Nel momento in cui scrivo, si stanno concludendo in tutta Italia gli esami di stato del II ciclo, ovvero il vecchio esame di maturità. Quest’anno vi sono state diverse novità che erano state introdotte per decreto nel 2017 dal governo Gentiloni e sono state poi convertite in legge nel 2018.
I mass media si sono ampiamente occupati di queste novità, concentrandosi soprattutto sul colloquio. Da quest’anno, infatti, il colloquio di esame prende il via dalla scelta, da parte del candidato, di una di tre buste preparate preventivamente dalla commissione. Queste buste possono contenere una poesia, un brano, un’immagine, un grafico, una formula, una tabella, ecc. Il contenuto della busta estratta costituisce lo spunto a partire dal quale il candidato deve trovare collegamenti con le varie discipline oggetto di studio nell’ultimo anno di corso. Come sempre accade, si è assistito a una doppia polarizzazione tra coloro che hanno condiviso la scelta dei nostri governanti e coloro che, indignati, hanno visto di cattivo occhio l’introduzione nelle scuole di modalità più affini agli ambienti televisivi, piuttosto che alle aule scolastiche.
Minor interesse e dibattito hanno invece suscitato le altre importanti novità dell’esame di quest’anno. L’abolizione della terza prova scritta (che prevedeva domande e/o quesiti che potevano riguardare fino a cinque materie) e l’introduzione di una seconda prova scritta bi-disciplinare. Quest’ultima variazione è particolarmente innovativa. Non si tratta infatti di una prova che contiene domande su due materie, ma di risolvere problemi che coinvolgano contemporaneamente due discipline. Quest’anno gli abbinamenti scelti dal MIUR sono stati, ad esempio: matematica e fisica per il liceo scientifico, latino e greco per il classico, scienze umane e diritto ed economia politica per il liceo delle scienze umane (opzione economico sociale), discipline turistiche e aziendali e inglese per l’istituto tecnico per il turismo, informatica e sistemi e reti per l’istituto tecnico indirizzo informatica, ecc.
Un’interessante analisi critica di questa seconda novità dell’esame di Stato è stata fatta da Vincenzo Barone, docente di Fisica teorica presso l’Università del Piemonte orientale e impegnato divulgatore e saggista, in un articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore[1]. Vale la pena riportarne di seguito ampi stralci.
Scrive Barone, in apertura del suo articolo:
«Tra le tante cose che lui, filosofo, non capiva, c’era la differenza enorme di metodo e di conseguente forma mentale che occorre tra l’insegnante di matematica e quello di fisica». Era il 1961 e, davanti a una platea di docenti, Eligio Perucca rifletteva amaramente sullo stato dell’insegnamento della fisica nei licei. Leggendario professore del Politecnico di Torino, autore di un trattato su cui si sono formate generazioni di fisici e di ingegneri, Perucca metteva il dito su una piaga – tuttora aperta – del sistema educativo italiano. La sua osservazione era sacrosanta, anzi ovvia: davvero bisogna ricordare che la matematica è una costruzione astratta, mentre la fisica è una scienza sperimentale? Eppure, dalle nostre parti – e solo da noi –, le due discipline vengono costantemente confuse, e non aiuta certo il fatto che a scuola si parli ormai più di flipped classroom che di laboratori. Non è infrequente, così, imbattersi in documenti ministeriali che scambiano le leggi fisiche per teoremi, o leggere manuali scolastici che pretendono che il fondamento della fisica stia nelle loro prime pagine – a imitazione degli Elementi di Euclide – e non invece fuori, nel mondo esterno.
Barone cerca poi di risalire alle radici di simili fraintendimenti e continua:
L’origine di questa confusione – che riguarda anche alcune discipline umanistiche – sta nella riforma voluta nel 1923 da Giovanni Gentile (il filosofo di cui parlava Perucca), con la quale venivano introdotti i cosiddetti “abbinamenti”; si accorpavano, cioè, sotto uno stesso docente, gli insegnamenti di storia e di filosofia, di matematica e di fisica, e, in blocco, quelli di tutte le scienze naturali (biologia, chimica, scienze della Terra). Se nel caso della storia e della filosofia l’abbinamento scaturiva dallo stesso pensiero gentiliano, nel caso delle discipline matematico-scientifiche era figlio solo di ignoranza (le cose, magari, sarebbero andate diversamente se la riforma fosse arrivata qualche anno dopo, quando il figlio di Gentile, Giovannino, si laureò in fisica, avviandosi a una brillante e purtroppo breve carriera scientifica), e il fatto che la situazione non sia mai stata corretta dimostra quanto tale ignoranza sia ancora radicata nel nostro ambiente politico e culturale.
Gli abbinamenti furono, fin dall’inizio, tra gli aspetti più criticati della riforma Gentile. Una commissione dell’Accademia dei Lincei che esaminò la riforma sotto la guida del matematico Guido Castelnuovo espresse un parere fortemente negativo. «Noi che vediamo formarsi nelle nostre scuole i docenti futuri – scrisse nella relazione finale Castelnuovo – comprendiamo quanto sarà difficile dare ad essi la facoltà di insegnare insieme discipline che esigono mentalità diverse o diverse attitudini tecniche. Noi temiamo che la minore competenza o il minore interesse dell’insegnante per una delle discipline che è chiamato a impartire potranno rendere meno efficace la sua opera e ne diminuiranno il prestigio presso la scolaresca».
Nelle pagine di questa rubrica[2] abbiamo in diverse occasioni sottolineato l’opportunità, quasi lapalissiana, che ogni docente insegni la materia nella quale è veramente preparato e non si debba invece improvvisare esperto su materie che conosce poco o per nulla. Ma, come continua Barone:
È tempo di esami di Stato e gli abbinamenti gentiliani si ripropongono tangibilmente in questi giorni: ha appena esordito la prova scritta di matematica e fisica al liceo scientifico (con una serie di problemi ottocenteschi che non rendono giustizia né all’una né all’altra disciplina) e, nel momento in cui scrivo, qualche chimico, dopo il rito delle tre buste, sta interrogando gli esaminandi sulla genetica dei microrganismi o sulla tettonica delle placche, mentre un suo collega filosofo si prepara a valutarli sulle conseguenze geopolitiche del trattato di Versailles. Non ci facciamo neanche più caso, visto il diffuso dilettantismo intellettuale. Intendiamoci: il problema non è tanto quello di fornire nozioni imprecise o sbagliate, quanto piuttosto di non essere in grado di trasmettere agli allievi lo spirito e il metodo di una disciplina in cui non ci si è formati, fallendo in quello che dovrebbe essere l’obiettivo primario, la formazione – come diceva Giuliano Toraldo di Francia – di una “coscienza scientifica”.
Relativamente alla sua disciplina, la fisica, Barone aggiunge:
Si corre peraltro il rischio che anche i pochissimi cambiamenti positivi introdotti di recente vengano vanificati. Dal 2014 i programmi (o, come si chiamano oggi, in epoca di semplificazione burocratica, le “indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento”) prevedono che all’ultimo anno del liceo scientifico si insegni la fisica moderna: relatività, meccanica quantistica, fisica del microcosmo e dell’universo. Un’innovazione lodevole, che ha permesso agli studenti di scoprire finalmente la bellezza della fisica (contribuendo peraltro a un forte incremento delle immatricolazioni universitarie nel corrispondente corso di laurea), ma ha gettato nello sconforto migliaia di insegnanti, laureati in matematica, che si sono trovati a insegnare qualcosa che non avevano mai studiato (o che avevano studiato in maniera superficiale).
Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le altre discipline. Purtroppo nelle nostre scuole è oramai abituale trovare chimici che devono insegnare biologia e scienze della Terra (senza magari aver mai dato un solo esame di nessuna delle due discipline), naturalisti e biologi costretti a insegnare chimica o addirittura matematica (nelle scuole medie), psicologi che devono improvvisarsi esperti di filosofia, laureati in legge che devono insegnare economia, eccetera.
Purtroppo all’origine di queste aberrazioni vi sono le famigerate “classi di concorso”, contro le quali si scaglia lo stesso Barone, ovvero gli abbinamenti (a volte estremamente fantasiosi) tra laurea posseduta e discipline che si possono insegnare.
Tutti i variegati interventi che negli ultimi anni i diversi governi hanno attuato sulla scuola (chiamarli riforme appare francamente eccessivo[3]) non hanno minimante affrontato questo punto che invece appare assolutamente cruciale. Verso la fine del suo articolo Barone lancia un segnale di speranza:
Mancano quattro anni al centenario della riforma concepita dal filosofo di Castelvetrano e sarebbe bello, per l’occasione, mandare definitivamente in soffitta i suoi strascichi più anacronistici.
Subito seguito, ahimè, da un molto più realistico:
Ma è inutile farsi illusioni.
I mass media si sono ampiamente occupati di queste novità, concentrandosi soprattutto sul colloquio. Da quest’anno, infatti, il colloquio di esame prende il via dalla scelta, da parte del candidato, di una di tre buste preparate preventivamente dalla commissione. Queste buste possono contenere una poesia, un brano, un’immagine, un grafico, una formula, una tabella, ecc. Il contenuto della busta estratta costituisce lo spunto a partire dal quale il candidato deve trovare collegamenti con le varie discipline oggetto di studio nell’ultimo anno di corso. Come sempre accade, si è assistito a una doppia polarizzazione tra coloro che hanno condiviso la scelta dei nostri governanti e coloro che, indignati, hanno visto di cattivo occhio l’introduzione nelle scuole di modalità più affini agli ambienti televisivi, piuttosto che alle aule scolastiche.
Minor interesse e dibattito hanno invece suscitato le altre importanti novità dell’esame di quest’anno. L’abolizione della terza prova scritta (che prevedeva domande e/o quesiti che potevano riguardare fino a cinque materie) e l’introduzione di una seconda prova scritta bi-disciplinare. Quest’ultima variazione è particolarmente innovativa. Non si tratta infatti di una prova che contiene domande su due materie, ma di risolvere problemi che coinvolgano contemporaneamente due discipline. Quest’anno gli abbinamenti scelti dal MIUR sono stati, ad esempio: matematica e fisica per il liceo scientifico, latino e greco per il classico, scienze umane e diritto ed economia politica per il liceo delle scienze umane (opzione economico sociale), discipline turistiche e aziendali e inglese per l’istituto tecnico per il turismo, informatica e sistemi e reti per l’istituto tecnico indirizzo informatica, ecc.
Un’interessante analisi critica di questa seconda novità dell’esame di Stato è stata fatta da Vincenzo Barone, docente di Fisica teorica presso l’Università del Piemonte orientale e impegnato divulgatore e saggista, in un articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore[1]. Vale la pena riportarne di seguito ampi stralci.
Scrive Barone, in apertura del suo articolo:
«Tra le tante cose che lui, filosofo, non capiva, c’era la differenza enorme di metodo e di conseguente forma mentale che occorre tra l’insegnante di matematica e quello di fisica». Era il 1961 e, davanti a una platea di docenti, Eligio Perucca rifletteva amaramente sullo stato dell’insegnamento della fisica nei licei. Leggendario professore del Politecnico di Torino, autore di un trattato su cui si sono formate generazioni di fisici e di ingegneri, Perucca metteva il dito su una piaga – tuttora aperta – del sistema educativo italiano. La sua osservazione era sacrosanta, anzi ovvia: davvero bisogna ricordare che la matematica è una costruzione astratta, mentre la fisica è una scienza sperimentale? Eppure, dalle nostre parti – e solo da noi –, le due discipline vengono costantemente confuse, e non aiuta certo il fatto che a scuola si parli ormai più di flipped classroom che di laboratori. Non è infrequente, così, imbattersi in documenti ministeriali che scambiano le leggi fisiche per teoremi, o leggere manuali scolastici che pretendono che il fondamento della fisica stia nelle loro prime pagine – a imitazione degli Elementi di Euclide – e non invece fuori, nel mondo esterno.
Barone cerca poi di risalire alle radici di simili fraintendimenti e continua:
L’origine di questa confusione – che riguarda anche alcune discipline umanistiche – sta nella riforma voluta nel 1923 da Giovanni Gentile (il filosofo di cui parlava Perucca), con la quale venivano introdotti i cosiddetti “abbinamenti”; si accorpavano, cioè, sotto uno stesso docente, gli insegnamenti di storia e di filosofia, di matematica e di fisica, e, in blocco, quelli di tutte le scienze naturali (biologia, chimica, scienze della Terra). Se nel caso della storia e della filosofia l’abbinamento scaturiva dallo stesso pensiero gentiliano, nel caso delle discipline matematico-scientifiche era figlio solo di ignoranza (le cose, magari, sarebbero andate diversamente se la riforma fosse arrivata qualche anno dopo, quando il figlio di Gentile, Giovannino, si laureò in fisica, avviandosi a una brillante e purtroppo breve carriera scientifica), e il fatto che la situazione non sia mai stata corretta dimostra quanto tale ignoranza sia ancora radicata nel nostro ambiente politico e culturale.
Gli abbinamenti furono, fin dall’inizio, tra gli aspetti più criticati della riforma Gentile. Una commissione dell’Accademia dei Lincei che esaminò la riforma sotto la guida del matematico Guido Castelnuovo espresse un parere fortemente negativo. «Noi che vediamo formarsi nelle nostre scuole i docenti futuri – scrisse nella relazione finale Castelnuovo – comprendiamo quanto sarà difficile dare ad essi la facoltà di insegnare insieme discipline che esigono mentalità diverse o diverse attitudini tecniche. Noi temiamo che la minore competenza o il minore interesse dell’insegnante per una delle discipline che è chiamato a impartire potranno rendere meno efficace la sua opera e ne diminuiranno il prestigio presso la scolaresca».
Nelle pagine di questa rubrica[2] abbiamo in diverse occasioni sottolineato l’opportunità, quasi lapalissiana, che ogni docente insegni la materia nella quale è veramente preparato e non si debba invece improvvisare esperto su materie che conosce poco o per nulla. Ma, come continua Barone:
È tempo di esami di Stato e gli abbinamenti gentiliani si ripropongono tangibilmente in questi giorni: ha appena esordito la prova scritta di matematica e fisica al liceo scientifico (con una serie di problemi ottocenteschi che non rendono giustizia né all’una né all’altra disciplina) e, nel momento in cui scrivo, qualche chimico, dopo il rito delle tre buste, sta interrogando gli esaminandi sulla genetica dei microrganismi o sulla tettonica delle placche, mentre un suo collega filosofo si prepara a valutarli sulle conseguenze geopolitiche del trattato di Versailles. Non ci facciamo neanche più caso, visto il diffuso dilettantismo intellettuale. Intendiamoci: il problema non è tanto quello di fornire nozioni imprecise o sbagliate, quanto piuttosto di non essere in grado di trasmettere agli allievi lo spirito e il metodo di una disciplina in cui non ci si è formati, fallendo in quello che dovrebbe essere l’obiettivo primario, la formazione – come diceva Giuliano Toraldo di Francia – di una “coscienza scientifica”.
Relativamente alla sua disciplina, la fisica, Barone aggiunge:
Si corre peraltro il rischio che anche i pochissimi cambiamenti positivi introdotti di recente vengano vanificati. Dal 2014 i programmi (o, come si chiamano oggi, in epoca di semplificazione burocratica, le “indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento”) prevedono che all’ultimo anno del liceo scientifico si insegni la fisica moderna: relatività, meccanica quantistica, fisica del microcosmo e dell’universo. Un’innovazione lodevole, che ha permesso agli studenti di scoprire finalmente la bellezza della fisica (contribuendo peraltro a un forte incremento delle immatricolazioni universitarie nel corrispondente corso di laurea), ma ha gettato nello sconforto migliaia di insegnanti, laureati in matematica, che si sono trovati a insegnare qualcosa che non avevano mai studiato (o che avevano studiato in maniera superficiale).
Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le altre discipline. Purtroppo nelle nostre scuole è oramai abituale trovare chimici che devono insegnare biologia e scienze della Terra (senza magari aver mai dato un solo esame di nessuna delle due discipline), naturalisti e biologi costretti a insegnare chimica o addirittura matematica (nelle scuole medie), psicologi che devono improvvisarsi esperti di filosofia, laureati in legge che devono insegnare economia, eccetera.
Purtroppo all’origine di queste aberrazioni vi sono le famigerate “classi di concorso”, contro le quali si scaglia lo stesso Barone, ovvero gli abbinamenti (a volte estremamente fantasiosi) tra laurea posseduta e discipline che si possono insegnare.
Tutti i variegati interventi che negli ultimi anni i diversi governi hanno attuato sulla scuola (chiamarli riforme appare francamente eccessivo[3]) non hanno minimante affrontato questo punto che invece appare assolutamente cruciale. Verso la fine del suo articolo Barone lancia un segnale di speranza:
Mancano quattro anni al centenario della riforma concepita dal filosofo di Castelvetrano e sarebbe bello, per l’occasione, mandare definitivamente in soffitta i suoi strascichi più anacronistici.
Subito seguito, ahimè, da un molto più realistico:
Ma è inutile farsi illusioni.
Note
1) V. Barone, “Matematica e fisica: matrimonio sbagliato. Matematica e fisica, storia e filosofia: gli anacronistici abbinamenti della scuola gentiliana in vigore dal 1923”, Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2019.
2) Si veda, ad esempio: S. Fuso, “Primo motivare! Studenti e insegnanti”, Query n. 1-I, 2010.
3) Si veda: S. Fuso, “La buona scuola. Riforme, proclami e realtà oggettiva della scuola italiana”, Query n. 19-V, 2014.