Chiunque abbia a cuore la diffusione della cultura e della mentalità scientifica non può fare a meno di constatare il sostanziale fallimento delle nostre istituzioni scolastiche e formative. Come già ricordato in altri interventi di questa rubrica, non è infrequente incontrare persone che, pur avendo seguito un corso di studi scientifici, mostrano una totale incapacità di applicare il metodo scientifico nel valutare discipline pseudoscientifiche di cui si fanno, ahimè, sostenitrici. Evidentemente questo dimostra che la formazione scientifica, così com’è strutturata oggi, presta più attenzione ai contenuti disciplinari specifici piuttosto che agli aspetti metodologici che, al contrario, dovrebbero rappresentarne l’aspetto centrale (soprattutto nella formazione di base preuniversitaria).
I contenuti sono spesso presentati dai docenti (e accettati dai discenti) in modo dogmatico, come verità calate dall’alto, senza che venga minimamente descritto il percorso, spesso travagliato e tutt’altro che lineare, che ha consentito di raggiungerli.
Come affermò efficacemente qualche anno fa il filosofo Dario Antiseri (n. 1940):
Per ovviare a questi inconvenienti appare quindi estremamente importante concedere spazi adeguati alla descrizione di come i contenuti attualmente accettati dalla comunità scientifica siano stati conquistati. In altre parole appare quanto mai opportuno dedicare ampi spazi dell’attività didattica allo sviluppo storico delle singole discipline.
La proposta è stata avanzata da tempo da più parti in ambito didattico, ma ancora raramente viene messa in pratica. Come scrisse lo psicologo dell’educazione americano Jerome Seymour Bruner (1915-2016):
Per comprendere realmente come opera la ricerca scientifica appare fondamentale ripercorrere la storia di almeno alcune grandi scoperte, senza trascurare gli inevitabili fallimenti, le strade senza uscita imboccate, le marce indietro, i ripensamenti, gli errori e le correzioni che ne hanno costellato il percorso. In questa ricostruzione storica, tuttavia, occorre prestare la massima attenzione a non commettere l’errore del “senno di poi”. In altre parole, occorre cercare quanto più possibile di essere fedeli al reale sviluppo storico, senza lasciarsi influenzare dalle nostre conoscenze attuali[4]. Queste ultime infatti possono facilmente portarci a privilegiare la “strada giusta” a scapito di altri tentativi falliti. Occorre, al contrario, sottolineare che nella ricerca scientifica non si conosce in anticipo quale sia la “strada giusta” e che quindi tutti i tentativi (anche quelli che oggi ci sembrano più bizzarri) avevano una loro legittimità nel momento in cui vennero proposti.
La narrazione storica di come si sono evolute certe idee scientifiche, se fatta correttamente, potrebbe enormemente contribuire a far apprendere la reale natura dei metodi e dei criteri utilizzati dalla scienza. Purtroppo invece in gran parte della didattica odierna si cerca di stabilire all’inizio e una volta per tutte che cosa sia il metodo scientifico, per poi passare a una elencazione dogmatica e cattedratica dei contenuti. Questo appare evidente in molti libri di testo. Al metodo scientifico vengono dedicate poche pagine all’inizio del testo. Dopodiché ci se ne dimentica totalmente nella trattazione dei singoli argomenti disciplinari.
Al di là degli importantissimi aspetti metodologici e didattici, c’è anche un altro motivo che dovrebbe convincere dell’opportunità di un approccio storico nell’insegnamento delle scienze. Anche questa motivazione è stata ben espressa dal citato Bruner:
Mostrare la scienza per quello che è, ovvero una grande impresa umana e un’eroica sfida collettiva finalizzata alla comprensione del reale, può contribuire ad appassionare i giovani. Ripetere a pappagallo l’enunciato di un principio della termodinamica, bilanciare meccanicamente un’equazione chimica o replicare freddamente la dimostrazione di un teorema annoia terribilmente (e comprensibilmente!) i ragazzi. Se si facesse loro comprendere la straordinaria storia che c’è stata dietro a queste cose, quali geniali personaggi hanno fornito il loro innovativo contributo, quali difficoltà hanno dovuto incontrare per affermare le proprie idee e quale rivoluzionaria innovazione esse hanno comportato, forse essi vedrebbero i contenuti disciplinari in una luce differente. Capirebbero la natura profondamente umana dell’impresa scientifica e si renderebbero finalmente conto che ogni distinzione tra cultura scientifica e umanistica è puramente artificiale e priva di ogni reale ragione d’essere.
I contenuti sono spesso presentati dai docenti (e accettati dai discenti) in modo dogmatico, come verità calate dall’alto, senza che venga minimamente descritto il percorso, spesso travagliato e tutt’altro che lineare, che ha consentito di raggiungerli.
Come affermò efficacemente qualche anno fa il filosofo Dario Antiseri (n. 1940):
Ogni generazione, quindi, esce dalla scuola con l’idea che la scienza sia un fatto certo, un tessuto di teorie assodate e invulnerabili, dietro alle quali c’è solo una preistoria di errori, e il cui futuro sarà dato forse soltanto da sempre migliori applicazioni. In sostanza: l’educazione manualistica della scienza distrugge l’idea che la scienza è una realtà storica, inculca l’immagine di una scienza dogmatica. Ed è così che la più antidogmatica tra le attività umane, vale a dire la ricerca scientifica, diventa il supporto del dogmatismo ideologico[1].
Per ovviare a questi inconvenienti appare quindi estremamente importante concedere spazi adeguati alla descrizione di come i contenuti attualmente accettati dalla comunità scientifica siano stati conquistati. In altre parole appare quanto mai opportuno dedicare ampi spazi dell’attività didattica allo sviluppo storico delle singole discipline.
La proposta è stata avanzata da tempo da più parti in ambito didattico, ma ancora raramente viene messa in pratica. Come scrisse lo psicologo dell’educazione americano Jerome Seymour Bruner (1915-2016):
Il processo del fare scienza è narrativo. Consiste nel produrre ipotesi sulla natura, nel verificarle, correggerle e rimettere ordine nelle idee. Nel corso della produzione di ipotesi verificabili giochiamo con le idee, cerchiamo di creare anomalie, cerchiamo di trovare belle formulazioni da applicare alle contrarietà più intrattabili in modo da poterle trasformare in problemi solubili, inventiamo trucchi per aggirare le situazioni intricate. La storia della scienza, come Bryant Conant[2] ha cercato di dimostrare, può essere raccontata in forma drammatica, come una serie di vicende quasi eroiche di soluzione di problemi. I suoi critici amavano sottolineare che le storie dei casi che lui e i suoi colleghi avevano preparato, pur essendo molto interessanti non erano però scienza, ma storia della scienza. Non sto proponendo di sostituire alla scienza la storia della scienza. Sostengo invece che la nostra istruzione scientifica dovrebbe tener conto in ogni sua parte dei processi vivi del fare scienza, e non limitarsi a essere un resoconto della ‘scienza finita’ quale viene presentata nel libro di testo, nel manuale e nel comune e spesso noioso ‘esperimento di dimostrazione’[3].
Per comprendere realmente come opera la ricerca scientifica appare fondamentale ripercorrere la storia di almeno alcune grandi scoperte, senza trascurare gli inevitabili fallimenti, le strade senza uscita imboccate, le marce indietro, i ripensamenti, gli errori e le correzioni che ne hanno costellato il percorso. In questa ricostruzione storica, tuttavia, occorre prestare la massima attenzione a non commettere l’errore del “senno di poi”. In altre parole, occorre cercare quanto più possibile di essere fedeli al reale sviluppo storico, senza lasciarsi influenzare dalle nostre conoscenze attuali[4]. Queste ultime infatti possono facilmente portarci a privilegiare la “strada giusta” a scapito di altri tentativi falliti. Occorre, al contrario, sottolineare che nella ricerca scientifica non si conosce in anticipo quale sia la “strada giusta” e che quindi tutti i tentativi (anche quelli che oggi ci sembrano più bizzarri) avevano una loro legittimità nel momento in cui vennero proposti.
La narrazione storica di come si sono evolute certe idee scientifiche, se fatta correttamente, potrebbe enormemente contribuire a far apprendere la reale natura dei metodi e dei criteri utilizzati dalla scienza. Purtroppo invece in gran parte della didattica odierna si cerca di stabilire all’inizio e una volta per tutte che cosa sia il metodo scientifico, per poi passare a una elencazione dogmatica e cattedratica dei contenuti. Questo appare evidente in molti libri di testo. Al metodo scientifico vengono dedicate poche pagine all’inizio del testo. Dopodiché ci se ne dimentica totalmente nella trattazione dei singoli argomenti disciplinari.
Al di là degli importantissimi aspetti metodologici e didattici, c’è anche un altro motivo che dovrebbe convincere dell’opportunità di un approccio storico nell’insegnamento delle scienze. Anche questa motivazione è stata ben espressa dal citato Bruner:
Ma non è un mistero che a molti giovani che oggi frequentano la scuola la “scienza” appaia “disumana”, “fredda” e “noiosa”, malgrado gli eccezionali sforzi degli insegnanti di scienze e di matematica e delle loro associazioni. L’immagine della scienza come impresa umana e culturale migliorerebbe molto se la si concepisse anche come una storia degli esseri umani che superano le idee ricevute - Lavoisier che supera il dogma del flogisto, Darwin che rivoluziona il rispettabile creazionismo, o Freud che osa gettare uno sguardo al di sotto della superficie soddisfatta del nostro autocompiacimento. Può darsi che abbiamo sbagliato staccando la scienza dalla narrazione della cultura[5].
Mostrare la scienza per quello che è, ovvero una grande impresa umana e un’eroica sfida collettiva finalizzata alla comprensione del reale, può contribuire ad appassionare i giovani. Ripetere a pappagallo l’enunciato di un principio della termodinamica, bilanciare meccanicamente un’equazione chimica o replicare freddamente la dimostrazione di un teorema annoia terribilmente (e comprensibilmente!) i ragazzi. Se si facesse loro comprendere la straordinaria storia che c’è stata dietro a queste cose, quali geniali personaggi hanno fornito il loro innovativo contributo, quali difficoltà hanno dovuto incontrare per affermare le proprie idee e quale rivoluzionaria innovazione esse hanno comportato, forse essi vedrebbero i contenuti disciplinari in una luce differente. Capirebbero la natura profondamente umana dell’impresa scientifica e si renderebbero finalmente conto che ogni distinzione tra cultura scientifica e umanistica è puramente artificiale e priva di ogni reale ragione d’essere.
Note
1) D. Antiseri, Ragioni della razionalità. Proposte teoretiche, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2004.
2) James Bryant Conant (1893-1978), chimico statunitense che si occupò a lungo di didattica e questioni metodologiche.
3) J. Bruner, La cultura dell’educazione, Milano Feltrinelli, 2000.
4) M. Ciardi, “La scuola, i manuali e la storia”, Query n.14-IV, 2013.
5) J. Bruner, op. cit.