Abbiamo già visto in altre occasioni (cfr. Query n. 14) come la tendenza a ricostruire la storia secondo una prospettiva distorta, che pone poca attenzione al contesto in cui un fatto si è generato, rileggendo le fonti del passato attraverso le categorie del presente, non è un elemento che caratterizza solo i testi pseudoscientifici, ma riguarda la scienza stessa, quando essa si confronta con il racconto del suo sviluppo, ad esempio nei manuali scientifici o nei testi storici scritti da scienziati senza una precisa preparazione storica. Non a caso, già nel 1905 il matematico Paul Tannery ricordava che per produrre buona storia della scienza non fosse sufficiente essere soltanto uno scienziato (cfr. Query 12).
Anche le autobiografie scientifiche non sono immuni da questo difetto. Si sarebbe tentati di credere che tali opere rappresentino la possibilità di accedere in maniera privilegiata a tutte quelle opinioni e idee che lo scienziato non ha potuto far trasparire al momento della pubblicazione della sua opera. In realtà, anche le autobiografie presentano quasi sempre la storia di una scoperta come una serie di passaggi logici verso il risultato conclusivo. Così facendo, anche se involontariamente, gli scienziati raccontano una storia ben diversa da quella che può essere ricostruita grazie ad una puntuale e rigorosa indagine storica. In sostanza, nelle autobiografie scientifiche lo scienziato non parla più a suo nome, ma con ‘un’altra voce’, ovvero quella della scienza che ricostruisce il suo sviluppo secondo un percorso lineare e senza ostacoli[1]. «Alla fine lo sviluppo storico”, ha precisato Mirko Grmek, “viene esposto come una marcia continua e logica verso uno scopo preciso. I passi falsi e i ristagni vi intervengono come astuzie teatrali per aumentare l’interesse e il valore della realizzazione finale»[2].
Perfettamente consapevole dei rischi insiti nella stesura di un’autobiografia fu Albert Einstein: «Eccomi qui seduto, all’età di 67 anni, per scrivere quello che potrebbe essere il mio necrologio. Lo faccio non solo perché il dottor Schilpp mi ha convinto a farlo, ma perché credo effettivamente che sia bene mostrare a chi opera accanto a noi come appaia retrospettivamente la nostra fatica e la nostra ricerca. Dopo averci riflettuto, capisco che qualsiasi tentativo del genere sarà sempre inadeguato. Per quanto breve e limitata possa essere la propria vita di lavoro, e per quanto grande sia la parte di essa sprecata in errori, esporre ciò che resta e merita d’essere detto è tuttavia difficile, perché l’uomo di oggi, che ha 67 anni, non è affatto lo stesso che ne aveva 50, 30, o 20. Ogni ricordo appare alla luce del presente, e quindi in una prospettiva ingannevole»[3]. Einstein faceva bene a mettere in guardia il lettore dai pericoli insiti nella stesura di un’autobiografia scientifica. Lo scienziato tedesco, ad esempio, verso la fine della sua carriera, si era convinto di aver sviluppato la teoria della relatività ristretta in risposta al celebre esperimento di Michelson e Morley. Questa interpretazione dei fatti, confermata dai manuali, pur essendo del tutto logica e particolarmente utile da un punto di vista didattico, è tuttavia falsa, perché Einstein venne a conoscenza dell'esperimento soltanto alcuni anni dopo la formulazione della sua teoria[4].
La ricostruzione logica della storia deve in qualche modo soddisfare i criteri in base ai quali, in una determinata epoca, si pensa che il lavoro dello scienziato debba attenersi.
Nella sua celebre autobiografia, la cui prima stesura risale al 1876, Charles Darwin insiste sul fatto di aver iniziato a studiare il problema dell’origine delle specie, dopo aver concluso il suo viaggio intorno al mondo con il Beagle, evitando il ricorso a qualsiasi tipo di teorizzazione: «dopo il mio ritorno in Inghilterra, pensai che se avessi lavorato come aveva fatto Lyell nel campo della geologia, cioè raccogliendo tutti i fatti che hanno avuto relazione con la variazione degli animali e delle piante sia allo stato domestico sia in natura, avrei potuto portare qualche luce sull’argomento. Nel luglio 1837 cominciai il mio primo libro di appunti. Lavorai secondo principi baconiani e, senza seguire alcuna teoria, raccolsi quanti più fatti mi fu possibile, specialmente quelli relativi alle forme domestiche, mandando formulari stampati, conversando con i più abili giardinieri e allevatori di animali, e documentandomi con ampie letture. Quando rivedo la lista dei libri d’ogni genere che ho letto e riassunto, ivi comprese serie complete di periodici e atti accademici, mi stupisco della mia attività. Non tardai a rendermi conto che la selezione era la chiave con cui l’uomo era riuscito a ottenere razze utili di animali e piante»[5]. Il tentativo dell’anziano Darwin di caratterizzare il suo avvicinamento alla costruzione della teoria dell’evoluzione alla stregua di un procedimento induttivo (facendo ricorso al tema dei «principi baconiani», che è a sua volta un mito storiografico assai diffuso nell’Ottocento – sui miti intorno a Bacone cfr. Query n. 22), non corrisponde al reale svolgimento dei fatti. Infatti, come è stato osservato, le analisi dei suoi taccuini sulla «trasmutazione delle specie», redatti proprio a partire dal 1837, «hanno modificato l’immagine tradizionale, fornita da Darwin stesso, del proprio cammino teorico, spostandone sensibilmente i tempi e i pesi». In sostanza, «lo schema baconiano, cui Darwin in vecchiaia si proclamava fedele, è in verità rovesciato» e la presenza di un approccio teorico è molto più pronunciata di quanto egli avesse dichiarato nell'autobiografia[6].
È dunque molto difficile per uno scienziato calarsi nei panni dello storico in mancanza di una preparazione specifica in materia. Persino nei casi dove esiste un intimo rapporto fra la costruzione di una teoria scientifica e la biografia personale, è arduo per l’autore svincolarsi dall’impulso inconscio di dare una struttura logica e lineare al proprio percorso e alla propria carriera. Questo, come ha precisato Cesare Musatti, vale anche per un autore quale Sigmund Freud: «Nella Selbstdarstellung il punto di partenza è nettamente biografico, anche se poi nella stesura del lavoro Freud si è lasciato soverchiare dal bisogno di esporre ancora una volta come, nella sua logica connessione, la sua dottrina si sia venuta sviluppando»[7].
L’autobiografia è un tipo di fonte molto particolare: «è fondamentalmente un’autointerpretazione e un mezzo di creazione di sé. Le deformazioni e le omissioni di fatti e di prospettive possono anche dipendere da una volontà di mistificazione, ma esse sono innanzitutto un modo di dare senso e coerenza alla propria vita; per questo motivo il loro significato esistenziale non appartiene al piano empirico»[8]. Ma l’autobiografia scientifica non pone soltanto il problema di un ricordo lontano nel tempo che viene distorto o rielaborato a distanza di tanti anni. La questione è più complessa. Quel ricordo infatti cambia, prima di tutto, perché va ad assumere una posizione ben precisa all’interno del processo di ricostruzione logica di una scoperta.
Anche le autobiografie scientifiche non sono immuni da questo difetto. Si sarebbe tentati di credere che tali opere rappresentino la possibilità di accedere in maniera privilegiata a tutte quelle opinioni e idee che lo scienziato non ha potuto far trasparire al momento della pubblicazione della sua opera. In realtà, anche le autobiografie presentano quasi sempre la storia di una scoperta come una serie di passaggi logici verso il risultato conclusivo. Così facendo, anche se involontariamente, gli scienziati raccontano una storia ben diversa da quella che può essere ricostruita grazie ad una puntuale e rigorosa indagine storica. In sostanza, nelle autobiografie scientifiche lo scienziato non parla più a suo nome, ma con ‘un’altra voce’, ovvero quella della scienza che ricostruisce il suo sviluppo secondo un percorso lineare e senza ostacoli[1]. «Alla fine lo sviluppo storico”, ha precisato Mirko Grmek, “viene esposto come una marcia continua e logica verso uno scopo preciso. I passi falsi e i ristagni vi intervengono come astuzie teatrali per aumentare l’interesse e il valore della realizzazione finale»[2].
Perfettamente consapevole dei rischi insiti nella stesura di un’autobiografia fu Albert Einstein: «Eccomi qui seduto, all’età di 67 anni, per scrivere quello che potrebbe essere il mio necrologio. Lo faccio non solo perché il dottor Schilpp mi ha convinto a farlo, ma perché credo effettivamente che sia bene mostrare a chi opera accanto a noi come appaia retrospettivamente la nostra fatica e la nostra ricerca. Dopo averci riflettuto, capisco che qualsiasi tentativo del genere sarà sempre inadeguato. Per quanto breve e limitata possa essere la propria vita di lavoro, e per quanto grande sia la parte di essa sprecata in errori, esporre ciò che resta e merita d’essere detto è tuttavia difficile, perché l’uomo di oggi, che ha 67 anni, non è affatto lo stesso che ne aveva 50, 30, o 20. Ogni ricordo appare alla luce del presente, e quindi in una prospettiva ingannevole»[3]. Einstein faceva bene a mettere in guardia il lettore dai pericoli insiti nella stesura di un’autobiografia scientifica. Lo scienziato tedesco, ad esempio, verso la fine della sua carriera, si era convinto di aver sviluppato la teoria della relatività ristretta in risposta al celebre esperimento di Michelson e Morley. Questa interpretazione dei fatti, confermata dai manuali, pur essendo del tutto logica e particolarmente utile da un punto di vista didattico, è tuttavia falsa, perché Einstein venne a conoscenza dell'esperimento soltanto alcuni anni dopo la formulazione della sua teoria[4].
La ricostruzione logica della storia deve in qualche modo soddisfare i criteri in base ai quali, in una determinata epoca, si pensa che il lavoro dello scienziato debba attenersi.
Nella sua celebre autobiografia, la cui prima stesura risale al 1876, Charles Darwin insiste sul fatto di aver iniziato a studiare il problema dell’origine delle specie, dopo aver concluso il suo viaggio intorno al mondo con il Beagle, evitando il ricorso a qualsiasi tipo di teorizzazione: «dopo il mio ritorno in Inghilterra, pensai che se avessi lavorato come aveva fatto Lyell nel campo della geologia, cioè raccogliendo tutti i fatti che hanno avuto relazione con la variazione degli animali e delle piante sia allo stato domestico sia in natura, avrei potuto portare qualche luce sull’argomento. Nel luglio 1837 cominciai il mio primo libro di appunti. Lavorai secondo principi baconiani e, senza seguire alcuna teoria, raccolsi quanti più fatti mi fu possibile, specialmente quelli relativi alle forme domestiche, mandando formulari stampati, conversando con i più abili giardinieri e allevatori di animali, e documentandomi con ampie letture. Quando rivedo la lista dei libri d’ogni genere che ho letto e riassunto, ivi comprese serie complete di periodici e atti accademici, mi stupisco della mia attività. Non tardai a rendermi conto che la selezione era la chiave con cui l’uomo era riuscito a ottenere razze utili di animali e piante»[5]. Il tentativo dell’anziano Darwin di caratterizzare il suo avvicinamento alla costruzione della teoria dell’evoluzione alla stregua di un procedimento induttivo (facendo ricorso al tema dei «principi baconiani», che è a sua volta un mito storiografico assai diffuso nell’Ottocento – sui miti intorno a Bacone cfr. Query n. 22), non corrisponde al reale svolgimento dei fatti. Infatti, come è stato osservato, le analisi dei suoi taccuini sulla «trasmutazione delle specie», redatti proprio a partire dal 1837, «hanno modificato l’immagine tradizionale, fornita da Darwin stesso, del proprio cammino teorico, spostandone sensibilmente i tempi e i pesi». In sostanza, «lo schema baconiano, cui Darwin in vecchiaia si proclamava fedele, è in verità rovesciato» e la presenza di un approccio teorico è molto più pronunciata di quanto egli avesse dichiarato nell'autobiografia[6].
È dunque molto difficile per uno scienziato calarsi nei panni dello storico in mancanza di una preparazione specifica in materia. Persino nei casi dove esiste un intimo rapporto fra la costruzione di una teoria scientifica e la biografia personale, è arduo per l’autore svincolarsi dall’impulso inconscio di dare una struttura logica e lineare al proprio percorso e alla propria carriera. Questo, come ha precisato Cesare Musatti, vale anche per un autore quale Sigmund Freud: «Nella Selbstdarstellung il punto di partenza è nettamente biografico, anche se poi nella stesura del lavoro Freud si è lasciato soverchiare dal bisogno di esporre ancora una volta come, nella sua logica connessione, la sua dottrina si sia venuta sviluppando»[7].
L’autobiografia è un tipo di fonte molto particolare: «è fondamentalmente un’autointerpretazione e un mezzo di creazione di sé. Le deformazioni e le omissioni di fatti e di prospettive possono anche dipendere da una volontà di mistificazione, ma esse sono innanzitutto un modo di dare senso e coerenza alla propria vita; per questo motivo il loro significato esistenziale non appartiene al piano empirico»[8]. Ma l’autobiografia scientifica non pone soltanto il problema di un ricordo lontano nel tempo che viene distorto o rielaborato a distanza di tanti anni. La questione è più complessa. Quel ricordo infatti cambia, prima di tutto, perché va ad assumere una posizione ben precisa all’interno del processo di ricostruzione logica di una scoperta.
Note
1) Ciardi, M. 2007. Gli scienziati, le autobiografie e la storia della scienza', “Intersezioni”, 27, pp. 377-390.
2) Grmek, M. D. 1976. Psicologia ed epistemologia della ricerca scientifica, Milano: Episteme, p. 41.
3) Einstein. 1979. Autobiografia scientifica, Torino: Bollati Boringhieri, 1979, p. 9.
4) Cfr. Holton, G. 1983. L'immaginazione scientifica, Torino: Einaudi, pp. 181-265.
5) Darwin, C. 1982. Autobiografia, Torino: Einaudi, p. 101.
6) Ferrari, G. A. 1997. Postfazione, in C. Darwin, Castelli in aria. Taccuini M e N, Torino: Bollati Boringhieri, p. 142.
7) Musatti, C. L. 1963. Presentazione, in S. Freud, La mia vita. La psicoanalisi, Milano: Mursia, p. 5.
8) Vidal, F. 1995. Riflessioni sulla biografia contestuale, in Le biografie scientifiche, “Intersezioni”, 15, n. 1, p. 106.