Il 16 marzo del 1978, Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, fu sequestrato a Roma dalle Brigate Rosse, che uccisero anche tutti gli uomini della sua scorta.
Da allora sono tantissimi i misteri, veri e presunti, che circolano intorno a questa tragica vicenda. Oggi ne esamineremo uno: quello del motociclista “fantasma”...
Ne parliamo con Gianremo Armeni, sociologo, scrittore, collaboratore del mensile Limes e studioso dei fenomeni mafiosi ed eversivi. Armeni ha scritto un libro, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, che conta una prefazione di Vladimiro Satta, autore a sua volta di uno straordinario volume che smonta leggende e luoghi comuni sugli Anni di piombo.
In particolare, Satta sottolinea come il lavoro di Armeni mostri, una volta di più, «che attenersi alle evidenze è fruttuoso, molto più che abbandonarsi a congetture campate in aria».
Nella vicenda del rapimento di Aldo Moro vi sono molti misteri, veri e presunti. Uno di questi, in particolare, riguarda una moto che avrebbe trasportato due misteriosi personaggi armati di mitra.
Gianremo, qual è di preciso il “mistero” in questione?
«I misteri sono molteplici. Si tratta di una vicenda che per 37 anni ha rappresentato l’architrave su cui hanno poggiato quasi tutti i teoremi di natura dietrologica. Oltre a costituire il primo enigma del caso Moro, è l’episodio che vanta al suo attivo il maggior numero di distorsioni. Grazie soprattutto ad una sentenza del 1983, alla storia è stata consegnata questa verità:
Nella strage di via Fani ha avuto un ruolo attivo anche una moto Honda di grossa cilindrata, con a bordo due misteriosi personaggi, di cui uno a volto scoperto somigliante ad Eduardo De Filippo e l’altro con un passamontagna, che hanno fatto fuoco contro un civile, l’ingegner Alessandro Marini, accovacciato dietro il parabrezza del suo motorino.
Questo pilastro processuale ha in qualche modo legittimato i teorici del complotto a disegnare scenari di ogni sorta visto che l’identità dei due è sempre rimasta ignota. Su quella moto è stato piazzato di tutto, dagli appartenenti ai servizi segreti di ogni nazione agli affiliati alla criminalità organizzata, fino a fantomatici super killer; e al mezzo sono state attribuite le più disparate funzioni, che tuttavia le carte smentiscono».
In che modo tutte queste ipotesi sono smentite dai fatti?
«La moto di fatto, non può aver svolto un ruolo di copertura essendo arrivata un paio di minuti dopo la fuga del convoglio brigatista, e lontano dalla realtà è anche il ruolo di staffetta perché non era presente sulla scena. Oltre alla magistratura, ci sono state ben due commissioni d’inchiesta parlamentare che hanno indagato in modo ossessivo sulla questione, ma ogni organo investigativo si è limitato a ripartire dalla verità processuale, che tale purtroppo non era. È stato questo il grosso equivoco: le analisi e le conclusioni sono state edificate sulla base di false premesse. Qualche anno fa, proprio per l’importanza che la motocicletta riveste nel panorama dell’affaire e il clamore suggestivo a cui si presta, la circostanza è stata strumentalizzata persino da un anonimo che inviò una lettera al quotidiano La Stampa di Torino, sostenendo di essere uno dei due agenti segreti a bordo della Honda».
Perché non è credibile questa storia?
«Non è credibile per una serie di ragioni. La prima, in assoluto, che ha poi orientato la mia indagine, riguarda l’inverosimiglianza dell’episodio. Le Br assaltano la scorta, uccidono tutti gli agenti, sequestrano l’onorevole Moro, e riescono a fuggire. L’intera operazione è stata un successo. Dopo la fuga del commando, con un ritardo temporale quantificabile attorno ai due minuti, è difficile immaginarsi una scena in cui arriva una moto con due scriteriati a bordo, di cui uno indossa un passamontagna mentre l’altro si presenta a volto scoperto per farsi ammirare bene dai testimoni, e fanno fuoco contro un civile inerme, immobile, che non rappresenta nessun pericolo. Può essere verosimile che uomini dei servizi, o altri specialisti ingaggiati per un’operazione così delicata, si comportino come due scimuniti? La seconda ragione che invalida la sentenza è la sentenza stessa. Ad un’attenta lettura si evince come quel passaggio non sia stato il frutto di una serie di accertamenti tecnici o incroci di testimonianze. I magistrati della 1^ Corte d’Assise si sono limitati a far passare in giudicato esclusivamente le dichiarazioni del teste Marini, peraltro sconvolto dalle raffiche di mitra contro gli agenti di scorta al punto da perdere urina. Si poteva benissimo ipotizzare che la sua fosse soltanto una suggestione, e rileggendo i suoi numerosi verbali ci si rende conto di quante dichiarazioni assurde e contrastanti egli abbia riferito. In ultima analisi, tutti i brigatisti hanno sempre negato l’impiego del mezzo in via Fani e, come ho già accennato in precedenza, non si capisce che ruolo avrebbero mai potuto ricoprire i due centauri».
Alessandro Marini resta il teste principale dell’eccidio, ma i testimoni oculari che hanno avvistato la moto sarebbero più di uno. Nel tuo libro sembra che qualcuno negli anni abbia forzato un pochino la mano ad attribuire l’avvistamento della Honda ad alcuni passanti. Insomma, attorno a questo fatto, sembra che sia stata fatta molta confusione.
«Un vero e proprio ginepraio. Non saprei da dove cominciare. Abbiamo il teste principale, Alessandro Marini, le cui dichiarazioni negli anni hanno presentato un livello di inattendibilità quasi imbarazzante, e a me pare inverosimile che nessuno se ne sia mai accorto. L’altro testimone, Giovanni Intrevado, l’unico che assieme a Marini ha dichiarato di aver visto il passaggio della moto, ha dato vita negli anni a una vera e propria escalation informativa, molto singolare, che non è possibile in questa sede sviscerare in maniera esaustiva. Nel 1978 rilasciò alcune dichiarazioni povere di elementi significativi, ma 4 anni dopo, al processo, iniziò con le appendici, fino ad arrivare al 1996 in cui aggiunse l’ultimo dettaglio, il più importante, sempre omesso negli anni precedenti, che in buona sostanza avvalorava la funzione attiva della moto. È curioso il comportamento dei due testimoni perché, mentre uno accresceva le informazioni, l’altro, Alessandro Marini, faceva il percorso opposto decurtando e ravvedendosi progressivamente, fino a mettere in dubbio addirittura che il guidatore della moto indossasse un passamontagna. Nel mio testo, difatti, giungo anche a dare un nome ai due personaggi notati da Marini: non stavano affatto sulla moto ma erano due brigatisti a cui era stata assegnata la funzione del “cancelletto” superiore. Non è finita qui perché ad altri due testimoni la pubblicistica ha erroneamente attribuito l’avvistamento della Honda. Si tratta di Luca Moschini, il quale dichiarò di aver notato una moto che aveva tutt’altre caratteristiche rispetto all’altra, in una posizione differente, posteggiata, e prima ancora che iniziasse la sparatoria. L’altro teste è Paolo Pistolesi, il quale in uno dei suoi interrogatori disse chiaramente di non aver mai notato il mezzo di marca giapponese. Ma con spregio di tutte le evidenze contenute nel libro, sembra che in Italia esista uno statuto speciale che vieti categoricamente l’uscita di scena della Honda. Dopo ben 37 anni, la nuova commissione d’inchiesta ha ascoltato altri due cittadini. Non saprei dire come siano stati rintracciati. Sarebbe interessante capire come mai non abbiano fornito questi contributi alla giustizia già in passato. Tuttavia, le loro dichiarazioni, almeno quelle rese note dalla commissione stessa, abbastanza curiose, non hanno ottenuto grande attenzione presso gli osservatori più attenti della materia. Esiste una sola grande verità: l’unica prova regina che avrebbe costituito una ghigliottina a tutti i dubbi era rappresentata dal tentato omicidio ai danni di Alessandro Marini, evento che non si è mai verificato».
Un finto mistero spesso nasce in pochissimo tempo, mentre il lavoro necessario per svelarne la reale natura può richiedere anni di lavoro. Come hai lavorato per capire se la storia della moto “fantasma” era fondata oppure no?
«Prima di tutto ho compreso l’importanza di studiare tutto il complesso informativo del caso Moro, perché soltanto una conoscenza organica del fenomeno permette di addomesticare la materia. Sono partito dalla sentenza giudiziaria per capire quali fossero gli elementi probatori a sostegno della funzione operativa della moto e sono rimasto incredulo quando ho scoperto che la vicenda era stata certificata soltanto sulla base delle dichiarazioni del testimone Marini. Il passo successivo è stato quello di mettere insieme tutti i verbali sottoscritti dall’ingegnere e ciò che è emerso è stato assolutamente inimmaginabile. Dopodiché, è stato assolutamente funzionale all’obiettivo l’avere riunito ogni singola informazione sulla vicenda, e avere rimesso ogni tessera del puzzle al posto giusto, facendo interagire documenti ed elementi inediti, e ricostruendo la “colonna sonora” della strage. Infine, è stato utile rintracciare un documento conservato presso l’ufficio corpi di reato di Roma che rappresenta una sorta di carta d’identità di un reperto: il parabrezza del motorino consegnato da Marini ai magistrati, che a suo dire sarebbe stato forato dai colpi di mitra. Questo mi ha permesso di invalidare una relazione del senatore Granelli in commissione “Stragi”, in cui affermava che era stata eseguita una perizia su quel reperto e che l’indagine aveva stabilito persino l’arma che aveva esploso i colpi. Come vedi le distorsioni sono senza soluzione di continuità perché mai è stata svolta quel tipo di analisi tecnica. Una foto inedita e risolutiva, comparsa sul sito Insorgenze, successivamente all’uscita del mio libro, ha definitivamente chiarito come il parabrezza non fosse mai stato raggiunto da colpi di arma da fuoco».
Pur non avendo lo spazio per approfondire, quali sono secondo te gli autentici misteri del caso Moro che ancora attendono risposte?
«Allo stadio attuale, in assenza di nuovi riscontri, le zone d’ombra restano tutte circoscritte all’interno dell’organizzazione eversiva. Tutte le tesi a sostegno del coinvolgimento nella vicenda di misteriosi e imprecisati apparati istituzionali non hanno mai presentato un livello di attendibilità tale da suffragarle. Del resto, è anche naturale che esistano determinate lacune nella verità brigatista perché la lettura del caso Moro si presta a una maggiore comprensione analizzando congiuntamente la storia complessiva del Partito Armato. I militanti delle Brigate Rosse hanno sempre spiccato per reticenza e segretezza, caratteristiche che hanno favorito la longevità dell’organizzazione. Difatti, i componenti del commando di via Fani sono stati resi noti a rate: prima 7, poi 9, poi 10, e sia nel caso di 7, che di 9, nessuno di loro si è mai fatto avanti per consegnare alla giustizia le pedine mancanti. Così come non conosciamo ancora chi fosse il bierre fuggito nel 1975 dalla cascina Spiotta. Lo stesso Mario Moretti ha sostenuto che le conoscenze dell’affaire avessero raggiunto un livello molto alto, ma non definitivo. Nella stessa direzione possiamo annoverare una dichiarazione di Franco Bonisoli: “Ci sono tanti compagni che potrebbero parlare e chiarire tante cose. Non capisco cosa aspettino a farlo”».
Tu che idea ti sei fatto?
«Sulla base di queste riflessioni, ipotizzo la presenza di una vedetta in grado di tenere sgombro il lato destro per evitare che ci si immettessero dei passanti, una considerazione avvalorata dal fatto che tagliarono le gomme del furgone di Spiriticchio per evitare che il fioraio si venisse a trovare sulla linea di fuoco. Qualche perplessità persisterebbe poi attorno al numero degli sparatori. Nell’ultimo capitolo del libro ho svolto un’accurata analisi sulle risultanze delle perizie balistiche, e sono emersi elementi che lasciano ipotizzare la presenza di un killer in più rispetto ai 4 già noti. Un’altra zona d’ombra è legata alla famosa Renault 4 in cui venne ritrovato il corpo dell’onorevole Moro, sempre slegata dall’azione di via Fani e collegata esclusivamente all’ultima fase del sequestro. Ho presentato una relazione in commissione in cui emerge una precisa corrispondenza temporale tra il furto delle auto impiegate il 16 marzo e quello della Renault 4, tale da autorizzare a credere che anche questa macchina fosse stata approntata per il sequestro. Non si possono escludere i misteri legati al ritrovamento delle auto in via Licinio Calvo perché abbiamo testimonianze di passanti e poliziotti che ci pongono un interrogativo. Insomma, potremmo stare qui a fare un lungo elenco, ma il discorso non cambia rispetto alla considerazione iniziale: un’operazione così complessa, eseguita da un’organizzazione così compartimentata e articolata, non può non presentare ricostruzioni partigiane e lacunose, che non autorizzano affatto a gridare al complotto».
Da allora sono tantissimi i misteri, veri e presunti, che circolano intorno a questa tragica vicenda. Oggi ne esamineremo uno: quello del motociclista “fantasma”...
Ne parliamo con Gianremo Armeni, sociologo, scrittore, collaboratore del mensile Limes e studioso dei fenomeni mafiosi ed eversivi. Armeni ha scritto un libro, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, che conta una prefazione di Vladimiro Satta, autore a sua volta di uno straordinario volume che smonta leggende e luoghi comuni sugli Anni di piombo.
In particolare, Satta sottolinea come il lavoro di Armeni mostri, una volta di più, «che attenersi alle evidenze è fruttuoso, molto più che abbandonarsi a congetture campate in aria».
Nella vicenda del rapimento di Aldo Moro vi sono molti misteri, veri e presunti. Uno di questi, in particolare, riguarda una moto che avrebbe trasportato due misteriosi personaggi armati di mitra.
Gianremo, qual è di preciso il “mistero” in questione?
«I misteri sono molteplici. Si tratta di una vicenda che per 37 anni ha rappresentato l’architrave su cui hanno poggiato quasi tutti i teoremi di natura dietrologica. Oltre a costituire il primo enigma del caso Moro, è l’episodio che vanta al suo attivo il maggior numero di distorsioni. Grazie soprattutto ad una sentenza del 1983, alla storia è stata consegnata questa verità:
Nella strage di via Fani ha avuto un ruolo attivo anche una moto Honda di grossa cilindrata, con a bordo due misteriosi personaggi, di cui uno a volto scoperto somigliante ad Eduardo De Filippo e l’altro con un passamontagna, che hanno fatto fuoco contro un civile, l’ingegner Alessandro Marini, accovacciato dietro il parabrezza del suo motorino.
Questo pilastro processuale ha in qualche modo legittimato i teorici del complotto a disegnare scenari di ogni sorta visto che l’identità dei due è sempre rimasta ignota. Su quella moto è stato piazzato di tutto, dagli appartenenti ai servizi segreti di ogni nazione agli affiliati alla criminalità organizzata, fino a fantomatici super killer; e al mezzo sono state attribuite le più disparate funzioni, che tuttavia le carte smentiscono».
In che modo tutte queste ipotesi sono smentite dai fatti?
«La moto di fatto, non può aver svolto un ruolo di copertura essendo arrivata un paio di minuti dopo la fuga del convoglio brigatista, e lontano dalla realtà è anche il ruolo di staffetta perché non era presente sulla scena. Oltre alla magistratura, ci sono state ben due commissioni d’inchiesta parlamentare che hanno indagato in modo ossessivo sulla questione, ma ogni organo investigativo si è limitato a ripartire dalla verità processuale, che tale purtroppo non era. È stato questo il grosso equivoco: le analisi e le conclusioni sono state edificate sulla base di false premesse. Qualche anno fa, proprio per l’importanza che la motocicletta riveste nel panorama dell’affaire e il clamore suggestivo a cui si presta, la circostanza è stata strumentalizzata persino da un anonimo che inviò una lettera al quotidiano La Stampa di Torino, sostenendo di essere uno dei due agenti segreti a bordo della Honda».
Perché non è credibile questa storia?
«Non è credibile per una serie di ragioni. La prima, in assoluto, che ha poi orientato la mia indagine, riguarda l’inverosimiglianza dell’episodio. Le Br assaltano la scorta, uccidono tutti gli agenti, sequestrano l’onorevole Moro, e riescono a fuggire. L’intera operazione è stata un successo. Dopo la fuga del commando, con un ritardo temporale quantificabile attorno ai due minuti, è difficile immaginarsi una scena in cui arriva una moto con due scriteriati a bordo, di cui uno indossa un passamontagna mentre l’altro si presenta a volto scoperto per farsi ammirare bene dai testimoni, e fanno fuoco contro un civile inerme, immobile, che non rappresenta nessun pericolo. Può essere verosimile che uomini dei servizi, o altri specialisti ingaggiati per un’operazione così delicata, si comportino come due scimuniti? La seconda ragione che invalida la sentenza è la sentenza stessa. Ad un’attenta lettura si evince come quel passaggio non sia stato il frutto di una serie di accertamenti tecnici o incroci di testimonianze. I magistrati della 1^ Corte d’Assise si sono limitati a far passare in giudicato esclusivamente le dichiarazioni del teste Marini, peraltro sconvolto dalle raffiche di mitra contro gli agenti di scorta al punto da perdere urina. Si poteva benissimo ipotizzare che la sua fosse soltanto una suggestione, e rileggendo i suoi numerosi verbali ci si rende conto di quante dichiarazioni assurde e contrastanti egli abbia riferito. In ultima analisi, tutti i brigatisti hanno sempre negato l’impiego del mezzo in via Fani e, come ho già accennato in precedenza, non si capisce che ruolo avrebbero mai potuto ricoprire i due centauri».
Alessandro Marini resta il teste principale dell’eccidio, ma i testimoni oculari che hanno avvistato la moto sarebbero più di uno. Nel tuo libro sembra che qualcuno negli anni abbia forzato un pochino la mano ad attribuire l’avvistamento della Honda ad alcuni passanti. Insomma, attorno a questo fatto, sembra che sia stata fatta molta confusione.
«Un vero e proprio ginepraio. Non saprei da dove cominciare. Abbiamo il teste principale, Alessandro Marini, le cui dichiarazioni negli anni hanno presentato un livello di inattendibilità quasi imbarazzante, e a me pare inverosimile che nessuno se ne sia mai accorto. L’altro testimone, Giovanni Intrevado, l’unico che assieme a Marini ha dichiarato di aver visto il passaggio della moto, ha dato vita negli anni a una vera e propria escalation informativa, molto singolare, che non è possibile in questa sede sviscerare in maniera esaustiva. Nel 1978 rilasciò alcune dichiarazioni povere di elementi significativi, ma 4 anni dopo, al processo, iniziò con le appendici, fino ad arrivare al 1996 in cui aggiunse l’ultimo dettaglio, il più importante, sempre omesso negli anni precedenti, che in buona sostanza avvalorava la funzione attiva della moto. È curioso il comportamento dei due testimoni perché, mentre uno accresceva le informazioni, l’altro, Alessandro Marini, faceva il percorso opposto decurtando e ravvedendosi progressivamente, fino a mettere in dubbio addirittura che il guidatore della moto indossasse un passamontagna. Nel mio testo, difatti, giungo anche a dare un nome ai due personaggi notati da Marini: non stavano affatto sulla moto ma erano due brigatisti a cui era stata assegnata la funzione del “cancelletto” superiore. Non è finita qui perché ad altri due testimoni la pubblicistica ha erroneamente attribuito l’avvistamento della Honda. Si tratta di Luca Moschini, il quale dichiarò di aver notato una moto che aveva tutt’altre caratteristiche rispetto all’altra, in una posizione differente, posteggiata, e prima ancora che iniziasse la sparatoria. L’altro teste è Paolo Pistolesi, il quale in uno dei suoi interrogatori disse chiaramente di non aver mai notato il mezzo di marca giapponese. Ma con spregio di tutte le evidenze contenute nel libro, sembra che in Italia esista uno statuto speciale che vieti categoricamente l’uscita di scena della Honda. Dopo ben 37 anni, la nuova commissione d’inchiesta ha ascoltato altri due cittadini. Non saprei dire come siano stati rintracciati. Sarebbe interessante capire come mai non abbiano fornito questi contributi alla giustizia già in passato. Tuttavia, le loro dichiarazioni, almeno quelle rese note dalla commissione stessa, abbastanza curiose, non hanno ottenuto grande attenzione presso gli osservatori più attenti della materia. Esiste una sola grande verità: l’unica prova regina che avrebbe costituito una ghigliottina a tutti i dubbi era rappresentata dal tentato omicidio ai danni di Alessandro Marini, evento che non si è mai verificato».
Un finto mistero spesso nasce in pochissimo tempo, mentre il lavoro necessario per svelarne la reale natura può richiedere anni di lavoro. Come hai lavorato per capire se la storia della moto “fantasma” era fondata oppure no?
«Prima di tutto ho compreso l’importanza di studiare tutto il complesso informativo del caso Moro, perché soltanto una conoscenza organica del fenomeno permette di addomesticare la materia. Sono partito dalla sentenza giudiziaria per capire quali fossero gli elementi probatori a sostegno della funzione operativa della moto e sono rimasto incredulo quando ho scoperto che la vicenda era stata certificata soltanto sulla base delle dichiarazioni del testimone Marini. Il passo successivo è stato quello di mettere insieme tutti i verbali sottoscritti dall’ingegnere e ciò che è emerso è stato assolutamente inimmaginabile. Dopodiché, è stato assolutamente funzionale all’obiettivo l’avere riunito ogni singola informazione sulla vicenda, e avere rimesso ogni tessera del puzzle al posto giusto, facendo interagire documenti ed elementi inediti, e ricostruendo la “colonna sonora” della strage. Infine, è stato utile rintracciare un documento conservato presso l’ufficio corpi di reato di Roma che rappresenta una sorta di carta d’identità di un reperto: il parabrezza del motorino consegnato da Marini ai magistrati, che a suo dire sarebbe stato forato dai colpi di mitra. Questo mi ha permesso di invalidare una relazione del senatore Granelli in commissione “Stragi”, in cui affermava che era stata eseguita una perizia su quel reperto e che l’indagine aveva stabilito persino l’arma che aveva esploso i colpi. Come vedi le distorsioni sono senza soluzione di continuità perché mai è stata svolta quel tipo di analisi tecnica. Una foto inedita e risolutiva, comparsa sul sito Insorgenze, successivamente all’uscita del mio libro, ha definitivamente chiarito come il parabrezza non fosse mai stato raggiunto da colpi di arma da fuoco».
Pur non avendo lo spazio per approfondire, quali sono secondo te gli autentici misteri del caso Moro che ancora attendono risposte?
«Allo stadio attuale, in assenza di nuovi riscontri, le zone d’ombra restano tutte circoscritte all’interno dell’organizzazione eversiva. Tutte le tesi a sostegno del coinvolgimento nella vicenda di misteriosi e imprecisati apparati istituzionali non hanno mai presentato un livello di attendibilità tale da suffragarle. Del resto, è anche naturale che esistano determinate lacune nella verità brigatista perché la lettura del caso Moro si presta a una maggiore comprensione analizzando congiuntamente la storia complessiva del Partito Armato. I militanti delle Brigate Rosse hanno sempre spiccato per reticenza e segretezza, caratteristiche che hanno favorito la longevità dell’organizzazione. Difatti, i componenti del commando di via Fani sono stati resi noti a rate: prima 7, poi 9, poi 10, e sia nel caso di 7, che di 9, nessuno di loro si è mai fatto avanti per consegnare alla giustizia le pedine mancanti. Così come non conosciamo ancora chi fosse il bierre fuggito nel 1975 dalla cascina Spiotta. Lo stesso Mario Moretti ha sostenuto che le conoscenze dell’affaire avessero raggiunto un livello molto alto, ma non definitivo. Nella stessa direzione possiamo annoverare una dichiarazione di Franco Bonisoli: “Ci sono tanti compagni che potrebbero parlare e chiarire tante cose. Non capisco cosa aspettino a farlo”».
Tu che idea ti sei fatto?
«Sulla base di queste riflessioni, ipotizzo la presenza di una vedetta in grado di tenere sgombro il lato destro per evitare che ci si immettessero dei passanti, una considerazione avvalorata dal fatto che tagliarono le gomme del furgone di Spiriticchio per evitare che il fioraio si venisse a trovare sulla linea di fuoco. Qualche perplessità persisterebbe poi attorno al numero degli sparatori. Nell’ultimo capitolo del libro ho svolto un’accurata analisi sulle risultanze delle perizie balistiche, e sono emersi elementi che lasciano ipotizzare la presenza di un killer in più rispetto ai 4 già noti. Un’altra zona d’ombra è legata alla famosa Renault 4 in cui venne ritrovato il corpo dell’onorevole Moro, sempre slegata dall’azione di via Fani e collegata esclusivamente all’ultima fase del sequestro. Ho presentato una relazione in commissione in cui emerge una precisa corrispondenza temporale tra il furto delle auto impiegate il 16 marzo e quello della Renault 4, tale da autorizzare a credere che anche questa macchina fosse stata approntata per il sequestro. Non si possono escludere i misteri legati al ritrovamento delle auto in via Licinio Calvo perché abbiamo testimonianze di passanti e poliziotti che ci pongono un interrogativo. Insomma, potremmo stare qui a fare un lungo elenco, ma il discorso non cambia rispetto alla considerazione iniziale: un’operazione così complessa, eseguita da un’organizzazione così compartimentata e articolata, non può non presentare ricostruzioni partigiane e lacunose, che non autorizzano affatto a gridare al complotto».