Il complotto dell’“Aquila solitaria”
di Gianluigi Gronda
Se chiedete a qualcuno: “Chi è stato il primo a trasvolare l’Atlantico? Da dove è partito e dove è arrivato? Che aereo ha usato?”, sicuramente vi risponderà che è stato Charles Lindbergh che, partito da New York, arrivò a Parigi sullo “Spirit of St. Louis”. La prima parte della risposta è grossolanamente sbagliata, giacché i primi a trasvolare l’Atlantico furono i britannici John Alcock e Arthur Whitten Brown; la seconda parte può essere giusta, dato che Lindbergh partì effettivamente da New York e arrivò a Parigi; sull’ultima parte della risposta ci sarebbe invece parecchio da discutere.
Per capire ciò di cui si sta parlando, bisogna prima di tutto inscrivere i fatti nel loro contesto, cioè l’età delle trasvolate, quel periodo di venti anni, posteriore alla fine della prima guerra mondiale, in cui numerosi costruttori dovettero ricercare la clientela civile e tentare l’avventura del trasporto postale e passeggeri. Bisognava convincere il pubblico che l’aereo era ormai il mezzo di collegamento più rapido; ma il successo non sarebbe giunto se non quando si fosse provato che rapidità e sicurezza erano una cosa sola. Per interessare l’opinione pubblica e attirare verso l’aereo il maggior numero di clienti possibile, i primati costituivano il mezzo più efficace. Tutte le nazioni lo capirono e rivaleggiarono fra loro con accanimento. Inoltre, in un ambito completamente privo di precedenti giuridici, non era chiaro a chi appartenessero le rotte oceaniche e quelle che attraversavano le regioni polari: si poteva affermare l’idea che fossero libere ma poteva anche affermarsi il diritto marittimo (a cui si era ispirata l’aviazione dei primordi, intendendo il cielo un mare e gli aerei dei vascelli ivi naviganti), che stabiliva che la proprietà di una terra sconosciuta spettasse alla nazione che per prima la esplorava; in questo caso le rotte in questione sarebbero appartenute allo Stato che per primo le avrebbe percorse. E’ facile oggi giudicare fantasioso questo modo di vedere ma bisogna pensare che negli anni Venti tutto era agli inizi e tutto ancora indefinito. In quest’ottica va collocata la trasvolata con cui gli american Richard Byrd e Floyd Bennett, a bordo di un Fokker VII, raggiunsero il Polo Nord il 6 maggio 1926, beffando di pochi giorni Roald Amundsen, che compì l’impresa con il dirigibile Norge. Due anni prima, due velivoli americani Douglas DT-2 avevano compiuto il giro del mondo a tappe fra l’aprile e il settembre, facendo però viaggiare gli aerei su navi mercantili nei tratti marittimi più lunghi. Malgrado questi successi, il governo americano costatava con disappunto la crescente penetrazione di Francesi e Tedeschi nei servizi di comunicazione e trasporto aereo del Sud America ed era impensierito dal fatto che la vitale rotta del Nord Atlantico fra Europa e America era stata percorsa solo dai Britannici; per ora si trattava solo della rotta Terranova-Irlanda, scarsamente appetibile, in sé, dal punto di vista commerciale, ma nel 1919 – subito dopo quel volo – un milionario americano, Raymond Orteig, aveva avuto la pessima idea di istituire un premio di 25.000 dollari per il primo che avesse compiuto un volo senza scalo da New York a Parigi o viceversa.
Quel premio era giaciuto non riscosso per anni, ma quando il 20 settembre 1926 il famoso asso francese René Fonck tentò senza successo la traversata con un aereo Sikorsky, a Washington suonò una specie di campanello d’allarme. Il ministro statunitense delle poste Folger Brown – strenuo propugnatore della necessità per gli USA di avere una forte aviazione commerciale - comprese che l’impresa era solo rimandata, che altri avrebbero tentato e che era probabile che aviatori americani non sarebbero stati in grado di percorrere l’importantissima rotta per primi: gli europei si sarebbero impadroniti di quella vitale aerovia? Da sempre Folger Brown, repubblicano, amico dei Trusts e sostenitore dei “cartelli”, sosteneva l’idea che gli Stati Uniti dovessero entrare sul mercato mondiale del trasporto aereo con poche grandi compagnie, capaci di contrastare l’attuale primato europeo, e non con una pletora di piccoli vettori, ed era dell’idea che fosse naturale mettere al servizio di queste compagnie il peso politico dello Stato. E’ più che probabile, quindi, che Folger Brown parlasse del problema della tratta nordatlantica al presidente Coolidge. Il successivo fallimento del famoso Byrd nell’impresa e la morte di altri due piloti americani in un atterraggio di fortuna sembravano confermare le pessimistiche previsioni del Ministro delle poste. Le cose erano arrivate a questo punto, quando al suo ministero si accorsero di un giovane sottotenente che, sulla questione, si stava agitando parecchio.
Charles August Lindbergh era nato nel paesino di Little Falls (Michigan) nel 1902, figlio di immigrati svedesi; aveva sempre dimostrato più interesse per i motori che per la scuola e aveva lasciato la scuola di ingegneria dell’Università del Wisconsin senza essere approdato a nulla. Fanciullescamente innamorato degli aerei, a venti anni aveva preso il brevetto di volo presso la Nebraska Aircraft Corp. e si era fatto assumere da un certo Bahl, assieme al quale aveva iniziato ad esibirsi nelle manifestazioni aeree. Nel frattempo si addestrava al paracadute e, una volta guadagnato un po’ di denaro, si era messo in proprio acquistando un vecchio Curtiss Jenny per esibirsi nelle fiere paesane. Nel marzo del 1924 dovette capire che l’età dei giochi era finita e si arruolò presso la scuola di volo militare del Brooks Field, fu posto in un reparto di caccia ma alla fine fu congedato con il grado di sottotenente della riserva. Ritrovatosi disoccupato ancora una volta, si rassegnò ad accettare un lavoro presso la Robertson Aircraft Corp. di St. Louis come pilota postale sulla tratta St. Louis – Chicago; oltre a ciò collaborava saltuariamente ad addestrare i piloti della Guardia Nazionale del Missouri. All’età di ventiquattro anni Lindbergh non aveva combinato nulla di particolare nella sua vita ma cominciò a maturare l’idea di concorrere al premio di Orteig con una trasvolata in solitaria. Ottenne l’appoggio di un comitato di commercianti di St. Louis ma non riuscì a raccogliere denaro sufficiente per acquistare un aereo adatto all’impresa. Intenzione di Lindbergh era di compiere la traversata con un monomotore ma tutte le aziende a cui si rivolse ritennero folle un progetto del genere, compresa la Columbia Aircraft Corp. di Bellanca e Levine, che non accettò di puntare su di un pilota così giovane e sconosciuto e dall’avvenire molto incerto. Le cose erano arrivate a questo punto quando a Lindbergh vennero fatte strane proposte.
La Ryan Airlines era una sconosciutissima fabbrica di San Diego, fondata nel 1922 da Claude Ryan, sorta per riconvertire all’uso civile i residuati bellici acquistati dalle forze armate; quando i residuati terminarono, essa aveva tentato di inserirsi nel mercato degli aerei postali ma solo 37 aerei in tutto uscirono dalle catene di montaggio, due versioni di uno stesso modello. Le cose andavano così male che all’inizio del 1927 Claude Ryan aveva venduto la sua quota della compagnia al socio Frank Mahoney. Non è mai stato chiaro se fosse stato Lindbergh a proporre la costruzione di un prototipo per trasvolata alla ormai B. F. Mahoney Aircraft Corp. o se fosse stata essa ad offrire la macchina al pilota: quello che è certo è che è strano che uno sconosciuto pilota del Michigan si fosse accorto di una sconosciuta fabbrica della California, o viceversa, dato che l’unico punto di contatto erano i rapporti di ambedue con le forze armate. Si sa di sicuro che il 28 febbraio 1927 fu concluso il contratto e subito si lasciò perdere la messa a punto del B-1 Braugham, un prototipo che poteva far uscire l’industria dalla crisi, per buttarsi sulla costruzione dell’aereo per Lindbergh, in realtà una semplice modifica del Ryan M-2. Si disse in seguito che il progetto fosse di Lindbergh, ma egli non aveva le cognizioni tecnico-ingegneristiche necessarie e il NYP – così fu chiamato l’aereo –fu progettato da Donald Hall delle Ryan Airlines. La “progettazione” si ridusse ad aumentare modestamente l’apertura alare, ad installare un motore più potente e a montare un serbatoio supplementare al posto del parabrezza, cosa che portò l’autonomia massima teorica a 6.775 km (dai 1.125 iniziali) e fece somigliare un po’meno l’impresa ad un suicidio.
Raccapricciante fu la decisione di non installare a bordo una radio: le più volte addotte ragioni del peso non possono giustificare l’impossibilità di chiamare aiuto in caso di ammaraggio, che così avrebbe significato morte certa nell’oceano anche a pochi chilometri dalla costa o nei mari chiusi che si sarebbero attraversati, il Mar d’Irlanda e la Manica. A tale riguardo va fatto notare che otto anni prima Alcock e Brown neanche per un attimo pensarono di privarsi della radio, eppure erano uomini coraggiosi, che in guerra avevano visto la morte in faccia decine di volte, diversamente da Lindbergh. Ancora più sconcertante fu l’idea di non lasciare posto per il paracadute, dispositivo per il quale il pilota si era pure particolarmente addestrato negli anni precedenti: forse non sarebbe servito a niente sull’oceano ma avrebbe evitato una morte stupida e inutile in caso di incidente sull’Irlanda, l’Inghilterra o la Francia stessa, quando ormai l’aereo sarebbe stato duramente provato da ore e ore di volo.
Malgrado la semplicità della realizzazione, la costruzione dell’aereo andò avanti per due mesi, poi il 10 maggio, proprio il giorno in cui venne dato per disperso in Atlantico l’asso francese Charles Nungesser che stava tentando la stessa traversata, le cose acquistarono una straordinaria velocità: il NYP partì da San Diego e due giorni dopo era a New York da dove decollò per Parigi il 20 alle 7.52 locali, non appena le previsioni meteorologiche, all’epoca piuttosto approssimative, annunciarono un tempo appena decente. Il NYP, con a bordo 1.703 l. di benzina più 75 l. di olio, decollò molto faticosamente da un campo di volo fradicio ed evitò per poco dei cavi telefonici a fine pista. Tenendo presente il cielo plumbeo e il fatto che il pilota non aveva dormito la notte precedente, non si poteva dar torto ai testimoni che – come ebbe a dire Lindbergh più tardi – sembrava stessero assistendo ad un funerale. L’aereo scomparve verso Nord – Est e di esso non si seppe più nulla per 26 – 27 ore (le testimonianze sono piuttosto discordanti). Nessuno conoscerà i pensieri e le emozioni di Lindbergh, che in seguito dirà di aver dovuto lottare più che altro contro il sonno, ben diversamente dei soliti Alcock e Brown che dovettero affrontare nebbie, furiosi venti avversi, una tempesta, l’esplosione dell’ugello di un motore, una caduta a vite oltre al fatto che Brown dovette strisciare sulle ali per raschiare il ghiaccio che vi si stava formando, e tutto ciò nel bel mezzo di giugno. La mattina del 21 maggio un peschereccio di fronte alle coste irlandesi vide un aereo che discendeva verso di esso con il motore al minimo, mentre il pilota dal finestrino chiedeva a squarciagola “dov’è l’Irlanda?”. Al cenno fatto con il braccio, l’aereo diede gas e sparì in quella direzione. Da sempre ci si è chiesti il perché di una simile manovra; Lindbergh spiegherà di aver fatto una cosa simile decine di volte, alle fiere paesane, con la differenza che qui non si era ad una fiera paesana e il suo aereo era in funzione ininterrottamente da ormai più di 24 ore. Nessuno poteva assicurare che in quelle condizioni il motore sarebbe rimasto acceso e se si fosse spento non ci sarebbe stato il tempo materiale per riaccenderlo, a patto che ciò fosse possibile. E tutto ciò per una risibile domanda: Lindbergh aveva problemi alla bussola? Non ne ha mai parlato. Un’altra cosa che lasciò perplessi fu che Lindbergh avesse impiegato 16/17 ore ad attraversare l’oceano, lo stesso tempo impiegato da Alcock e Brown, che però utilizzavano un aereo più lento e pesante.
Durante la mattinata il NYP fu avvistato in diversi punti della costa occidentale irlandese, quasi fosse una parata; la notizia arrivò a Parigi e la città entro in subbuglio. Alla sera una folla enorme decretò il trionfo di Lindbergh che, pur non dormendo da tre giorni e due notti non pareva per nulla provato, e non aveva neanche il volto tipicamente annerito dai fumi di scarico del motore, come bene ha mostrato recentemente una trasmissione italiana di divulgazione scientifica (Ulisse). Lindbergh venne strappato dal posto di guida e portato in trionfo mentre si raccomandava di portare al sicuro l’aereo. Un'unica foto rubata dall’esterno raffigura bene il NYP all’interno di un hangar, piantonato da militari per evitare che nessuno si avvicinasse e vedesse…cosa? Infatti sembra che non ci fosse nulla di particolare da vedere: la fusoliera dell’aereo appare linda e senza i “baffi” di nerofumo in corrispondenza degli ugelli del motore Wright J-5 da 240 CV, che doveva essere in funzione da ben 33 ore e mezza, almeno secondo la versione ufficiale.
A questo punto è necessario tornare al famoso colloquio tra Folger Brown e il presidente Coolidge (che riguardo ai “cartelli” la pensava come il suo ministro); sicuramente si era arrivati alla conclusione che l’aiuto federale (il bando del concorso non lo impediva) avrebbe sicuramente aumentato le percentuali di riuscita della trasvolata, ma agli Stati Uniti, in quel momento non servivano buone percentuali, serviva che l’impresa riuscisse assolutamente, e a maggior ragione quando lo Stato vi si fosse trovato coinvolto e impegnato. Si trattava di portare sicuramente un Americano da New York a Parigi, attraverso Terranova e l’Irlanda, senza scalo: questa era la difficoltà principale, poiché già Alcock e Brown avevano coperto il tratto oceanico, usando tecnologia della I guerra mondiale e un aereo moderno avrebbe potuto sicuramente ripetere quell’impresa. Per esempio l’aereo per passeggeri Fokker VII, che già aveva compiuto notevoli imprese, costruito dalla sussidiaria americana della olandese Fokker, ad Hazebrouck Heights, nel New Jersey, opportunamente modificato, avrebbe fatto esattamente al caso, essendo un velivolo destinato alle lunghe tratte. Certo ciò non corrispondeva ai termini della sfida ma qualcuno poteva partire in solitaria da New York, raggiungere una zona boscosa del Maine occidentale, atterrare su di una striscia di terreno opportunamente preparata, salire su un Fokker VII pronto alla partenza e seguire una rotta a grande altezza e più spostata sull’oceano (e in un mondo senza radar e senza rete di controlli tutto ciò sarebbe passato inosservato). Il problema principale era dove poter rieffettuare il cambio di aereo, per far arrivare il pilota a Parigi sullo stesso modello di aereo con il quale era partito. Secondo Folger Brown ciò poteva essere effettuato proprio in Irlanda, indipendente dal 1922, dove gli Stati Uniti potevano contare su amici importanti. Eamon De Valera era il principale di questi: nato a New York e cittadino americano, nel 1916 aveva fomentato una rivolta anti-inglese a Dublino e, quando questa era fallita, solo gli Usa lo avevano salvato dal capestro. Dopo l’indipendenza irlandese, l’estremismo del suo movimento, il Sinn Fein, lo aveva escluso dal gioco politico e ora scalpitava per rientrarvi, e per far ciò stava cercando fondi – soprattutto fra gli emigrati irlandesi negli Stati Uniti - per fondare un movimento più moderato e politicamente più accettabile (il Fianna Fàil, che guarda caso venne fondato proprio nel 1927). Bisognoso di aiuti, non dimentico delle sue radici statunitensi, arcinemico degli Inglesi, non avrebbe certo voluto che l’aerovia del Nord Atlantico cadesse nelle loro mani e avrebbe fornito tutto l’aiuto necessario con l’ampia rete interna del suo movimento, molti membri del quale avevano parenti negli USA. Dopo frenetiche consultazioni mediante posta diplomatica con l’addetto militare dell’ambasciata americana a Dublino, questi chiese direttamente a De Valera l’appoggio per una non meglio precisata operazione aerea sperimentale americana sul territorio dell’Eire ed egli accettò, naturalmente non senza contropartita. Si trattava ora di trovare “l’uomo”, la persona che per patriottismo si prestasse ad una trasvolata così particolare; secondo Folger Brown doveva essere un militare, uno sconosciuto, una persona qualsiasi senza nulla alle spalle e uno sconosciuto sottotenente della riserva, ancora collaborante con l’aviazione, fu subito notato da alcuni quadri dell’arma aerea, che avevano ricevuto l’ordine di cercare un uomo come lui senza sapere però per quale scopo. Contattato direttamente da Folger Brown, uno come Lindbergh avrebbe avuto tutto da guadagnare e niente da perdere ad accettare; inoltre egli andava bene anche perché voleva effettuare la traversata in solitaria e ciò avrebbe significato coinvolgere una persona di meno nell’affare. La piccola fabbrica di San Diego sull’orlo del fallimento fu subito scovata grazie ai suoi costanti rapporti con le Forze Armate: essa doveva solo accettare la proposta di Lindbergh e consegnare al Ministero delle poste il progetto del NYP, senza sapere altro. Mentre a San Diego la costruzione dell’aereo andava avanti piano, a New York una squadra di cinque tecnici dell’aeronautica lavorava freneticamente alla costruzione di un gemello del NYP che, una volta terminato, fu smontato, imballato in casse anonime e spedito in Irlanda, all’indirizzo di una casella postale aperta e poi chiusa per l’occasione, su due navi distinte, la seconda delle quali trasportava anche la stessa squadra di tecnici. A Dublino due distinti gruppi di aderenti al Sinn Fein – che si ignoravano l’un l’altro – presero in consegna al porto le casse in due momenti diversi e le portarono sino ad una fattoria munita di un grande granaio, con davanti un ampio tratto di terreno erboso, in una landa isolata dell’Irlanda occidentale. La fattoria era stata presa in affitto da una persona terza, sempre appartenente al movimento di De Valera, che non sapeva chi ci sarebbe andato e perché. Passò l’indirizzo e le chiavi solo ai capi delle squadre di scaricatori: il primo le nascose sul posto, il secondo le passò assieme all’indirizzo al capo della squadra dei tecnici americani. L’aereo venne rimontato facilmente, anche se per il collaudo ci si dovette accontentare solo di prove motore su banco.
A New York intanto, il 14 marzo 1927 (due settimane dopo la stesura del contratto fra Lindbergh e la “Mahoney ex Ryan”) si costituiva una società aerea, la Pan American, i cui azionisti già da mesi avevano ordinato alla Fokker un paio di Fokker VII. Pochissimi giorni dopo la società ricevette, da parte del Ministero delle poste, la richiesta di poter avere per alcuni giorni il primo esemplare di Fokker consegnato, per fare alcune prove di valutazione. La “valutazione” dovette essere convincente, perché la Pan Am il 16 luglio di quell’anno ricevette inaspettatamente l’appalto per il servizio postale fra gli Stati Uniti e Cuba, punto iniziale delle sue fortune. Sempre nel marzo una squadra di genieri dell’esercito ebbe il suo daffare ad approntare una striscia di atterraggio ed un piccolo hangar nel Maine occidentale, in una zona spopolata fra il fiume Penobscot e il mare; niente di strano: a quei tempi le Forze Armate si costruivano piccoli aeroporti un po’ ovunque. Folger Brown seguiva tutto con apprensione: i rischi di uno scandalo colossale erano sempre incombenti e al momento opportuno tutto doveva svolgersi il più rapidamente possibile, per le alte probabilità che un apparato così complesso fosse scoperto se fosse stato a lungo esposto. Si aspettava con ansia il mese di maggio, il primo, secondo i meteorologi, che potesse offrire condizioni accettabili. Il tentativo di Nungesser e Colì l’8 maggio sembrò per un attimo vanificare tutto ma il 10 era già chiaro a tutti che i due sventurati si erano persi per sempre nell’Atlantico: quella sera stessa il NYP decollò da San Diego per New York. I giorni fra il 13 e il 19 furono di grande tensione, tesi ad individuare il primo momento utile per il decollo. Il 19 e la notte seguente sembrarono offrire un momento propizio e Lindbergh fu costretto alla veglia ma poté decollare solo verso le 8 del 20. Alle prime luci dell’alba un Fokker opportunamente modificato e con un equipaggio di tre esperti avieri era già decollato da un aeroporto militare del New Jersey per raggiungere la striscia d’atterraggio completamente deserta del Maine. Quando il NYP arrivò tutto si svolse con piena efficienza: l’aereo fu chiuso dentro il piccolo hangar predisposto e il Fokker ripartì ad equipaggio completo. In questo modo si potrebbe spiegare la mancanza di radio: meglio evitare che qualcuno chiamasse un aereo che non poteva rispondere, che radioamatori curiosi si mettessero in ascolto, che qualche radiogoniometro canadese, inglese o francese facesse strani rilevamenti, oltre al fatto che era difficile trovare due ricetrasmittenti assolutamente identiche – anche nel numero di serie delle diverse valvole -da montare sui due aerei.
Anche l’assenza del paracadute diventava irrilevante, dato che i due NYP avrebbero dovuto volare per poco tempo, con scarse probabilità di avaria meccanica o di incontrare maltempo. Il volo del Fokker VII sull’Atlantico fu una buona prova, una delle tante e non la più grande di questo eccezionale velivolo. Solo Lindbergh conosceva le coordinate dell’atterraggio in Irlanda, che fu forse la parte più difficile del viaggio, per l’esiguità del terreno a disposizione. Gli uomini a terra furono preavvisati da bordo del Fokker e all’atterraggio il secondo NYP era già pronto, con i serbatoi pieni per un terzo. Reperire alla spicciolata il carburante in Irlanda era stata la parte più difficile dell’operazione, e doveva bastare sia per il NYP che per il Fokker che, infatti, tornò subito indietro con il capotecnico, mentre gli altri uomini della squadra lasciarono l’Irlanda separatamente nei giorni seguenti. Durante la mattinata del 21 il NYP, tornato sull’oceano si fece avvistare con una rischiosissima manovra da un peschereccio e si fece identificare come l’aereo di Lindbergh grazie alla risibile domanda di cui si è parlato. Quanto esposto spiegherebbe anche il fatto che il tempo impiegato sul tratto oceanico fosse lo stesso di Alcock e Brown e maggiore di quanto ci si aspettasse. Il pilota arrivò per nulla provato a Parigi ed è chiara la sua volontà di tenere lontani gli estranei: alcuni avrebbero potuto notare che le strisce di nerofumo in corrispondenza degli ugelli del motore erano troppo esili per un aereo che aveva volato 33 ore e mezzo. Il Fokker riportò il capotecnico al campo di volo del Maine, dove egli provvide a smontare il primo NYP, a bruciarne una parte e ad imballare il rimanente. Alcuni giorni dopo un’auto dell’esercito provvide a recuperare un “meccanico” presso un campo destinato ad essere abbandonato e costui, nei giorni seguenti, si preoccupò di disperdere con un autocarro le rimanenti parti dell’aereo.
Conclusione: Lindbergh trasvolò veramente l’Atlantico ma con un’organizzazione ben più vasta di quanto mostrato. Si trattava di una questione di Stato, vitale per gli interessi economici e politici del Paese e quei pochissimi che sapevano tutta la storia mantennero il segreto da militari quali erano. Lindbergh divenne un simbolo e ricevette ogni tipo di onori, ma dopo quest’impresa non combinò assolutamente nulla di particolare. Altre imprese più grandi seguirono, ma tutte con piloti in coppia e tutte oscurate a priori dal volo dell’”aquila solitaria”.
Fonti: L. BUTTI – “Gli aeroplani alla conquista del cielo”, Editrice Piccoli, Milano – s. d. ROSARIO ABATE – “Storia degli aerei”, La Sorgente Editrice, Milano – 1964 AA.VV. a cura di Jacques Gambu - “Il trionfo della velocità”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano – 1971 AA.VV. – “L’enciclopedia dei personaggi”, De Agostini, Novara – 1999-2001 AA.VV. – “Enciclopedia Universo”, De Agostini, Novara – 1965 AA.VV. – “Modernissimo dizionario illustrato”, vol. II, De Agostini, Novara – 1964-1972 AA.VV. – “I precursori e i protagonisti del volo”, De Agostini, Novara – 1985 AA.VV. – “L’aviazione”, voll. IX, X, XI, XV, De Agostini, Novara – 1985 AA.VV. – “Atlante geografico”, vol. I, Treccani, Roma – 2008 “Charles August Lindbergh” – Wikipedia “Spirit of Saint Louis” - Wikipedia
di Gianluigi Gronda
Se chiedete a qualcuno: “Chi è stato il primo a trasvolare l’Atlantico? Da dove è partito e dove è arrivato? Che aereo ha usato?”, sicuramente vi risponderà che è stato Charles Lindbergh che, partito da New York, arrivò a Parigi sullo “Spirit of St. Louis”. La prima parte della risposta è grossolanamente sbagliata, giacché i primi a trasvolare l’Atlantico furono i britannici John Alcock e Arthur Whitten Brown; la seconda parte può essere giusta, dato che Lindbergh partì effettivamente da New York e arrivò a Parigi; sull’ultima parte della risposta ci sarebbe invece parecchio da discutere.
Per capire ciò di cui si sta parlando, bisogna prima di tutto inscrivere i fatti nel loro contesto, cioè l’età delle trasvolate, quel periodo di venti anni, posteriore alla fine della prima guerra mondiale, in cui numerosi costruttori dovettero ricercare la clientela civile e tentare l’avventura del trasporto postale e passeggeri. Bisognava convincere il pubblico che l’aereo era ormai il mezzo di collegamento più rapido; ma il successo non sarebbe giunto se non quando si fosse provato che rapidità e sicurezza erano una cosa sola. Per interessare l’opinione pubblica e attirare verso l’aereo il maggior numero di clienti possibile, i primati costituivano il mezzo più efficace. Tutte le nazioni lo capirono e rivaleggiarono fra loro con accanimento. Inoltre, in un ambito completamente privo di precedenti giuridici, non era chiaro a chi appartenessero le rotte oceaniche e quelle che attraversavano le regioni polari: si poteva affermare l’idea che fossero libere ma poteva anche affermarsi il diritto marittimo (a cui si era ispirata l’aviazione dei primordi, intendendo il cielo un mare e gli aerei dei vascelli ivi naviganti), che stabiliva che la proprietà di una terra sconosciuta spettasse alla nazione che per prima la esplorava; in questo caso le rotte in questione sarebbero appartenute allo Stato che per primo le avrebbe percorse. E’ facile oggi giudicare fantasioso questo modo di vedere ma bisogna pensare che negli anni Venti tutto era agli inizi e tutto ancora indefinito. In quest’ottica va collocata la trasvolata con cui gli american Richard Byrd e Floyd Bennett, a bordo di un Fokker VII, raggiunsero il Polo Nord il 6 maggio 1926, beffando di pochi giorni Roald Amundsen, che compì l’impresa con il dirigibile Norge. Due anni prima, due velivoli americani Douglas DT-2 avevano compiuto il giro del mondo a tappe fra l’aprile e il settembre, facendo però viaggiare gli aerei su navi mercantili nei tratti marittimi più lunghi. Malgrado questi successi, il governo americano costatava con disappunto la crescente penetrazione di Francesi e Tedeschi nei servizi di comunicazione e trasporto aereo del Sud America ed era impensierito dal fatto che la vitale rotta del Nord Atlantico fra Europa e America era stata percorsa solo dai Britannici; per ora si trattava solo della rotta Terranova-Irlanda, scarsamente appetibile, in sé, dal punto di vista commerciale, ma nel 1919 – subito dopo quel volo – un milionario americano, Raymond Orteig, aveva avuto la pessima idea di istituire un premio di 25.000 dollari per il primo che avesse compiuto un volo senza scalo da New York a Parigi o viceversa.
Quel premio era giaciuto non riscosso per anni, ma quando il 20 settembre 1926 il famoso asso francese René Fonck tentò senza successo la traversata con un aereo Sikorsky, a Washington suonò una specie di campanello d’allarme. Il ministro statunitense delle poste Folger Brown – strenuo propugnatore della necessità per gli USA di avere una forte aviazione commerciale - comprese che l’impresa era solo rimandata, che altri avrebbero tentato e che era probabile che aviatori americani non sarebbero stati in grado di percorrere l’importantissima rotta per primi: gli europei si sarebbero impadroniti di quella vitale aerovia? Da sempre Folger Brown, repubblicano, amico dei Trusts e sostenitore dei “cartelli”, sosteneva l’idea che gli Stati Uniti dovessero entrare sul mercato mondiale del trasporto aereo con poche grandi compagnie, capaci di contrastare l’attuale primato europeo, e non con una pletora di piccoli vettori, ed era dell’idea che fosse naturale mettere al servizio di queste compagnie il peso politico dello Stato. E’ più che probabile, quindi, che Folger Brown parlasse del problema della tratta nordatlantica al presidente Coolidge. Il successivo fallimento del famoso Byrd nell’impresa e la morte di altri due piloti americani in un atterraggio di fortuna sembravano confermare le pessimistiche previsioni del Ministro delle poste. Le cose erano arrivate a questo punto, quando al suo ministero si accorsero di un giovane sottotenente che, sulla questione, si stava agitando parecchio.
Charles August Lindbergh era nato nel paesino di Little Falls (Michigan) nel 1902, figlio di immigrati svedesi; aveva sempre dimostrato più interesse per i motori che per la scuola e aveva lasciato la scuola di ingegneria dell’Università del Wisconsin senza essere approdato a nulla. Fanciullescamente innamorato degli aerei, a venti anni aveva preso il brevetto di volo presso la Nebraska Aircraft Corp. e si era fatto assumere da un certo Bahl, assieme al quale aveva iniziato ad esibirsi nelle manifestazioni aeree. Nel frattempo si addestrava al paracadute e, una volta guadagnato un po’ di denaro, si era messo in proprio acquistando un vecchio Curtiss Jenny per esibirsi nelle fiere paesane. Nel marzo del 1924 dovette capire che l’età dei giochi era finita e si arruolò presso la scuola di volo militare del Brooks Field, fu posto in un reparto di caccia ma alla fine fu congedato con il grado di sottotenente della riserva. Ritrovatosi disoccupato ancora una volta, si rassegnò ad accettare un lavoro presso la Robertson Aircraft Corp. di St. Louis come pilota postale sulla tratta St. Louis – Chicago; oltre a ciò collaborava saltuariamente ad addestrare i piloti della Guardia Nazionale del Missouri. All’età di ventiquattro anni Lindbergh non aveva combinato nulla di particolare nella sua vita ma cominciò a maturare l’idea di concorrere al premio di Orteig con una trasvolata in solitaria. Ottenne l’appoggio di un comitato di commercianti di St. Louis ma non riuscì a raccogliere denaro sufficiente per acquistare un aereo adatto all’impresa. Intenzione di Lindbergh era di compiere la traversata con un monomotore ma tutte le aziende a cui si rivolse ritennero folle un progetto del genere, compresa la Columbia Aircraft Corp. di Bellanca e Levine, che non accettò di puntare su di un pilota così giovane e sconosciuto e dall’avvenire molto incerto. Le cose erano arrivate a questo punto quando a Lindbergh vennero fatte strane proposte.
La Ryan Airlines era una sconosciutissima fabbrica di San Diego, fondata nel 1922 da Claude Ryan, sorta per riconvertire all’uso civile i residuati bellici acquistati dalle forze armate; quando i residuati terminarono, essa aveva tentato di inserirsi nel mercato degli aerei postali ma solo 37 aerei in tutto uscirono dalle catene di montaggio, due versioni di uno stesso modello. Le cose andavano così male che all’inizio del 1927 Claude Ryan aveva venduto la sua quota della compagnia al socio Frank Mahoney. Non è mai stato chiaro se fosse stato Lindbergh a proporre la costruzione di un prototipo per trasvolata alla ormai B. F. Mahoney Aircraft Corp. o se fosse stata essa ad offrire la macchina al pilota: quello che è certo è che è strano che uno sconosciuto pilota del Michigan si fosse accorto di una sconosciuta fabbrica della California, o viceversa, dato che l’unico punto di contatto erano i rapporti di ambedue con le forze armate. Si sa di sicuro che il 28 febbraio 1927 fu concluso il contratto e subito si lasciò perdere la messa a punto del B-1 Braugham, un prototipo che poteva far uscire l’industria dalla crisi, per buttarsi sulla costruzione dell’aereo per Lindbergh, in realtà una semplice modifica del Ryan M-2. Si disse in seguito che il progetto fosse di Lindbergh, ma egli non aveva le cognizioni tecnico-ingegneristiche necessarie e il NYP – così fu chiamato l’aereo –fu progettato da Donald Hall delle Ryan Airlines. La “progettazione” si ridusse ad aumentare modestamente l’apertura alare, ad installare un motore più potente e a montare un serbatoio supplementare al posto del parabrezza, cosa che portò l’autonomia massima teorica a 6.775 km (dai 1.125 iniziali) e fece somigliare un po’meno l’impresa ad un suicidio.
Raccapricciante fu la decisione di non installare a bordo una radio: le più volte addotte ragioni del peso non possono giustificare l’impossibilità di chiamare aiuto in caso di ammaraggio, che così avrebbe significato morte certa nell’oceano anche a pochi chilometri dalla costa o nei mari chiusi che si sarebbero attraversati, il Mar d’Irlanda e la Manica. A tale riguardo va fatto notare che otto anni prima Alcock e Brown neanche per un attimo pensarono di privarsi della radio, eppure erano uomini coraggiosi, che in guerra avevano visto la morte in faccia decine di volte, diversamente da Lindbergh. Ancora più sconcertante fu l’idea di non lasciare posto per il paracadute, dispositivo per il quale il pilota si era pure particolarmente addestrato negli anni precedenti: forse non sarebbe servito a niente sull’oceano ma avrebbe evitato una morte stupida e inutile in caso di incidente sull’Irlanda, l’Inghilterra o la Francia stessa, quando ormai l’aereo sarebbe stato duramente provato da ore e ore di volo.
Malgrado la semplicità della realizzazione, la costruzione dell’aereo andò avanti per due mesi, poi il 10 maggio, proprio il giorno in cui venne dato per disperso in Atlantico l’asso francese Charles Nungesser che stava tentando la stessa traversata, le cose acquistarono una straordinaria velocità: il NYP partì da San Diego e due giorni dopo era a New York da dove decollò per Parigi il 20 alle 7.52 locali, non appena le previsioni meteorologiche, all’epoca piuttosto approssimative, annunciarono un tempo appena decente. Il NYP, con a bordo 1.703 l. di benzina più 75 l. di olio, decollò molto faticosamente da un campo di volo fradicio ed evitò per poco dei cavi telefonici a fine pista. Tenendo presente il cielo plumbeo e il fatto che il pilota non aveva dormito la notte precedente, non si poteva dar torto ai testimoni che – come ebbe a dire Lindbergh più tardi – sembrava stessero assistendo ad un funerale. L’aereo scomparve verso Nord – Est e di esso non si seppe più nulla per 26 – 27 ore (le testimonianze sono piuttosto discordanti). Nessuno conoscerà i pensieri e le emozioni di Lindbergh, che in seguito dirà di aver dovuto lottare più che altro contro il sonno, ben diversamente dei soliti Alcock e Brown che dovettero affrontare nebbie, furiosi venti avversi, una tempesta, l’esplosione dell’ugello di un motore, una caduta a vite oltre al fatto che Brown dovette strisciare sulle ali per raschiare il ghiaccio che vi si stava formando, e tutto ciò nel bel mezzo di giugno. La mattina del 21 maggio un peschereccio di fronte alle coste irlandesi vide un aereo che discendeva verso di esso con il motore al minimo, mentre il pilota dal finestrino chiedeva a squarciagola “dov’è l’Irlanda?”. Al cenno fatto con il braccio, l’aereo diede gas e sparì in quella direzione. Da sempre ci si è chiesti il perché di una simile manovra; Lindbergh spiegherà di aver fatto una cosa simile decine di volte, alle fiere paesane, con la differenza che qui non si era ad una fiera paesana e il suo aereo era in funzione ininterrottamente da ormai più di 24 ore. Nessuno poteva assicurare che in quelle condizioni il motore sarebbe rimasto acceso e se si fosse spento non ci sarebbe stato il tempo materiale per riaccenderlo, a patto che ciò fosse possibile. E tutto ciò per una risibile domanda: Lindbergh aveva problemi alla bussola? Non ne ha mai parlato. Un’altra cosa che lasciò perplessi fu che Lindbergh avesse impiegato 16/17 ore ad attraversare l’oceano, lo stesso tempo impiegato da Alcock e Brown, che però utilizzavano un aereo più lento e pesante.
Durante la mattinata il NYP fu avvistato in diversi punti della costa occidentale irlandese, quasi fosse una parata; la notizia arrivò a Parigi e la città entro in subbuglio. Alla sera una folla enorme decretò il trionfo di Lindbergh che, pur non dormendo da tre giorni e due notti non pareva per nulla provato, e non aveva neanche il volto tipicamente annerito dai fumi di scarico del motore, come bene ha mostrato recentemente una trasmissione italiana di divulgazione scientifica (Ulisse). Lindbergh venne strappato dal posto di guida e portato in trionfo mentre si raccomandava di portare al sicuro l’aereo. Un'unica foto rubata dall’esterno raffigura bene il NYP all’interno di un hangar, piantonato da militari per evitare che nessuno si avvicinasse e vedesse…cosa? Infatti sembra che non ci fosse nulla di particolare da vedere: la fusoliera dell’aereo appare linda e senza i “baffi” di nerofumo in corrispondenza degli ugelli del motore Wright J-5 da 240 CV, che doveva essere in funzione da ben 33 ore e mezza, almeno secondo la versione ufficiale.
A questo punto è necessario tornare al famoso colloquio tra Folger Brown e il presidente Coolidge (che riguardo ai “cartelli” la pensava come il suo ministro); sicuramente si era arrivati alla conclusione che l’aiuto federale (il bando del concorso non lo impediva) avrebbe sicuramente aumentato le percentuali di riuscita della trasvolata, ma agli Stati Uniti, in quel momento non servivano buone percentuali, serviva che l’impresa riuscisse assolutamente, e a maggior ragione quando lo Stato vi si fosse trovato coinvolto e impegnato. Si trattava di portare sicuramente un Americano da New York a Parigi, attraverso Terranova e l’Irlanda, senza scalo: questa era la difficoltà principale, poiché già Alcock e Brown avevano coperto il tratto oceanico, usando tecnologia della I guerra mondiale e un aereo moderno avrebbe potuto sicuramente ripetere quell’impresa. Per esempio l’aereo per passeggeri Fokker VII, che già aveva compiuto notevoli imprese, costruito dalla sussidiaria americana della olandese Fokker, ad Hazebrouck Heights, nel New Jersey, opportunamente modificato, avrebbe fatto esattamente al caso, essendo un velivolo destinato alle lunghe tratte. Certo ciò non corrispondeva ai termini della sfida ma qualcuno poteva partire in solitaria da New York, raggiungere una zona boscosa del Maine occidentale, atterrare su di una striscia di terreno opportunamente preparata, salire su un Fokker VII pronto alla partenza e seguire una rotta a grande altezza e più spostata sull’oceano (e in un mondo senza radar e senza rete di controlli tutto ciò sarebbe passato inosservato). Il problema principale era dove poter rieffettuare il cambio di aereo, per far arrivare il pilota a Parigi sullo stesso modello di aereo con il quale era partito. Secondo Folger Brown ciò poteva essere effettuato proprio in Irlanda, indipendente dal 1922, dove gli Stati Uniti potevano contare su amici importanti. Eamon De Valera era il principale di questi: nato a New York e cittadino americano, nel 1916 aveva fomentato una rivolta anti-inglese a Dublino e, quando questa era fallita, solo gli Usa lo avevano salvato dal capestro. Dopo l’indipendenza irlandese, l’estremismo del suo movimento, il Sinn Fein, lo aveva escluso dal gioco politico e ora scalpitava per rientrarvi, e per far ciò stava cercando fondi – soprattutto fra gli emigrati irlandesi negli Stati Uniti - per fondare un movimento più moderato e politicamente più accettabile (il Fianna Fàil, che guarda caso venne fondato proprio nel 1927). Bisognoso di aiuti, non dimentico delle sue radici statunitensi, arcinemico degli Inglesi, non avrebbe certo voluto che l’aerovia del Nord Atlantico cadesse nelle loro mani e avrebbe fornito tutto l’aiuto necessario con l’ampia rete interna del suo movimento, molti membri del quale avevano parenti negli USA. Dopo frenetiche consultazioni mediante posta diplomatica con l’addetto militare dell’ambasciata americana a Dublino, questi chiese direttamente a De Valera l’appoggio per una non meglio precisata operazione aerea sperimentale americana sul territorio dell’Eire ed egli accettò, naturalmente non senza contropartita. Si trattava ora di trovare “l’uomo”, la persona che per patriottismo si prestasse ad una trasvolata così particolare; secondo Folger Brown doveva essere un militare, uno sconosciuto, una persona qualsiasi senza nulla alle spalle e uno sconosciuto sottotenente della riserva, ancora collaborante con l’aviazione, fu subito notato da alcuni quadri dell’arma aerea, che avevano ricevuto l’ordine di cercare un uomo come lui senza sapere però per quale scopo. Contattato direttamente da Folger Brown, uno come Lindbergh avrebbe avuto tutto da guadagnare e niente da perdere ad accettare; inoltre egli andava bene anche perché voleva effettuare la traversata in solitaria e ciò avrebbe significato coinvolgere una persona di meno nell’affare. La piccola fabbrica di San Diego sull’orlo del fallimento fu subito scovata grazie ai suoi costanti rapporti con le Forze Armate: essa doveva solo accettare la proposta di Lindbergh e consegnare al Ministero delle poste il progetto del NYP, senza sapere altro. Mentre a San Diego la costruzione dell’aereo andava avanti piano, a New York una squadra di cinque tecnici dell’aeronautica lavorava freneticamente alla costruzione di un gemello del NYP che, una volta terminato, fu smontato, imballato in casse anonime e spedito in Irlanda, all’indirizzo di una casella postale aperta e poi chiusa per l’occasione, su due navi distinte, la seconda delle quali trasportava anche la stessa squadra di tecnici. A Dublino due distinti gruppi di aderenti al Sinn Fein – che si ignoravano l’un l’altro – presero in consegna al porto le casse in due momenti diversi e le portarono sino ad una fattoria munita di un grande granaio, con davanti un ampio tratto di terreno erboso, in una landa isolata dell’Irlanda occidentale. La fattoria era stata presa in affitto da una persona terza, sempre appartenente al movimento di De Valera, che non sapeva chi ci sarebbe andato e perché. Passò l’indirizzo e le chiavi solo ai capi delle squadre di scaricatori: il primo le nascose sul posto, il secondo le passò assieme all’indirizzo al capo della squadra dei tecnici americani. L’aereo venne rimontato facilmente, anche se per il collaudo ci si dovette accontentare solo di prove motore su banco.
A New York intanto, il 14 marzo 1927 (due settimane dopo la stesura del contratto fra Lindbergh e la “Mahoney ex Ryan”) si costituiva una società aerea, la Pan American, i cui azionisti già da mesi avevano ordinato alla Fokker un paio di Fokker VII. Pochissimi giorni dopo la società ricevette, da parte del Ministero delle poste, la richiesta di poter avere per alcuni giorni il primo esemplare di Fokker consegnato, per fare alcune prove di valutazione. La “valutazione” dovette essere convincente, perché la Pan Am il 16 luglio di quell’anno ricevette inaspettatamente l’appalto per il servizio postale fra gli Stati Uniti e Cuba, punto iniziale delle sue fortune. Sempre nel marzo una squadra di genieri dell’esercito ebbe il suo daffare ad approntare una striscia di atterraggio ed un piccolo hangar nel Maine occidentale, in una zona spopolata fra il fiume Penobscot e il mare; niente di strano: a quei tempi le Forze Armate si costruivano piccoli aeroporti un po’ ovunque. Folger Brown seguiva tutto con apprensione: i rischi di uno scandalo colossale erano sempre incombenti e al momento opportuno tutto doveva svolgersi il più rapidamente possibile, per le alte probabilità che un apparato così complesso fosse scoperto se fosse stato a lungo esposto. Si aspettava con ansia il mese di maggio, il primo, secondo i meteorologi, che potesse offrire condizioni accettabili. Il tentativo di Nungesser e Colì l’8 maggio sembrò per un attimo vanificare tutto ma il 10 era già chiaro a tutti che i due sventurati si erano persi per sempre nell’Atlantico: quella sera stessa il NYP decollò da San Diego per New York. I giorni fra il 13 e il 19 furono di grande tensione, tesi ad individuare il primo momento utile per il decollo. Il 19 e la notte seguente sembrarono offrire un momento propizio e Lindbergh fu costretto alla veglia ma poté decollare solo verso le 8 del 20. Alle prime luci dell’alba un Fokker opportunamente modificato e con un equipaggio di tre esperti avieri era già decollato da un aeroporto militare del New Jersey per raggiungere la striscia d’atterraggio completamente deserta del Maine. Quando il NYP arrivò tutto si svolse con piena efficienza: l’aereo fu chiuso dentro il piccolo hangar predisposto e il Fokker ripartì ad equipaggio completo. In questo modo si potrebbe spiegare la mancanza di radio: meglio evitare che qualcuno chiamasse un aereo che non poteva rispondere, che radioamatori curiosi si mettessero in ascolto, che qualche radiogoniometro canadese, inglese o francese facesse strani rilevamenti, oltre al fatto che era difficile trovare due ricetrasmittenti assolutamente identiche – anche nel numero di serie delle diverse valvole -da montare sui due aerei.
Anche l’assenza del paracadute diventava irrilevante, dato che i due NYP avrebbero dovuto volare per poco tempo, con scarse probabilità di avaria meccanica o di incontrare maltempo. Il volo del Fokker VII sull’Atlantico fu una buona prova, una delle tante e non la più grande di questo eccezionale velivolo. Solo Lindbergh conosceva le coordinate dell’atterraggio in Irlanda, che fu forse la parte più difficile del viaggio, per l’esiguità del terreno a disposizione. Gli uomini a terra furono preavvisati da bordo del Fokker e all’atterraggio il secondo NYP era già pronto, con i serbatoi pieni per un terzo. Reperire alla spicciolata il carburante in Irlanda era stata la parte più difficile dell’operazione, e doveva bastare sia per il NYP che per il Fokker che, infatti, tornò subito indietro con il capotecnico, mentre gli altri uomini della squadra lasciarono l’Irlanda separatamente nei giorni seguenti. Durante la mattinata del 21 il NYP, tornato sull’oceano si fece avvistare con una rischiosissima manovra da un peschereccio e si fece identificare come l’aereo di Lindbergh grazie alla risibile domanda di cui si è parlato. Quanto esposto spiegherebbe anche il fatto che il tempo impiegato sul tratto oceanico fosse lo stesso di Alcock e Brown e maggiore di quanto ci si aspettasse. Il pilota arrivò per nulla provato a Parigi ed è chiara la sua volontà di tenere lontani gli estranei: alcuni avrebbero potuto notare che le strisce di nerofumo in corrispondenza degli ugelli del motore erano troppo esili per un aereo che aveva volato 33 ore e mezzo. Il Fokker riportò il capotecnico al campo di volo del Maine, dove egli provvide a smontare il primo NYP, a bruciarne una parte e ad imballare il rimanente. Alcuni giorni dopo un’auto dell’esercito provvide a recuperare un “meccanico” presso un campo destinato ad essere abbandonato e costui, nei giorni seguenti, si preoccupò di disperdere con un autocarro le rimanenti parti dell’aereo.
Conclusione: Lindbergh trasvolò veramente l’Atlantico ma con un’organizzazione ben più vasta di quanto mostrato. Si trattava di una questione di Stato, vitale per gli interessi economici e politici del Paese e quei pochissimi che sapevano tutta la storia mantennero il segreto da militari quali erano. Lindbergh divenne un simbolo e ricevette ogni tipo di onori, ma dopo quest’impresa non combinò assolutamente nulla di particolare. Altre imprese più grandi seguirono, ma tutte con piloti in coppia e tutte oscurate a priori dal volo dell’”aquila solitaria”.
Fonti: L. BUTTI – “Gli aeroplani alla conquista del cielo”, Editrice Piccoli, Milano – s. d. ROSARIO ABATE – “Storia degli aerei”, La Sorgente Editrice, Milano – 1964 AA.VV. a cura di Jacques Gambu - “Il trionfo della velocità”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano – 1971 AA.VV. – “L’enciclopedia dei personaggi”, De Agostini, Novara – 1999-2001 AA.VV. – “Enciclopedia Universo”, De Agostini, Novara – 1965 AA.VV. – “Modernissimo dizionario illustrato”, vol. II, De Agostini, Novara – 1964-1972 AA.VV. – “I precursori e i protagonisti del volo”, De Agostini, Novara – 1985 AA.VV. – “L’aviazione”, voll. IX, X, XI, XV, De Agostini, Novara – 1985 AA.VV. – “Atlante geografico”, vol. I, Treccani, Roma – 2008 “Charles August Lindbergh” – Wikipedia “Spirit of Saint Louis” - Wikipedia