Antonella Viola, Socio onorario CICAP, è professoressa di Patologia generale all’Università degli Studi di Padova, dove dirige l’Istituto di Ricerca Pediatrica. Anche con lei abbiamo parlato della sua partecipazione al prossimo CICAP Fest.
Quest’anno parteciperà al CICAP Fest per la seconda volta; che ricordo ha dell’edizione precedente a Cesena?
Un ricordo molto vivo e positivo: mi sono sentita davvero “a casa”, insieme a persone con le quali condivido una visione generale del mondo, come ritrovarsi improvvisamente tra vecchi amici. E poi c’è il ricordo indelebile della chiacchierata con Piero Angela! Davvero emozionante poter discutere con lui di scienza, etica, vita e molto altro ancora.
In quell’occasione, lei parlò di slow science. Per chi non ha potuto ascoltarla allora, cosa intende per slow science e perché ritiene che debba avere un ruolo di rilievo nel futuro?
Parlare di slow science è ovviamente una provocazione: nessuno si augura che la scienza proceda lentamente, e certamente non la scienza che è in qualche modo legata a problemi che affliggono l’umanità. Quando parlo di “slow science” io mi riferisco sostanzialmente a due aspetti della scienza: la sua libertà da condizionamenti esterni e l’importanza della verifica dei dati. Oggi purtroppo si chiede anche ai ricercatori di essere produttivi, di lavorare su ricerche che siano applicabili o velocemente trasferibili al mondo reale (che abbiano per esempio un impatto su processi produttivi, farmaci, industria...); in questo modo si favorisce una ricerca che è mossa non dalla curiosità di svelare un aspetto ancora nascosto della natura, ma dall’esigenza di risolvere un problema specifico. Questo distrugge la ricerca, perché l’innovazione vera nasce dalla ricerca di base, quella non finalizzata a un risultato immediato o del tutto prevedibile a priori. E poi c’è il grave problema della fretta che tutti abbiamo di dover divulgare i nostri risultati, anche prima che sia trascorso il tempo necessario per farli mettere alla prova dalla comunità scientifica. Questo produce, a lungo andare, sfiducia nella scienza e disinformazione.
Nella sua relazione a Padova, tratterà della necessità di trovare un delicato equilibrio tra scienza e comunicazione. Cosa può favorire, o all’opposto mettere in pericolo, il raggiungimento di questo equilibrio?
La comunicazione è, e deve continuare ad essere, un potente alleato della ricerca: può avvicinare le persone alla scienza, ai suoi metodi, coinvolgere i giovani ... insomma è sicuramente una sinergia positiva. Ma ci sono delle condizioni che vanno rispettate: prima di tutto, bisogna saper comunicare, evitando di enfatizzare i risultati raggiunti o di falsare il significato delle scoperte scientifiche (pensiamo a quante volte abbiamo letto sui giornali che è stata trovata la cura per il cancro!); in secondo luogo, le ricerche vanno comunicate quando i risultati sono consolidati e confermati e non prima. E la scienza, appunto, ha i suoi tempi...
Lei è in primo luogo una scienziata; quando e perché ha pensato che fosse utile occuparsi anche di comunicazione della scienza?
Insegno da quasi 20 anni e quindi mi sono sempre occupata di comunicare la scienza. L’ho fatto in seguito come portavoce dell’AIRC, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, e degli istituti in cui lavoravo. Ma l’occasione che mi ha davvero fatto comprendere la potenza della corretta comunicazione mi è stata offerta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quando mi ha voluta alla Scala di Milano per raccontare il significato della liberazione per la mia generazione. È stato un momento molto intenso, ho tenuto un lungo discorso davanti a un pubblico attento e partecipe, che mi ha interrotto diverse volte per applaudire... lì forse ho capito che chi ha la voce deve parlare, e possibilmente parlare di ciò che conosce.
Cosa può fare, secondo lei, l’Università per promuovere una diffusione della cultura scientifica nel nostro Paese?
Aprirsi! con seminari, corsi, manifestazioni... ma questo le Università lo fanno già molto bene, soprattutto l’Università di Padova. Per la comunicazione, sicuramente formare dei giornalisti scientifici competenti. Ma poi i giornali dovrebbero utilizzarli...
Lei ha contribuito in modo rilevante a focalizzare l’attenzione sul tema del ruolo delle donne nella scienza: quali sono le questioni più rilevanti da questo punto di vista oggi?
La parità è ancora lontana. Le ragioni sono molte e complesse: l’educazione è sicuramente una chiave determinante perché è proprio da bambini che si definiscono i confini in cui poi ci muoveremo da adulti. È importante un cambiamento culturale che permetta alle bambine di crescere in un ambiente in cui non si chieda loro di essere perfette, ma di essere audaci. Poi il resto verrà da sé… ma ci vorrà tempo prima di raggiungere una parità nelle posizioni apicali, ancora dominio maschile. Cosa si può fare di concreto? Tante piccole e grandi cose... Io per esempio mi rifiuto di partecipare a un congresso o un evento culturale in cui tutti gli oratori siano uomini. In casi simili (e ce ne sono!) dovremmo semplicemente alzarci tutti e andare via.
La cronaca mostra la diffusione di molte e diverse teorie e pratiche pseudoscientifiche nell’ambito della salute. Secondo lei, si tratta di un problema di scarsa conoscenza scientifica e di sfiducia di una parte dell’opinione pubblica o ci sono anche altri fattori che vanno considerati?
Penso che sia un problema di mancanza di cultura scientifica. Cito tre elementi che a me paiono di rilievo: a scuola non si insegna adeguatamente il metodo scientifico, i ragazzi non si esercitano a fare analisi critiche (nelle quali confrontare e ragionare su tesi e antitesi) e non si studia la storia della scienza. La storia che viene insegnata illustra solo il peggio dell’umanità, perché non parlare del meglio? Si deve partire da lì, dalla scuola: un bambino che sia cresciuto con senso critico non potrà credere alle scie chimiche o stupidaggini simili. Poi c’è senz’altro anche una questione di sfiducia verso l’autorità, problema molto sentito in Italia. La combinazione di questi fattori ha però effetti davvero drammatici, specie quando si tratta di salute pubblica. E se poi su questo ci giocano i politici per farsi la guerra... allora davvero il cittadino è lasciato solo e senza tutele.
Quest’anno parteciperà al CICAP Fest per la seconda volta; che ricordo ha dell’edizione precedente a Cesena?
Un ricordo molto vivo e positivo: mi sono sentita davvero “a casa”, insieme a persone con le quali condivido una visione generale del mondo, come ritrovarsi improvvisamente tra vecchi amici. E poi c’è il ricordo indelebile della chiacchierata con Piero Angela! Davvero emozionante poter discutere con lui di scienza, etica, vita e molto altro ancora.
In quell’occasione, lei parlò di slow science. Per chi non ha potuto ascoltarla allora, cosa intende per slow science e perché ritiene che debba avere un ruolo di rilievo nel futuro?
Parlare di slow science è ovviamente una provocazione: nessuno si augura che la scienza proceda lentamente, e certamente non la scienza che è in qualche modo legata a problemi che affliggono l’umanità. Quando parlo di “slow science” io mi riferisco sostanzialmente a due aspetti della scienza: la sua libertà da condizionamenti esterni e l’importanza della verifica dei dati. Oggi purtroppo si chiede anche ai ricercatori di essere produttivi, di lavorare su ricerche che siano applicabili o velocemente trasferibili al mondo reale (che abbiano per esempio un impatto su processi produttivi, farmaci, industria...); in questo modo si favorisce una ricerca che è mossa non dalla curiosità di svelare un aspetto ancora nascosto della natura, ma dall’esigenza di risolvere un problema specifico. Questo distrugge la ricerca, perché l’innovazione vera nasce dalla ricerca di base, quella non finalizzata a un risultato immediato o del tutto prevedibile a priori. E poi c’è il grave problema della fretta che tutti abbiamo di dover divulgare i nostri risultati, anche prima che sia trascorso il tempo necessario per farli mettere alla prova dalla comunità scientifica. Questo produce, a lungo andare, sfiducia nella scienza e disinformazione.
Nella sua relazione a Padova, tratterà della necessità di trovare un delicato equilibrio tra scienza e comunicazione. Cosa può favorire, o all’opposto mettere in pericolo, il raggiungimento di questo equilibrio?
La comunicazione è, e deve continuare ad essere, un potente alleato della ricerca: può avvicinare le persone alla scienza, ai suoi metodi, coinvolgere i giovani ... insomma è sicuramente una sinergia positiva. Ma ci sono delle condizioni che vanno rispettate: prima di tutto, bisogna saper comunicare, evitando di enfatizzare i risultati raggiunti o di falsare il significato delle scoperte scientifiche (pensiamo a quante volte abbiamo letto sui giornali che è stata trovata la cura per il cancro!); in secondo luogo, le ricerche vanno comunicate quando i risultati sono consolidati e confermati e non prima. E la scienza, appunto, ha i suoi tempi...
Lei è in primo luogo una scienziata; quando e perché ha pensato che fosse utile occuparsi anche di comunicazione della scienza?
Insegno da quasi 20 anni e quindi mi sono sempre occupata di comunicare la scienza. L’ho fatto in seguito come portavoce dell’AIRC, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, e degli istituti in cui lavoravo. Ma l’occasione che mi ha davvero fatto comprendere la potenza della corretta comunicazione mi è stata offerta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quando mi ha voluta alla Scala di Milano per raccontare il significato della liberazione per la mia generazione. È stato un momento molto intenso, ho tenuto un lungo discorso davanti a un pubblico attento e partecipe, che mi ha interrotto diverse volte per applaudire... lì forse ho capito che chi ha la voce deve parlare, e possibilmente parlare di ciò che conosce.
Cosa può fare, secondo lei, l’Università per promuovere una diffusione della cultura scientifica nel nostro Paese?
Aprirsi! con seminari, corsi, manifestazioni... ma questo le Università lo fanno già molto bene, soprattutto l’Università di Padova. Per la comunicazione, sicuramente formare dei giornalisti scientifici competenti. Ma poi i giornali dovrebbero utilizzarli...
Lei ha contribuito in modo rilevante a focalizzare l’attenzione sul tema del ruolo delle donne nella scienza: quali sono le questioni più rilevanti da questo punto di vista oggi?
La parità è ancora lontana. Le ragioni sono molte e complesse: l’educazione è sicuramente una chiave determinante perché è proprio da bambini che si definiscono i confini in cui poi ci muoveremo da adulti. È importante un cambiamento culturale che permetta alle bambine di crescere in un ambiente in cui non si chieda loro di essere perfette, ma di essere audaci. Poi il resto verrà da sé… ma ci vorrà tempo prima di raggiungere una parità nelle posizioni apicali, ancora dominio maschile. Cosa si può fare di concreto? Tante piccole e grandi cose... Io per esempio mi rifiuto di partecipare a un congresso o un evento culturale in cui tutti gli oratori siano uomini. In casi simili (e ce ne sono!) dovremmo semplicemente alzarci tutti e andare via.
La cronaca mostra la diffusione di molte e diverse teorie e pratiche pseudoscientifiche nell’ambito della salute. Secondo lei, si tratta di un problema di scarsa conoscenza scientifica e di sfiducia di una parte dell’opinione pubblica o ci sono anche altri fattori che vanno considerati?
Penso che sia un problema di mancanza di cultura scientifica. Cito tre elementi che a me paiono di rilievo: a scuola non si insegna adeguatamente il metodo scientifico, i ragazzi non si esercitano a fare analisi critiche (nelle quali confrontare e ragionare su tesi e antitesi) e non si studia la storia della scienza. La storia che viene insegnata illustra solo il peggio dell’umanità, perché non parlare del meglio? Si deve partire da lì, dalla scuola: un bambino che sia cresciuto con senso critico non potrà credere alle scie chimiche o stupidaggini simili. Poi c’è senz’altro anche una questione di sfiducia verso l’autorità, problema molto sentito in Italia. La combinazione di questi fattori ha però effetti davvero drammatici, specie quando si tratta di salute pubblica. E se poi su questo ci giocano i politici per farsi la guerra... allora davvero il cittadino è lasciato solo e senza tutele.