopo oltre duecento anni, possiamo ragionevolmente affermare che Bartoli non era troppo lontano dalla verità.

Bibliografia

  • M. Ciardi. 2011. Le metamorfosi di Atlantide. Storie scientifiche e immaginarie da Platone a Walt Disney, Roma: Carocci.
  • S. Curto. 1976. Storia del Museo Egizio di Torino, Torino: Centro Studi Piemontesi.
  • Torino città egizia? In new/stampa.php?id=273631

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