«Un altro dei primi pittori del mondo disprezza quell’arte dove è rarissimo e si è messo a studiare la filosofia, maturando concetti così strani e nuove chimere, che egli stesso con tutta la sua bravura non saprebbe dipingerli».
Quest’uomo così singolare altri non è che Leonardo da Vinci. A descriverlo con queste parole è un suo contemporaneo, Baldassarre Castiglione, che aveva conosciuto Leonardo a Milano, alla fine del Quattrocento, e che lo ritrova a Roma intorno al 1513.
Lo descrive, insomma, quando Leonardo è già avanti con gli anni, ne ha 61, e i suoi più alti momenti di gloria sono ormai alle spalle. A Roma, infatti, Leonardo è arrivato su invito di Giuliano de’ Medici, fratello di Giovanni, da poco asceso al soglio papale con il nome di Leone X. Ma per quanto Giuliano sia innamorato del genio di Leonardo, il pontefice non lo capisce e forse ne ha soggezione.
Tant’è vero che gli riserva in Vaticano un alloggio non all’altezza, insieme a fabbri e falegnami di corte, e poi non ne impiega come potrebbe il talento. Quando gli chiede un dipinto, Leonardo inizia a distillare olii e vernici, necessari per creare la sua pittura quasi trasparente, e il papa, che non capisce, crede che prepari la vernice di finitura e sospira sfiduciato: «Oimè, costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera».
È dunque a Roma che nasce la leggenda di Leonardo come uomo che si perde dietro mille «pazzie», come scrive il suo più celebre biografo, Giorgio Vasari. «Mentre che camminava faceva animali sottilissimi pieni di vento, nei quali soffiando gli faceva volare per l’aria» racconta Vasari. E poi realizza una sorta di mostro alato: «Fermò un ramarro, trovato dal vignaruolo del belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scagli e di altri ramarri scortiate, ali addosso con misture di argenti vivi, che nel muoversi quando camminava tremavano; e fattoli gli occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici ai quali lo mostrava, per paura faceva fuggire».
Sono l’aspetto ludico della ricerca scientifica di Leonardo, che però tanto Vasari quanto molti dei suoi contemporanei non capivano.
Così come non comprendevano la sua ricerca di perfezione nell’arte che consideravano “eccessiva”. Paolo Giovio, storico e umanista che conobbe Leonardo a Pavia, dove questi era impegnato nello studio dell’anatomia insieme al medico Marcantonio Della Torre, scrive che «dandosi con eccessiva meticolosità a cercare nuovi mezzi e tecniche di un’arte raffinata, condusse a termine pochissime opere, scartando sempre le prime idee per volubilità di carattere e per naturale insofferenza».
Ancora più drastico Vasari, che non conobbe Leonardo, poiché aveva otto anni quando l’artista morì, ma che raccolse testimonianze dai suoi discepoli e amici: «Lionardo per l’intelligenza de l’arte cominciò molte cose, e nessuna mai ne finì, parendogli che la mano aggiungere non potesse alla perfezione dell’arte nelle cose che egli s’immaginava».
Ma se queste sono le critiche principali che i suoi contemporanei gli muovono, per il fatto di non comprendere il suo impegno nello studio della natura e per il suo desiderio di creare opere il più possibile realistiche, le lodi al genio di Leonardo sono tali che nessun altro può stargli appresso.
«Grandissimi doni si veggono piovere da gli influssi celesti ne’ corpi umani» scrive sempre Vasari «e talvolta strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gli altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa largita da Dio, e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci».
Che i “doni” di Leonardo rasentassero il sovrannaturale erano in tanti a pensarlo. Un altro contemporaneo rimasto anonimo, e per questo conosciuto come l’Anonimo Gaddiano, scrive che «fu tanto raro et universale, che dalla natura per suo miracolo esser produtto dire si puote: la quale non solo delle bellezze del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di infinite virtù volse ancora farlo maestro».
Tuttavia, Leonardo non era artista che lavorava su commissione. Troppo impegnativo, lungo e accurato il suo lavoro per essere accettabile per quei committenti che desideravano opere realizzate in tempi rapidi e a costi contenuti. Si spiega così l’esito della sua prima opera importante, l’Adorazione dei Magi commissionatagli nel 1481 dai monaci di San Donato a Scopeto: a ciascuno dei 30 personaggi raffigurati egli voleva dare un umore, una reazione, un’espressione del viso che fosse solo sua. Esigenza che richiedeva lunghissimi studi e ricerca tra i volti del popolo. Troppo lunghi: Leonardo non fu pagato e il quadro rimase incompiuto.
La sua prima opera milanese importante, la Vergine delle Rocce, è un capolavoro ma, poiché ha richiesto al suo autore molto più tempo e materiali per essere realizzata, il suo prezzo è salito e i frati committenti non sono disposti a pagare il conguaglio. Ne nascerà una controversia legale che si protrarrà per vent’anni.
Per questo egli lavora meglio come artista e ingegnere di corte, al soldo di potenti che gli affidano incarichi di ogni tipo, ma che lo lasciano anche libero di perseguire i suoi studi. Alle dipendenze di Ludovico il Moro, signore di Milano, vive per quasi vent’anni: gli anni migliori della sua vita. E gli spettacoli straordinari, pieni di effetti speciali e animali meccanici, che realizza per il Moro, fanno parlare di lui in tutte le corti d’Europa.
Dopo la caduta di Ludovico, però, Leonardo si trova costretto a cercare nuove strade e, nonostante abbia bisogno di lavorare, si dimostra deciso a non svendere la sua arte. La duchessa Isabella d’Este arriva a supplicare Leonardo perché le faccia un ritratto e lui, in visita a Mantova, schizza un profilo a carboncino promettendole un dipinto vero e proprio, che però non farà mai. Lei gli scrive lettere, manda emissari potenti a ricordargli la promessa, ma lui svicola, rimanda e assicura che l’accontenterà, ben consapevole che non lo farà mai. Isabella, infatti, ha fama di donna capricciosa, che ha fatto penare altri artisti da lei ingaggiati.
Eppure, leggere il tono con cui la potente signora di Mantova si rivolge a un artista fa bene comprendere la stima e l’ammirazione che circondano Leonardo: «Se saremo compiaciute in questo nostro supremo desiderio, sappi che oltre al pagamento, quello che tu vorrai, ti resterò talmente obbligata da non pensare ad altro che a esserti grata».
Tra gli artisti c’è chi lo ama incondizionatamente, come Raffaello, che è stato allievo di un compagno di bottega di Leonardo, il Perugino, e che per omaggiare il genio di Vinci lo ritrae nella sua Scuola di Atene, negli appartamenti del papa in Vaticano, e dona il suo volto al più importante dei filosofi, Platone, posto al centro della scena.
Ma c’è anche chi lo detesta, come Michelangelo, che lo considera un vecchio inconcludente e forse ne invidia l’aura di “leggenda vivente” che lo circonda ovunque vada. «Volesti fare un disegno di un cavallo per gittarlo in bronzo» gli dice una volta incontrandolo per strada a Firenze, come ricorda l’Anonimo Gaddiano, «e non lo potesti fare et per vergogna lo lasciasti stare». Si riferisce al gigantesco monumento equestre per gli Sforza, di cui Leonardo realizzò un modello in creta alto sette metri, ma che non poté fondere poiché il Moro, assediato dai francesi, fu costretto a impiegare il bronzo messo da parte allo scopo per fondere cannoni.
A conclusione dell’avventura terrena di Leonardo, però, c’è un’ultima dimostrazione di amore incondizionato che gli dimostra uno degli uomini più potenti d’Europa, il giovane re di Francia Francesco I. Egli è cresciuto con il mito di Leonardo e ne ha sentito continuamente parlare dal suocero, il re Luigi XII, che entrando a Milano, dopo la cacciata di Ludovico il Moro, rimase abbagliato dal Cenacolo di Santa Maria delle Grazie e lo avrebbe fatto staccare dalla parete per portarselo in Francia, se ciò non lo avesse distrutto.
Così, non appena Francesco diventa re, il suo primo desiderio è quello di raggiungere Leonardo, all’epoca in Vaticano, strapparlo al papa e portarlo a vivere con sé in Francia. Gli promette uno stipendio da favola, per sé e per i suoi collaboratori, un maniero principesco in cui vivere e in cambio non gli chiede nulla: solo la possibilità di conversare con quella che ritiene la mente più straordinaria che sia mai vissuta
Lo scultore e orafo Benvenuto Cellini, che avrà modo in seguito di incontrare Francesco I, scrive: «Io non voglio mancare di ridire le parole, che io sentii dire al Re di lui, le quali disse a me, presente il cardinal di Ferrara e il cardinal di Lorena e il re di Navarra; disse che non credeva mai che altro uomo fusse nato al mondo, che sapessi tanto quanto Lionardo, non tanto di scultura, pittura e architettura, quanto che egli era grandissimo filosofo».
E la leggenda ci regala anche un finale che non potrebbe essere più adatto per una figura tanto straordinaria. Tanto il Vasari quanto un altro artista contemporaneo di quest’ultimo, Giovanni Paolo Lomazzo, raccontano che, al capezzale, il re teneva Leonardo tra le braccia e costui, «conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel re».
Non è vero, poiché il re era impegnato a festeggiare la nascita del secondogenito, ma è certo che quando seppe della morte di Leonardo pianse come per la perdita di un padre. Francesco Melzi, l’allievo più fedele e capace di Leonardo, scrive ai fratellastri per informarli della morte del suo maestro con parole toccanti: «È dolto ad ognuno la perdita di tal uomo, quale non è più in podestà della natura». Come dire che non solo gli uomini ma anche la natura piange per la perdita di Leonardo.
Mentre per Giovan Battista Strozzi, che a Leonardo dedicherà un epitaffio, la morte del genio è una vendetta della stessa natura, alla quale lui con i suoi studi avrebbe carpito ogni segreto: «Vinta Natura a Leonardo Vinci, toscan pittore eccelso in ogni etade, spinta da invidia e priva di pietade: “Va, disse a Morte, et chi mi ha vinta vinci”».
Al di là di quello che pensano del suo lavoro, i contemporanei come descrivono la persona di Leonardo? Paolo Giovio, che lo conosceva direttamente, spiega che era «d’indole affabile, brillante, generosa». Vasari conferma che aveva «grandissimo animo, e in ogni sua azione era generosissimo». E, circa il suo aspetto, sottolinea «la bellezza del corpo non lodata mai abbastanza». L’Anonimo Gaddiano dice che «era di bella persona, proportionata, gratiata et bello aspetto», mentre Giovio ricorda che era «di volto straordinariamente bello», oltre che «meraviglioso arbitro e inventore d’ogni eleganza».
Il suo modo ricercato di abbigliarsi, in effetti, non passava inosservato. L’Anonimo ricorda infatti che «portava uno pitocco rosato corto sino al ginocchio, che allora s’usavano i vestiti lunghi, aveva sino al mezzo in petto una bella capellaia et anellata et ben composta».
Ma Leonardo doveva essere anche una persona gradevole con cui relazionarsi, visto che era «eloquente nel parlare», come dice l’Anonimo, mentre Giovio segnala che «sapeva cantare egregiamente accompagnandosi sulla lira» e per Vasari «era tanto piacevole nella conversazione, che tirava a sé gl’animi delle genti». Non stupisce dunque che «ebbe larga accoglienza da tutti i principi del suo tempo».
La sua generosità, poi, si estendeva agli animali, poiché ogni volta che passava da un mercato dove si vendevano uccelli in gabbia, li acquistava e poi «li lasciava in aria a volo, restituendo loro la perduta libertà» spiega Vasari. E, forse, fu addirittura vegetariano, poiché in una lettera datata 1515 di un viaggiatore fiorentino, Andrea Corsali, questi racconta di avere incontrato nelle Indie genti «che non si cibano di cosa alcuna che tenga sangue… come il nostro Leonardo da Vinci».
«Mostrò tanta divinità nelle cose sue» conclude Vasari «che nel dare la perfezione di prontezza, vivacità, bontà, vaghezza e grazia, nessuno altro mai gli fu pari».
Quest’uomo così singolare altri non è che Leonardo da Vinci. A descriverlo con queste parole è un suo contemporaneo, Baldassarre Castiglione, che aveva conosciuto Leonardo a Milano, alla fine del Quattrocento, e che lo ritrova a Roma intorno al 1513.
Lo descrive, insomma, quando Leonardo è già avanti con gli anni, ne ha 61, e i suoi più alti momenti di gloria sono ormai alle spalle. A Roma, infatti, Leonardo è arrivato su invito di Giuliano de’ Medici, fratello di Giovanni, da poco asceso al soglio papale con il nome di Leone X. Ma per quanto Giuliano sia innamorato del genio di Leonardo, il pontefice non lo capisce e forse ne ha soggezione.
Tant’è vero che gli riserva in Vaticano un alloggio non all’altezza, insieme a fabbri e falegnami di corte, e poi non ne impiega come potrebbe il talento. Quando gli chiede un dipinto, Leonardo inizia a distillare olii e vernici, necessari per creare la sua pittura quasi trasparente, e il papa, che non capisce, crede che prepari la vernice di finitura e sospira sfiduciato: «Oimè, costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera».
È dunque a Roma che nasce la leggenda di Leonardo come uomo che si perde dietro mille «pazzie», come scrive il suo più celebre biografo, Giorgio Vasari. «Mentre che camminava faceva animali sottilissimi pieni di vento, nei quali soffiando gli faceva volare per l’aria» racconta Vasari. E poi realizza una sorta di mostro alato: «Fermò un ramarro, trovato dal vignaruolo del belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scagli e di altri ramarri scortiate, ali addosso con misture di argenti vivi, che nel muoversi quando camminava tremavano; e fattoli gli occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici ai quali lo mostrava, per paura faceva fuggire».
Sono l’aspetto ludico della ricerca scientifica di Leonardo, che però tanto Vasari quanto molti dei suoi contemporanei non capivano.
Così come non comprendevano la sua ricerca di perfezione nell’arte che consideravano “eccessiva”. Paolo Giovio, storico e umanista che conobbe Leonardo a Pavia, dove questi era impegnato nello studio dell’anatomia insieme al medico Marcantonio Della Torre, scrive che «dandosi con eccessiva meticolosità a cercare nuovi mezzi e tecniche di un’arte raffinata, condusse a termine pochissime opere, scartando sempre le prime idee per volubilità di carattere e per naturale insofferenza».
Ancora più drastico Vasari, che non conobbe Leonardo, poiché aveva otto anni quando l’artista morì, ma che raccolse testimonianze dai suoi discepoli e amici: «Lionardo per l’intelligenza de l’arte cominciò molte cose, e nessuna mai ne finì, parendogli che la mano aggiungere non potesse alla perfezione dell’arte nelle cose che egli s’immaginava».
Ma se queste sono le critiche principali che i suoi contemporanei gli muovono, per il fatto di non comprendere il suo impegno nello studio della natura e per il suo desiderio di creare opere il più possibile realistiche, le lodi al genio di Leonardo sono tali che nessun altro può stargli appresso.
«Grandissimi doni si veggono piovere da gli influssi celesti ne’ corpi umani» scrive sempre Vasari «e talvolta strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gli altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa largita da Dio, e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci».
Che i “doni” di Leonardo rasentassero il sovrannaturale erano in tanti a pensarlo. Un altro contemporaneo rimasto anonimo, e per questo conosciuto come l’Anonimo Gaddiano, scrive che «fu tanto raro et universale, che dalla natura per suo miracolo esser produtto dire si puote: la quale non solo delle bellezze del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di infinite virtù volse ancora farlo maestro».
Tuttavia, Leonardo non era artista che lavorava su commissione. Troppo impegnativo, lungo e accurato il suo lavoro per essere accettabile per quei committenti che desideravano opere realizzate in tempi rapidi e a costi contenuti. Si spiega così l’esito della sua prima opera importante, l’Adorazione dei Magi commissionatagli nel 1481 dai monaci di San Donato a Scopeto: a ciascuno dei 30 personaggi raffigurati egli voleva dare un umore, una reazione, un’espressione del viso che fosse solo sua. Esigenza che richiedeva lunghissimi studi e ricerca tra i volti del popolo. Troppo lunghi: Leonardo non fu pagato e il quadro rimase incompiuto.
La sua prima opera milanese importante, la Vergine delle Rocce, è un capolavoro ma, poiché ha richiesto al suo autore molto più tempo e materiali per essere realizzata, il suo prezzo è salito e i frati committenti non sono disposti a pagare il conguaglio. Ne nascerà una controversia legale che si protrarrà per vent’anni.
Per questo egli lavora meglio come artista e ingegnere di corte, al soldo di potenti che gli affidano incarichi di ogni tipo, ma che lo lasciano anche libero di perseguire i suoi studi. Alle dipendenze di Ludovico il Moro, signore di Milano, vive per quasi vent’anni: gli anni migliori della sua vita. E gli spettacoli straordinari, pieni di effetti speciali e animali meccanici, che realizza per il Moro, fanno parlare di lui in tutte le corti d’Europa.
Dopo la caduta di Ludovico, però, Leonardo si trova costretto a cercare nuove strade e, nonostante abbia bisogno di lavorare, si dimostra deciso a non svendere la sua arte. La duchessa Isabella d’Este arriva a supplicare Leonardo perché le faccia un ritratto e lui, in visita a Mantova, schizza un profilo a carboncino promettendole un dipinto vero e proprio, che però non farà mai. Lei gli scrive lettere, manda emissari potenti a ricordargli la promessa, ma lui svicola, rimanda e assicura che l’accontenterà, ben consapevole che non lo farà mai. Isabella, infatti, ha fama di donna capricciosa, che ha fatto penare altri artisti da lei ingaggiati.
Eppure, leggere il tono con cui la potente signora di Mantova si rivolge a un artista fa bene comprendere la stima e l’ammirazione che circondano Leonardo: «Se saremo compiaciute in questo nostro supremo desiderio, sappi che oltre al pagamento, quello che tu vorrai, ti resterò talmente obbligata da non pensare ad altro che a esserti grata».
Tra gli artisti c’è chi lo ama incondizionatamente, come Raffaello, che è stato allievo di un compagno di bottega di Leonardo, il Perugino, e che per omaggiare il genio di Vinci lo ritrae nella sua Scuola di Atene, negli appartamenti del papa in Vaticano, e dona il suo volto al più importante dei filosofi, Platone, posto al centro della scena.
Ma c’è anche chi lo detesta, come Michelangelo, che lo considera un vecchio inconcludente e forse ne invidia l’aura di “leggenda vivente” che lo circonda ovunque vada. «Volesti fare un disegno di un cavallo per gittarlo in bronzo» gli dice una volta incontrandolo per strada a Firenze, come ricorda l’Anonimo Gaddiano, «e non lo potesti fare et per vergogna lo lasciasti stare». Si riferisce al gigantesco monumento equestre per gli Sforza, di cui Leonardo realizzò un modello in creta alto sette metri, ma che non poté fondere poiché il Moro, assediato dai francesi, fu costretto a impiegare il bronzo messo da parte allo scopo per fondere cannoni.
A conclusione dell’avventura terrena di Leonardo, però, c’è un’ultima dimostrazione di amore incondizionato che gli dimostra uno degli uomini più potenti d’Europa, il giovane re di Francia Francesco I. Egli è cresciuto con il mito di Leonardo e ne ha sentito continuamente parlare dal suocero, il re Luigi XII, che entrando a Milano, dopo la cacciata di Ludovico il Moro, rimase abbagliato dal Cenacolo di Santa Maria delle Grazie e lo avrebbe fatto staccare dalla parete per portarselo in Francia, se ciò non lo avesse distrutto.
Così, non appena Francesco diventa re, il suo primo desiderio è quello di raggiungere Leonardo, all’epoca in Vaticano, strapparlo al papa e portarlo a vivere con sé in Francia. Gli promette uno stipendio da favola, per sé e per i suoi collaboratori, un maniero principesco in cui vivere e in cambio non gli chiede nulla: solo la possibilità di conversare con quella che ritiene la mente più straordinaria che sia mai vissuta
Lo scultore e orafo Benvenuto Cellini, che avrà modo in seguito di incontrare Francesco I, scrive: «Io non voglio mancare di ridire le parole, che io sentii dire al Re di lui, le quali disse a me, presente il cardinal di Ferrara e il cardinal di Lorena e il re di Navarra; disse che non credeva mai che altro uomo fusse nato al mondo, che sapessi tanto quanto Lionardo, non tanto di scultura, pittura e architettura, quanto che egli era grandissimo filosofo».
E la leggenda ci regala anche un finale che non potrebbe essere più adatto per una figura tanto straordinaria. Tanto il Vasari quanto un altro artista contemporaneo di quest’ultimo, Giovanni Paolo Lomazzo, raccontano che, al capezzale, il re teneva Leonardo tra le braccia e costui, «conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel re».
Non è vero, poiché il re era impegnato a festeggiare la nascita del secondogenito, ma è certo che quando seppe della morte di Leonardo pianse come per la perdita di un padre. Francesco Melzi, l’allievo più fedele e capace di Leonardo, scrive ai fratellastri per informarli della morte del suo maestro con parole toccanti: «È dolto ad ognuno la perdita di tal uomo, quale non è più in podestà della natura». Come dire che non solo gli uomini ma anche la natura piange per la perdita di Leonardo.
Mentre per Giovan Battista Strozzi, che a Leonardo dedicherà un epitaffio, la morte del genio è una vendetta della stessa natura, alla quale lui con i suoi studi avrebbe carpito ogni segreto: «Vinta Natura a Leonardo Vinci, toscan pittore eccelso in ogni etade, spinta da invidia e priva di pietade: “Va, disse a Morte, et chi mi ha vinta vinci”».
Che persona era Leonardo?
Al di là di quello che pensano del suo lavoro, i contemporanei come descrivono la persona di Leonardo? Paolo Giovio, che lo conosceva direttamente, spiega che era «d’indole affabile, brillante, generosa». Vasari conferma che aveva «grandissimo animo, e in ogni sua azione era generosissimo». E, circa il suo aspetto, sottolinea «la bellezza del corpo non lodata mai abbastanza». L’Anonimo Gaddiano dice che «era di bella persona, proportionata, gratiata et bello aspetto», mentre Giovio ricorda che era «di volto straordinariamente bello», oltre che «meraviglioso arbitro e inventore d’ogni eleganza».
Il suo modo ricercato di abbigliarsi, in effetti, non passava inosservato. L’Anonimo ricorda infatti che «portava uno pitocco rosato corto sino al ginocchio, che allora s’usavano i vestiti lunghi, aveva sino al mezzo in petto una bella capellaia et anellata et ben composta».
Ma Leonardo doveva essere anche una persona gradevole con cui relazionarsi, visto che era «eloquente nel parlare», come dice l’Anonimo, mentre Giovio segnala che «sapeva cantare egregiamente accompagnandosi sulla lira» e per Vasari «era tanto piacevole nella conversazione, che tirava a sé gl’animi delle genti». Non stupisce dunque che «ebbe larga accoglienza da tutti i principi del suo tempo».
La sua generosità, poi, si estendeva agli animali, poiché ogni volta che passava da un mercato dove si vendevano uccelli in gabbia, li acquistava e poi «li lasciava in aria a volo, restituendo loro la perduta libertà» spiega Vasari. E, forse, fu addirittura vegetariano, poiché in una lettera datata 1515 di un viaggiatore fiorentino, Andrea Corsali, questi racconta di avere incontrato nelle Indie genti «che non si cibano di cosa alcuna che tenga sangue… come il nostro Leonardo da Vinci».
«Mostrò tanta divinità nelle cose sue» conclude Vasari «che nel dare la perfezione di prontezza, vivacità, bontà, vaghezza e grazia, nessuno altro mai gli fu pari».