I geroglifici di Athanasius Kircher

La storia del primo grande traduttore di geroglifici e delle sue incredibili capacità di visione a distanza di migliaia di chilometri

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Le quattro facce dell'obelisco alessandrino.
La misteriosa scrittura geroglifica degli antichi Egizi ha fin dall’antichità affascinato e incuriosito per l’alone di mistero e misticismo che la avvolge.

Tutti sanno che si è dovuto attendere fino al XIX secolo, con la scoperta della Stele di Rosetta e il lavoro di Jean-François Champollion, per venire a capo di una complicata scrittura, i cui segni possono avere sia valore fonetico (cioè rappresentare un suono, come nel nostro alfabeto) che ideografico, cioè rappresentare una parola. Ma i tentativi di traduzione dei geroglifici sono stati molti fin dall’antichità, condotti per lo più assegnando a quei segni apparentemente misteriosi un valore magico-simbolico. Uno dei più noti è forse quello dell’egiziano Orapollo, plausibilmente descritto da alcuni come uno degli ultimi sacerdoti egizi. Orapollo nel V secolo d.C. scrive il suo Hieroglyphica, che ebbe grande popolarità tra gli umanisti a partire dall’edizione aldina del 1505, spiegando quasi duecento segni geroglifici. Le sue interpretazioni si affidano largamente a ragionamenti magici e simbolici, ma attingono forse, secondo gli studi più recenti, a quello che rimaneva della genuina cultura egizia.

Il secondo, forse più famoso, “traduttore di geroglifici” fu nel XVII secolo il gesuita tedesco Athanasius Kircher, che sulla scia di Orapollo, pubblica nel 1643 il suo Lingua Ægyptiaca restituta. Kircher compie la fondamentale scoperta della derivazione del copto dalla lingua egizia antica, ma attribuisce ai segni geroglifici un valore simbolico, che rende necessario per il traduttore un atteggiamento più simile a quello dell’iniziato che del linguista: peccato forse mortale per un filologo moderno, ma perfettamente in linea con il pensiero dell’età barocca.

Per quanto le traduzioni di Kircher fossero dunque “sbagliate”, un fatto straordinario avvenuto nel 1665 sembra gettare una luce anch’essa quasi magica sul gesuita di Fulda.

Ne parla la semiologa Caterina Marrone, ricercatrice al Dipartimento di Studi Filologici, Linguistici e Letterari dell’Università di Roma, in un libro uscito recentemente presso Nuovi Equilibri e intitolato I geroglifici fantastici di Athanasius Kircher. Ecco come il fatto è raccontato da Giuseppe Petrucci, allievo e collaboratore di Kircher:

«Mentre si scavava nel terreno dei RR. PP. della Minerva fu trovato un obelisco il quale tanto appariva inferiore nella grandezza a tutti gli altri, altrettanto si rimirava più perfetto, e più intero di quanti ne siano. A. P. A. Kircher intendente di questi fu imposto che ne desse piena contezza; ma siccome la missione annuale alla Mentorella gli impediva di rimanere [a Roma], lasciò a me l’incarico che non appena l’obelisco fosse tratto fuori, se ne facesse un disegno da inviargli a Tivoli dove si sarebbe fermato dopo aver compiuto la missione. Accadde che solamente tre lati si potettero disegnare, onde io impaziente, desideroso di adempiere quanto mi era stato ordinato mandai il disegno così imperfetto. Nella risposta fattami dal Padre, con gran meraviglia di chi vide, e di molte persone di dottrina non ordinaria, mi mandò il quarto lato disegnato di proprio pugno. A vista tanto inaspettata, stupefatto e curioso corsi subito a vedere se corrispondeva all’originale e rinvenni in essa il medesimo contenuto, senza segno di variazione alcuna, anzi in quei luoghi dove non v’erano figure scolpite egli supplì con espormi ciò che mancava».

Il colpo di scena è nel più puro stile barocco: il sapiente ma vanitoso Kircher non aveva saputo resistere e, mescolando alla meraviglia barocca il senso di sapienza iniziatica associato alla scrittura geroglifica, aveva messo a segno un formidabile “colpaccio”. Nel libro, l’autrice prende spunto dall’episodio per discutere circa l’insospettata “modernità” del modo di Kircher di approcciarsi alle immagini, ma qui ci limiteremo a provare a risolvere il mistero: come aveva fatto Kircher a ricostruire i geroglifici che non aveva potuto vedere?

L’obelisco di cui si parla è quello allora detto Alessandrino, portato a Roma da Domiziano insieme a quello del Pantheon. Sarà eretto qualche anno dopo da Gian Lorenzo Bernini in piazza di Santa Maria sopra Minerva, sul dorso di un elefante di marmo, dove è visibile ancora oggi. Il lato nascosto era quello oggi rivolto a ovest, contrassegnato dalla lettera D nel disegno di Kircher.

Come tutti gli obelischi, le iscrizioni (tradotte da Orazio Marucchi alla fine dell’Ottocento) hanno un funzione celebrativa: ad esempio, quella sul lato nord è tradotta come:

«Oro risplendente che fa fiorire i due paesi, figlio del Sole e del suo fianco che l’ama, Uahabra da Neit nella sede dell’ape nel basso Egitto, amato, datore di vita come il Sole in eterno».

Confrontandola con la traduzione fornita da Kircher è immediatamente chiara la differenza:

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«Hemphta, il supremo spirito e archetipo, infonde la sua virtù e doni nell’anima del mondo sidereo cioè lo spirito solare a esso sottoposto, da lì proviene il movimento vitale al mondo materiale o elementare, l’abbondanza di tutte le cose e la varietà delle specie. Dalla fruttificazione del bacino di Osiride nel quale, attratto da una qualche simpatia meravigliosa, fluisce continuamente, forte del suo stesso duplice dominio».

La traduzione di Kircher, che più barocca non si può, prosegue ancora per una mezza pagina, ma è abbastanza evidente che non gli sarebbe servita per interpolare il testo mancante.

In verità la spiegazione, come fa notare Caterina Marrone, è forse semplice per un osservatore contemporaneo, ma non era per niente ovvia per un uomo del Seicento, per quanto erudito. Come si può notare dal disegno, i lati dell’obelisco sono molto simili due a due: «Possiamo presumere […] che una volta afferrata la somiglianza a facce alterne dell’Obelisco della Minerva, Kircher, da matematico qual era, abbia ragionato per deduzione e abbia pensato […] che se la faccia A è simile alla faccia C, allora anche la faccia B dovrebbe essere simile alla faccia […] D sconosciuta».

Semplice, no? Ma, secondo l’autrice, i contemporanei di Kircher non avevano il supporto della metodologia scientifica che arrivò nell’egittologia solo con Champollion molti anni dopo, e per questo il coup de théâtre di Kircher suscitò tanta meraviglia. Sarà proprio Kircher che per primo comincerà a dedicare un grande impegno alla ricostruzione precisa e alla chiara trascrizione dei geroglifici, tanto che Champollion sarà in grado di interpretare correttamente le sue trascrizioni, a differenza delle riproduzioni approssimative e fantasiose degli autori rinascimentali, che non tenevano in gran considerazione l’aspetto documentario delle iscrizioni geroglifiche
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