Commentando il libro di Steven Pinker Razionalità. Una bussola per orientarsi nel mondo[1], il filosofo e socio onorario del CICAP Massimo Pigliucci si interroga[2] sulle caratteristiche della razionalità. Sia Pinker sia Pigliucci considerano la razionalità come una qualità strumentale, cioè non un obiettivo in sé, ma un insieme di mezzi cognitivi che adoperiamo per raggiungere i nostri veri obiettivi. Pigliucci argomenta però che la diffusione di idee irrazionali, come il creazionismo, non sia dovuta soltanto alla cattiva qualità dei ragionamenti, ma anche a fattori esterni alla logica, come i presupposti, i valori e gli obiettivi che guidano tali ragionamenti. Anche se rifiutiamo il relativismo e accettiamo che le regole della logica siano universalmente valide, questo non impedisce a persone che partono da premesse diverse di arrivare razionalmente a conclusioni diverse. Per questa ragione, secondo Pigliucci, quando discutiamo con persone che non sono d’accordo con noi è non solo inutile, ma anche improprio accusarle di essere irrazionali. Può essere invece più costruttivo discutere delle premesse e dei valori che le hanno portate a quelle conclusioni.
Ho provato ad approfondire questo argomento con l’aiuto di Vincenzo Crupi, professore di filosofia della scienza all’Università di Torino e socio emerito del CICAP.
Sei d’accordo con Pigliucci sul fatto che le regole della logica abbiano un valore universale?
Un senso di questa domanda è se pensiamo che i principi della logica classica (così la chiamano i filosofi) siano effettivamente vincolanti o che ci siano delle logiche differenti ma altrettanto valide. Io credo che abbiamo buoni motivi per tenerci stretta la logica classica. Un problema analogo si pone se si arricchisce quest’idea di razionalità di strumenti ulteriori: per esempio se estendiamo la logica con i principi del calcolo della probabilità. Anche in questo caso ci sono discussioni aperte, ma secondo me c’è una forte base per sostenere che queste teorie classiche del ragionamento sono le nostre migliori opzioni.
In questo senso possiamo dire che le regole della logica sono universali. Questo non è in conflitto con il fatto che la ragione sia strumentale, perché ci sono scelte che la logica non ci può indicare. Di fronte a un argomento valido, in particolare, l’unica cosa che la logica ci vieta di fare è accettare tutte le premesse e respingere la conclusione. Ma noi possiamo avere motivazioni esterne, che non stanno scritte nella logica, per decidere per esempio di respingere una o l’altra delle premesse, arrivando così a posizioni diverse.
Secondo te la definizione di razionalità dovrebbe riguardare solo il modo in cui portiamo avanti i nostri argomenti oppure anche le premesse e i valori da cui partiamo?
La razionalità è una nozione che si presta ad essere caratterizzata con gradi e livelli crescenti di forza. Pinker per esempio afferma che per noi, come eredi dell’Illuminismo, è importante sapere se le nostre credenze sono vere. Non mi risulta che ci sia un’espressione standard per descrivere questo atteggiamento (considerare fondamentale la verità delle proposizioni che accettiamo). Sicuramente è una cosa che non sta scritta negli assiomi di nessuna teoria formale del ragionamento. In ogni caso, far rientrare nella nozione di razionalità elementi esterni alla logica è lecito, perché il carattere stratificato della nozione di razionalità è stato riconosciuto e discusso dai filosofi. Ti faccio un esempio che viene da un filosofo della scienza, Wesley Salmon. In un suo articolo ormai classico degli anni Ottanta ha applicato alla nozione di razionalità quella tripartizione che si trova nello studio della meccanica[3]. Parla così di razionalità statica, cinematica e dinamica. La razionalità statica implica che un agente deve rispettare gli assiomi della logica e della probabilità in un dato momento. La razionalità cinematica comprende regole da seguire per cambiare opinione nel corso del tempo, come il teorema di Bayes. La razionalità dinamica richiede infine che le nostre credenze siano legate ai fatti oggettivi, le “forze” esterne che devono guidare le nostre opinioni logicamente organizzate. Alcune posizioni che sono compatibili con le prime due forme di razionalità risultano incompatibili con la terza: per esempio un creazionista può essere razionale nei primi due sensi, ma è molto difficile sostenere che lo sia nel terzo senso.
Se ti attieni al “minimo sindacale” della razionalità, cioè il rispetto della logica deduttiva, finisci per classificare come razionali molte più cose: come osserva giustamente Pigliucci, io posso scegliere di rinunciare alla premessa dell’esistenza di Dio, un altro può scegliere di rinunciare all’incompatibilità tra Dio e l’evoluzione e il creazionista può rinunciare alla teoria dell’evoluzione. E nessuno di noi sta violando una regola della logica.
Però, se ci interessa la verità, rinunciare all’evoluzione è l’ultima delle cose da fare, perché è una teoria che ha caratteristiche molto attraenti, combinando una sostanziosa probabilità di essere almeno approssimativamente vera secondo i dati che abbiamo con il fatto di essere estremamente informativa. I principi puramente formali della razionalità non ti possono dire che ti deve importare della verità, su questo non c’è dubbio, però è anche vero che se ti attieni a caratterizzazioni minimaliste della razionalità non puoi andare molto lontano.
Secondo me è ragionevole pensare che ci siano assegnazioni di probabilità meglio fondate sulla base delle informazioni disponibili, anche se a volte è difficilissimo sapere precisamente quali siano. Inoltre l'idea descritta da Pinker che noi dovremmo avere come obiettivo la scoperta della verità mi sembra convincente. Chi è d’accordo a includere questi due ingredienti può dire che il creazionista anti-darwiniano è irrazionale.
Considera che l’illuminista alla Pinker è anche in grado di formulare una domanda di questo tipo: «È vero o non è vero che in certe circostanze credere qualcosa di falso è vantaggioso?». Lo può formulare come un problema empirico. E infatti nel libro di Julia Galef[4] si trova questa discussione: è molto diffusa l’idea che in alcuni casi convenga credere a cose almeno parzialmente diverse dalla verità, perché ci dà coraggio, ci aiuta a superare le difficoltà: per esempio, credere nelle prospettive di un intervento chirurgico di per sé spingerebbe a seguire con più attenzione le prescrizioni mediche e aumentare la probabilità di un esito positivo. Galef non tratta questa idea come assurda. Cerca invece di affrontarla mantenendosi sul terreno del principio illuministico: se questa ipotesi fosse vera, noi dovremmo poter essere in grado di osservare dei vantaggi. In realtà, in molti di questi casi in cui si dice che il pensiero positivo aiuti, per quello che possiamo capire in base alle informazioni empiriche che abbiamo e all’applicazione dei nostri migliori metodi di indagine i vantaggi attesi non si vedono e si vedono invece gli svantaggi. Questo non esclude che ci possano essere condizioni particolari, magari momentanee, in cui un vantaggio ci sia: per esempio uno stato traumatico dal punto di vista psicologico oppure una situazione politica fuori dall’ordinario. In qualche misura, quindi, l’attenzione alla verità può esplorare i suoi stessi limiti.
Sei d’accordo con Pigliucci che a volte l'accusa di irrazionalità nasca da una confusione tra la validità logica dell’argomento usato e una scelta di premesse discutibili?
Sicuramente c’è una distinzione teorica fra questi due aspetti. Nel caso della logica deduttiva, in particolare, una cosa è la relazione fra premesse e conclusione dell’argomento e un’altra cosa è una valutazione di credibilità degli ingredienti dell'argomento stesso. La logica chiama validi gli argomenti la cui conclusione discende correttamente dalle premesse, ma la validità dell’argomento è completamente indipendente dalla credibilità delle premesse: sono due cose concettualmente distinte e hanno anche nomi diversi. Se tu vuoi valutare la credibilità delle premesse di un argomento, devi muoverti nel campo dell’epistemologia (la branca della filosofia che studia la conoscenza scientifica, N.d.R.), non in quello della logica. Su questa distinzione io non ho ovviamente nulla da obiettare. Non credo però che siamo costretti a far ricadere la valutazione di credibilità al di fuori della nozione di razionalità; questo mi pare un passo un po’ drastico.
Quanto è importante in una discussione concentrarsi sulla struttura logica del ragionamento e quanto sulle sue premesse?
Secondo me le scienze, intese come un fenomeno che comprende non solo gli aspetti logici ma anche gli aspetti sociali e istituzionali, sono l’esempio di un punto di equilibrio particolarmente felice fra questi due aspetti. Nelle scienze l’obiettivo che indica Pinker viene perseguito a livelli diversi e uno degli elementi è quello della controversia, che però è regolamentata dal punto di vista argomentativo. La controversia è uno degli ingredienti della scienza; c’è anche il consenso, naturalmente, ma il consenso spesso è il risultato della conclusione di una controversia tra persone che si servono di premesse diverse, dipendenti dal loro orientamento teorico. Nella fase della controversia questa divergenza almeno parziale dei punti di partenza non solo viene tollerata, ma è considerata fisiologica, anche se la controversia può essere molto aspra. Certo deve trattarsi di premesse che hanno superato un vaglio minimo di credibilità, o che non ci fanno tornare indietro rispetto a elementi di consenso che consideriamo ormai acquisiti, quindi non tutte le divergenze trovano spazio nel dibattito scientifico. Però all’interno delle scienze c’è indubbiamente spazio per una fase in cui due partiti sono tenuti soltanto ad attenersi al rispetto di regole di un livello più astratto e nello svolgimento della controversia gli argomenti vengono esplorati e si accumulano da una parte o dall’altra finché si arriva a una risoluzione. In questo senso la scienza è un esempio da una parte paradigmatico, dall’altra difficilmente generalizzabile, perché il dibattito pubblico politico di solito è meno disciplinato di quello scientifico e quindi non è ovvio come renderlo più efficace e costruttivo. Probabilmente non c'è una ricetta unica.
Se invece pensiamo al lavoro del CICAP e all’obiettivo che la società prenda le sue decisioni in maniera più razionale, abbiamo due strade: possiamo cercare di perseguire questo obiettivo a livello individuale, aiutando le persone a migliorare le proprie capacità di perseguire l’ideale della razionalità, oppure a livello sociale, migliorando la qualità della discussione, in modo da correggerci reciprocamente e arrivare collettivamente a decisioni più sagge. Che cosa pensi di questa dicotomia?
Sono due tipi di intervento che ragionevolmente convergono negli esiti, diversissimi dal punto di vista delle chance di successo e del dispendio e del tipo di energia che richiedono in contesti diversi. Non credo che ci si possa limitare a curare una sola delle due pratiche.
Proviamo a immaginarci i casi estremi nei quali una sola di queste due strategie si realizza e ci disinteressiamo completamente dell’altra. Il primo estremo sarebbe quello nel quale, adottando opportunisticamente la terminologia di Julia Galef[5], gli umani si attengono in modo ampiamente prevalente alla mentalità dell’esploratore, non solo dal punto di vista dell’interesse per la verità, ma anche delle modalità di ragionamento, rispettando caratteristiche di rigore logico, principi metodologici appropriati, eccetera. Non so se questo sarebbe un mondo nel quale vorremmo vivere, ma probabilmente sarebbe un mondo nel quale particolari accortezze istituzionali mirate a migliorare la qualità del dibattito pubblico risulterebbero superflue. L’altro estremo è quello in cui il controllo dei meccanismi di scambio e di valutazione delle informazioni è così alto da riuscire a neutralizzare qualunque distorsione individuale. Neanche questo, forse, sarebbe un mondo nel quale vorremmo vivere, ma in ogni caso entrambe le opzioni mi sembrano poco realistiche, quindi è naturale provare a combinare le due strategie. Sul versante individuale, bisogna riconoscere che alcune persone hanno una loro inclinazione a coltivare per sé l’abitudine, diciamo così, al rafforzamento della razionalità, e quando scoprono indicazioni di questo tipo ne sono attratte nel senso che pensano di poterne trarre beneficio. Però sarebbe fuori luogo pensare che questa attitudine sia universale. Perciò resta molto utile ragionare anche su strategie di tipo più sistemico e istituzionale.
Non mi sembra che le due strategie siano in competizione dal punto di vista logico; possono esserlo da altri punti di vista, per esempio in un contesto scolastico o più in generale formativo, quando abbiamo risorse limitate e dobbiamo decidere su che cosa investire.
Ho provato ad approfondire questo argomento con l’aiuto di Vincenzo Crupi, professore di filosofia della scienza all’Università di Torino e socio emerito del CICAP.
Sei d’accordo con Pigliucci sul fatto che le regole della logica abbiano un valore universale?
Un senso di questa domanda è se pensiamo che i principi della logica classica (così la chiamano i filosofi) siano effettivamente vincolanti o che ci siano delle logiche differenti ma altrettanto valide. Io credo che abbiamo buoni motivi per tenerci stretta la logica classica. Un problema analogo si pone se si arricchisce quest’idea di razionalità di strumenti ulteriori: per esempio se estendiamo la logica con i principi del calcolo della probabilità. Anche in questo caso ci sono discussioni aperte, ma secondo me c’è una forte base per sostenere che queste teorie classiche del ragionamento sono le nostre migliori opzioni.
In questo senso possiamo dire che le regole della logica sono universali. Questo non è in conflitto con il fatto che la ragione sia strumentale, perché ci sono scelte che la logica non ci può indicare. Di fronte a un argomento valido, in particolare, l’unica cosa che la logica ci vieta di fare è accettare tutte le premesse e respingere la conclusione. Ma noi possiamo avere motivazioni esterne, che non stanno scritte nella logica, per decidere per esempio di respingere una o l’altra delle premesse, arrivando così a posizioni diverse.
Secondo te la definizione di razionalità dovrebbe riguardare solo il modo in cui portiamo avanti i nostri argomenti oppure anche le premesse e i valori da cui partiamo?
La razionalità è una nozione che si presta ad essere caratterizzata con gradi e livelli crescenti di forza. Pinker per esempio afferma che per noi, come eredi dell’Illuminismo, è importante sapere se le nostre credenze sono vere. Non mi risulta che ci sia un’espressione standard per descrivere questo atteggiamento (considerare fondamentale la verità delle proposizioni che accettiamo). Sicuramente è una cosa che non sta scritta negli assiomi di nessuna teoria formale del ragionamento. In ogni caso, far rientrare nella nozione di razionalità elementi esterni alla logica è lecito, perché il carattere stratificato della nozione di razionalità è stato riconosciuto e discusso dai filosofi. Ti faccio un esempio che viene da un filosofo della scienza, Wesley Salmon. In un suo articolo ormai classico degli anni Ottanta ha applicato alla nozione di razionalità quella tripartizione che si trova nello studio della meccanica[3]. Parla così di razionalità statica, cinematica e dinamica. La razionalità statica implica che un agente deve rispettare gli assiomi della logica e della probabilità in un dato momento. La razionalità cinematica comprende regole da seguire per cambiare opinione nel corso del tempo, come il teorema di Bayes. La razionalità dinamica richiede infine che le nostre credenze siano legate ai fatti oggettivi, le “forze” esterne che devono guidare le nostre opinioni logicamente organizzate. Alcune posizioni che sono compatibili con le prime due forme di razionalità risultano incompatibili con la terza: per esempio un creazionista può essere razionale nei primi due sensi, ma è molto difficile sostenere che lo sia nel terzo senso.
Se ti attieni al “minimo sindacale” della razionalità, cioè il rispetto della logica deduttiva, finisci per classificare come razionali molte più cose: come osserva giustamente Pigliucci, io posso scegliere di rinunciare alla premessa dell’esistenza di Dio, un altro può scegliere di rinunciare all’incompatibilità tra Dio e l’evoluzione e il creazionista può rinunciare alla teoria dell’evoluzione. E nessuno di noi sta violando una regola della logica.
Però, se ci interessa la verità, rinunciare all’evoluzione è l’ultima delle cose da fare, perché è una teoria che ha caratteristiche molto attraenti, combinando una sostanziosa probabilità di essere almeno approssimativamente vera secondo i dati che abbiamo con il fatto di essere estremamente informativa. I principi puramente formali della razionalità non ti possono dire che ti deve importare della verità, su questo non c’è dubbio, però è anche vero che se ti attieni a caratterizzazioni minimaliste della razionalità non puoi andare molto lontano.
Secondo me è ragionevole pensare che ci siano assegnazioni di probabilità meglio fondate sulla base delle informazioni disponibili, anche se a volte è difficilissimo sapere precisamente quali siano. Inoltre l'idea descritta da Pinker che noi dovremmo avere come obiettivo la scoperta della verità mi sembra convincente. Chi è d’accordo a includere questi due ingredienti può dire che il creazionista anti-darwiniano è irrazionale.
Considera che l’illuminista alla Pinker è anche in grado di formulare una domanda di questo tipo: «È vero o non è vero che in certe circostanze credere qualcosa di falso è vantaggioso?». Lo può formulare come un problema empirico. E infatti nel libro di Julia Galef[4] si trova questa discussione: è molto diffusa l’idea che in alcuni casi convenga credere a cose almeno parzialmente diverse dalla verità, perché ci dà coraggio, ci aiuta a superare le difficoltà: per esempio, credere nelle prospettive di un intervento chirurgico di per sé spingerebbe a seguire con più attenzione le prescrizioni mediche e aumentare la probabilità di un esito positivo. Galef non tratta questa idea come assurda. Cerca invece di affrontarla mantenendosi sul terreno del principio illuministico: se questa ipotesi fosse vera, noi dovremmo poter essere in grado di osservare dei vantaggi. In realtà, in molti di questi casi in cui si dice che il pensiero positivo aiuti, per quello che possiamo capire in base alle informazioni empiriche che abbiamo e all’applicazione dei nostri migliori metodi di indagine i vantaggi attesi non si vedono e si vedono invece gli svantaggi. Questo non esclude che ci possano essere condizioni particolari, magari momentanee, in cui un vantaggio ci sia: per esempio uno stato traumatico dal punto di vista psicologico oppure una situazione politica fuori dall’ordinario. In qualche misura, quindi, l’attenzione alla verità può esplorare i suoi stessi limiti.
Sei d’accordo con Pigliucci che a volte l'accusa di irrazionalità nasca da una confusione tra la validità logica dell’argomento usato e una scelta di premesse discutibili?
Sicuramente c’è una distinzione teorica fra questi due aspetti. Nel caso della logica deduttiva, in particolare, una cosa è la relazione fra premesse e conclusione dell’argomento e un’altra cosa è una valutazione di credibilità degli ingredienti dell'argomento stesso. La logica chiama validi gli argomenti la cui conclusione discende correttamente dalle premesse, ma la validità dell’argomento è completamente indipendente dalla credibilità delle premesse: sono due cose concettualmente distinte e hanno anche nomi diversi. Se tu vuoi valutare la credibilità delle premesse di un argomento, devi muoverti nel campo dell’epistemologia (la branca della filosofia che studia la conoscenza scientifica, N.d.R.), non in quello della logica. Su questa distinzione io non ho ovviamente nulla da obiettare. Non credo però che siamo costretti a far ricadere la valutazione di credibilità al di fuori della nozione di razionalità; questo mi pare un passo un po’ drastico.
Quanto è importante in una discussione concentrarsi sulla struttura logica del ragionamento e quanto sulle sue premesse?
Secondo me le scienze, intese come un fenomeno che comprende non solo gli aspetti logici ma anche gli aspetti sociali e istituzionali, sono l’esempio di un punto di equilibrio particolarmente felice fra questi due aspetti. Nelle scienze l’obiettivo che indica Pinker viene perseguito a livelli diversi e uno degli elementi è quello della controversia, che però è regolamentata dal punto di vista argomentativo. La controversia è uno degli ingredienti della scienza; c’è anche il consenso, naturalmente, ma il consenso spesso è il risultato della conclusione di una controversia tra persone che si servono di premesse diverse, dipendenti dal loro orientamento teorico. Nella fase della controversia questa divergenza almeno parziale dei punti di partenza non solo viene tollerata, ma è considerata fisiologica, anche se la controversia può essere molto aspra. Certo deve trattarsi di premesse che hanno superato un vaglio minimo di credibilità, o che non ci fanno tornare indietro rispetto a elementi di consenso che consideriamo ormai acquisiti, quindi non tutte le divergenze trovano spazio nel dibattito scientifico. Però all’interno delle scienze c’è indubbiamente spazio per una fase in cui due partiti sono tenuti soltanto ad attenersi al rispetto di regole di un livello più astratto e nello svolgimento della controversia gli argomenti vengono esplorati e si accumulano da una parte o dall’altra finché si arriva a una risoluzione. In questo senso la scienza è un esempio da una parte paradigmatico, dall’altra difficilmente generalizzabile, perché il dibattito pubblico politico di solito è meno disciplinato di quello scientifico e quindi non è ovvio come renderlo più efficace e costruttivo. Probabilmente non c'è una ricetta unica.
Se invece pensiamo al lavoro del CICAP e all’obiettivo che la società prenda le sue decisioni in maniera più razionale, abbiamo due strade: possiamo cercare di perseguire questo obiettivo a livello individuale, aiutando le persone a migliorare le proprie capacità di perseguire l’ideale della razionalità, oppure a livello sociale, migliorando la qualità della discussione, in modo da correggerci reciprocamente e arrivare collettivamente a decisioni più sagge. Che cosa pensi di questa dicotomia?
Sono due tipi di intervento che ragionevolmente convergono negli esiti, diversissimi dal punto di vista delle chance di successo e del dispendio e del tipo di energia che richiedono in contesti diversi. Non credo che ci si possa limitare a curare una sola delle due pratiche.
Proviamo a immaginarci i casi estremi nei quali una sola di queste due strategie si realizza e ci disinteressiamo completamente dell’altra. Il primo estremo sarebbe quello nel quale, adottando opportunisticamente la terminologia di Julia Galef[5], gli umani si attengono in modo ampiamente prevalente alla mentalità dell’esploratore, non solo dal punto di vista dell’interesse per la verità, ma anche delle modalità di ragionamento, rispettando caratteristiche di rigore logico, principi metodologici appropriati, eccetera. Non so se questo sarebbe un mondo nel quale vorremmo vivere, ma probabilmente sarebbe un mondo nel quale particolari accortezze istituzionali mirate a migliorare la qualità del dibattito pubblico risulterebbero superflue. L’altro estremo è quello in cui il controllo dei meccanismi di scambio e di valutazione delle informazioni è così alto da riuscire a neutralizzare qualunque distorsione individuale. Neanche questo, forse, sarebbe un mondo nel quale vorremmo vivere, ma in ogni caso entrambe le opzioni mi sembrano poco realistiche, quindi è naturale provare a combinare le due strategie. Sul versante individuale, bisogna riconoscere che alcune persone hanno una loro inclinazione a coltivare per sé l’abitudine, diciamo così, al rafforzamento della razionalità, e quando scoprono indicazioni di questo tipo ne sono attratte nel senso che pensano di poterne trarre beneficio. Però sarebbe fuori luogo pensare che questa attitudine sia universale. Perciò resta molto utile ragionare anche su strategie di tipo più sistemico e istituzionale.
Non mi sembra che le due strategie siano in competizione dal punto di vista logico; possono esserlo da altri punti di vista, per esempio in un contesto scolastico o più in generale formativo, quando abbiamo risorse limitate e dobbiamo decidere su che cosa investire.
Note
1) Steven Pinker, Razionalità. Una bussola per orientarsi nel mondo, Mondadori, Milano 2021.
2) Pigliucci, M. (2022, maggio 2). Rationality is instrumental, and that’s a problem, Philosophy as a Way of Life. Consultato in data luglio 1, 2022, da https://bit.ly/3NDwUlO .
3) Salmon W.C., “Razionalità e oggettività nella scienza, ovvero Tom Kuhn incontra Tom Bayes”, Iride, 1 (1988): pp. 21-52.
4) Julia Galef, Esploratori e soldati. Vedere le cose come sono e non come le vorremmo, Codice, Torino 2022.
5) Cioè la distinzione tra “soldati”, determinati a difendere a tutti i costi le proprie convinzioni, ed “esploratori”, determinati a conoscere la realtà nel modo più accurato possibile.