La storia, come la scienza, ha le sue regole. E queste regole vanno rispettate, se si vuole essere accettati a pieno titolo nella comunità degli storici. Spesso si tende a pensare che la storia, in quanto fondata soprattutto sul racconto e sulla narrazione, sia una disciplina facile da praticare. Questo errore, ad esempio, è stato (e continua a essere) commesso da molti scienziati. «Alcuni illustri cultori di scienze naturali» ha scritto Paolo Rossi (cfr. Query, n. 09), «pensano che il semplice fatto di essere “scienziati”, e quindi indirettamente figli di Galileo e seguaci del suo metodo, li autorizzi a prendere posizioni su questioni che non conoscono, a esprimere opinioni su problemi che non hanno mai avvicinato. Molti di questi interpreti, la cui autorevolezza nel loro specifico campo di studi è pari solo all’improntitudine con la quale parlano di cose che non sanno, ritengono di poter tracciare rapide sintesi, di risolvere questioni che hanno a lungo affaticato gli storici di professione. Non sono minimamente sfiorati dal sospetto che parlare in pubblico di Galilei avendo letto un po’ del Dialogo, un po’ dei Discorsi, la monografia di Geymonat e (nei casi migliori) qualche pagina di Koyré li colloca (agli occhi degli storici di professione) nella identica posizione in cui si troverebbe uno storico che sulla base della memoria di Einstein, della parziale lettura di Sottile è il Signore e de Il signor Robinson e la relatività pretendesse di svolgere un autorevole intervento a un congresso di fisica delle particelle[1]».
Naturalmente Rossi, quando scriveva, aveva in mente dei nomi ben precisi, ma in questo caso preferisco lasciare spazio alla vostra immaginazione. Del resto, già nell’ormai lontano 1905, il matematico Paul Tannery, uno dei padri della storia della scienza come disciplina specifica, affermava che «per essere un buon storico non basta essere scienziato. Bisogna prima di tutto volersi dedicare alla storia, cioè averne il gusto; bisogna sviluppare in sé il senso storico che è essenzialmente differente da quello scientifico; bisogna infine acquisire una serie di conoscenze particolari, di ausilio indispensabile per lo storico, che sono invece del tutto inutili allo scienziato che si interessa solo al progresso della scienza».
Quello che vale per gli scienziati, vale ovviamente anche per tutti coloro che si cimentano nella scrittura di un libro di storia, inclusi (non sembri paradossale) gli storici stessi. Perché come tutti sappiamo, le regole tendono a essere dimenticate o ignorate (più o meno volutamente) anche dagli stessi specialisti di una determinata disciplina. Arnaldo Momigliano, uno dei più grandi storici del Novecento, ha scritto a questo proposito un breve, ma illuminante, articolo dedicato alle regole del gioco in campo storico[2], che dovrebbe servire da costante guida per chi intenda navigare nelle sconfinate acque (non sempre tranquille) della ricerca storica. Cerchiamo di evidenziarne alcune delle più importanti.
1) «La differenza tra un romanziere e uno storico è che il romanziere è libero di inventare i fatti (anche se può mescolarli con fatti reali in un romanzo storico), mentre lo storico non inventa fatti. Poiché il mestiere dello storico consiste nel raccogliere e interpretare documenti per ricostruire e comprendere gli avvenimenti del passato, se non ci sono documenti non c’è storia». Purtroppo, com’è noto, soprattutto nell’ambito dei testi pseudoscientifici, spesso si tende a costruire una storia senza documenti. Uno dei casi più noti è quello rappresentato dalla vicenda dell’articolo pubblicato, nel 1912, su alcuni giornali tedeschi, inglesi e statunitensi, dal “Dottor Paul Schliemann”, nel quale l’autore del pezzo si presentava non solo come nipote del celebre scopritore di Troia, ma affermava di aver ereditato dal nonno le prove dell’esistenza di Atlantide[3]. Ora, tralasciando la questione (non certo secondaria) relativa a chi sia stato il vero autore di quel famigerato articolo, il problema è che nessun documento concreto venne mai sottoposto all’attenzione dell’opinione pubblica e al giudizio degli specialisti. È evidente, quindi, che senza mai aver avuto quei documenti, non è stato possibile ricostruire alcuna storia.
2) «Lo storico è libero di portare in una ricerca storica tutta la ricchezza dei suoi convincimenti e delle sue esperienze. Se è un ebreo, un cristiano o un musulmano credente, naturalmente porterà la sua fede nella ricerca» (questo, aggiungo io, vale allo stesso modo per la ricerca scientifica). Ma «l’arbitrio dello storico cessa quando egli si trova a interpretare un documento» (così come un fatto per uno scienziato). «Ogni documento è quello che è: va trattato tenendo conto delle sue caratteristiche. Una semplice casa non diventa un santuario perché lo storico è religioso. Ed Erodoto non diventa un documento di lotta di classe perché lo studia uno storico marxista. Esiste un necessario rispetto per ciò che i documenti dicono e suggeriscono e per ciò che si può legittimamente inferire dalla combinazione di vari documenti: esso è basato sulle regole ordinarie (e falsificabili) di ragionamento e di esperienza». È lo stesso motivo per cui una raffigurazione religiosa su una pietra tombale maya non può diventare improvvisamente la rappresentazione di una figura aliena e del suo apparato tecnologico[4], semplicemente perché uno è convinto dell’esistenza di extraterrestri anticamente sbarcati sul pianeta Terra. La mancanza di rispetto per quello che i documenti dicono è una caratteristica tipica dei testi che si occupano di misteri, scritti da persone che non hanno una specifica preparazione in campo storico.
3) La terza regola è strettamente connessa alla seconda: «la competenza dello storico si riconosce da ciò: che egli non dà per certo quello che è dubbio e non generalizza il caso isolato. In taluni casi lo storico deve dire: non capisco. In altri azzarderà con esitazione una ipotesi. Ma non basta che una ipotesi sia plausibile. L’ipotesi avanzata deve essere più plausibile di ogni altra ipotesi. Prima di proporre una ipotesi lo storico deve fare lo sforzo di cercare e valutare ipotesi alternative». Anche in questo caso nei testi pseudoscientifici avviene in genere il contrario. La possibilità (invero assai remota, se l’esame viene condotto nel contesto storico dell’epoca) che la pietra di Palenque raffiguri un astronauta diventa una certezza indubitabile. E tutte le altre spiegazioni alternative non vengono esaminate, né tanto meno messe a confronto con l’ipotesi che si vuole dimostrare (che poi viene presentata come l’unica possibile).
4) «Ogni storico serio nel dubbio consulta i colleghi, soprattutto quei colleghi che hanno fama di essere scettici e inesorabili. Dimmi che amici hai, e ti dirò che storico sei». Non a caso, gli autori di testi pseudoscientifici o pseudostorici fanno sempre continui rimandi fra loro, cercando di far vedere come il giudizio positivo di uno avvalori quello dell’altro, senza tuttavia confrontarsi con il parere degli storici professionisti.
5) «Caratteristica del lavoro storico è dunque che c’è una serie infinita di transizioni tra la conoscenza di grado zero dovuta all’assenza di qualsiasi documento e la conoscenza perfetta (ma irraggiungibile) dovuta alla perfetta sopravvivenza e perfetta comprensione di tutta la documentazione. Lo storico normalmente lavora sul presupposto di interpretare un numero limitato di documenti. In particolare lo storico antico, salvo in casi eccezionali, lavora sul presupposto di avere una documentazione insufficiente. Perciò in storia antica si fanno più ipotesi che in storia moderna e perciò c’è un rischio maggiore di fare ipotesi campate in aria. La storia antica è favorevole campo per i ciarlatani». Mi pare non ci sia da aggiungere altro. La storia, come la scienza, è piena di misteri, talvolta molto complessi, e gli storici lo sanno bene. Cerchiamo, però, di rispettare le regole del gioco.
Naturalmente Rossi, quando scriveva, aveva in mente dei nomi ben precisi, ma in questo caso preferisco lasciare spazio alla vostra immaginazione. Del resto, già nell’ormai lontano 1905, il matematico Paul Tannery, uno dei padri della storia della scienza come disciplina specifica, affermava che «per essere un buon storico non basta essere scienziato. Bisogna prima di tutto volersi dedicare alla storia, cioè averne il gusto; bisogna sviluppare in sé il senso storico che è essenzialmente differente da quello scientifico; bisogna infine acquisire una serie di conoscenze particolari, di ausilio indispensabile per lo storico, che sono invece del tutto inutili allo scienziato che si interessa solo al progresso della scienza».
Quello che vale per gli scienziati, vale ovviamente anche per tutti coloro che si cimentano nella scrittura di un libro di storia, inclusi (non sembri paradossale) gli storici stessi. Perché come tutti sappiamo, le regole tendono a essere dimenticate o ignorate (più o meno volutamente) anche dagli stessi specialisti di una determinata disciplina. Arnaldo Momigliano, uno dei più grandi storici del Novecento, ha scritto a questo proposito un breve, ma illuminante, articolo dedicato alle regole del gioco in campo storico[2], che dovrebbe servire da costante guida per chi intenda navigare nelle sconfinate acque (non sempre tranquille) della ricerca storica. Cerchiamo di evidenziarne alcune delle più importanti.
1) «La differenza tra un romanziere e uno storico è che il romanziere è libero di inventare i fatti (anche se può mescolarli con fatti reali in un romanzo storico), mentre lo storico non inventa fatti. Poiché il mestiere dello storico consiste nel raccogliere e interpretare documenti per ricostruire e comprendere gli avvenimenti del passato, se non ci sono documenti non c’è storia». Purtroppo, com’è noto, soprattutto nell’ambito dei testi pseudoscientifici, spesso si tende a costruire una storia senza documenti. Uno dei casi più noti è quello rappresentato dalla vicenda dell’articolo pubblicato, nel 1912, su alcuni giornali tedeschi, inglesi e statunitensi, dal “Dottor Paul Schliemann”, nel quale l’autore del pezzo si presentava non solo come nipote del celebre scopritore di Troia, ma affermava di aver ereditato dal nonno le prove dell’esistenza di Atlantide[3]. Ora, tralasciando la questione (non certo secondaria) relativa a chi sia stato il vero autore di quel famigerato articolo, il problema è che nessun documento concreto venne mai sottoposto all’attenzione dell’opinione pubblica e al giudizio degli specialisti. È evidente, quindi, che senza mai aver avuto quei documenti, non è stato possibile ricostruire alcuna storia.
2) «Lo storico è libero di portare in una ricerca storica tutta la ricchezza dei suoi convincimenti e delle sue esperienze. Se è un ebreo, un cristiano o un musulmano credente, naturalmente porterà la sua fede nella ricerca» (questo, aggiungo io, vale allo stesso modo per la ricerca scientifica). Ma «l’arbitrio dello storico cessa quando egli si trova a interpretare un documento» (così come un fatto per uno scienziato). «Ogni documento è quello che è: va trattato tenendo conto delle sue caratteristiche. Una semplice casa non diventa un santuario perché lo storico è religioso. Ed Erodoto non diventa un documento di lotta di classe perché lo studia uno storico marxista. Esiste un necessario rispetto per ciò che i documenti dicono e suggeriscono e per ciò che si può legittimamente inferire dalla combinazione di vari documenti: esso è basato sulle regole ordinarie (e falsificabili) di ragionamento e di esperienza». È lo stesso motivo per cui una raffigurazione religiosa su una pietra tombale maya non può diventare improvvisamente la rappresentazione di una figura aliena e del suo apparato tecnologico[4], semplicemente perché uno è convinto dell’esistenza di extraterrestri anticamente sbarcati sul pianeta Terra. La mancanza di rispetto per quello che i documenti dicono è una caratteristica tipica dei testi che si occupano di misteri, scritti da persone che non hanno una specifica preparazione in campo storico.
3) La terza regola è strettamente connessa alla seconda: «la competenza dello storico si riconosce da ciò: che egli non dà per certo quello che è dubbio e non generalizza il caso isolato. In taluni casi lo storico deve dire: non capisco. In altri azzarderà con esitazione una ipotesi. Ma non basta che una ipotesi sia plausibile. L’ipotesi avanzata deve essere più plausibile di ogni altra ipotesi. Prima di proporre una ipotesi lo storico deve fare lo sforzo di cercare e valutare ipotesi alternative». Anche in questo caso nei testi pseudoscientifici avviene in genere il contrario. La possibilità (invero assai remota, se l’esame viene condotto nel contesto storico dell’epoca) che la pietra di Palenque raffiguri un astronauta diventa una certezza indubitabile. E tutte le altre spiegazioni alternative non vengono esaminate, né tanto meno messe a confronto con l’ipotesi che si vuole dimostrare (che poi viene presentata come l’unica possibile).
4) «Ogni storico serio nel dubbio consulta i colleghi, soprattutto quei colleghi che hanno fama di essere scettici e inesorabili. Dimmi che amici hai, e ti dirò che storico sei». Non a caso, gli autori di testi pseudoscientifici o pseudostorici fanno sempre continui rimandi fra loro, cercando di far vedere come il giudizio positivo di uno avvalori quello dell’altro, senza tuttavia confrontarsi con il parere degli storici professionisti.
5) «Caratteristica del lavoro storico è dunque che c’è una serie infinita di transizioni tra la conoscenza di grado zero dovuta all’assenza di qualsiasi documento e la conoscenza perfetta (ma irraggiungibile) dovuta alla perfetta sopravvivenza e perfetta comprensione di tutta la documentazione. Lo storico normalmente lavora sul presupposto di interpretare un numero limitato di documenti. In particolare lo storico antico, salvo in casi eccezionali, lavora sul presupposto di avere una documentazione insufficiente. Perciò in storia antica si fanno più ipotesi che in storia moderna e perciò c’è un rischio maggiore di fare ipotesi campate in aria. La storia antica è favorevole campo per i ciarlatani». Mi pare non ci sia da aggiungere altro. La storia, come la scienza, è piena di misteri, talvolta molto complessi, e gli storici lo sanno bene. Cerchiamo, però, di rispettare le regole del gioco.
Note
1) Rossi, P. 1999. Un altro presente. Bologna: Il Mulino, pp. 134-135
2) Momigliano, A. 1974 “Le regole del gioco nello studio della storia antica” in Storia e storiografia antica. Bologna: Il Mulino, 1987, pp. 15-24.
3) Ciardi, M. 2011. Le metamorfosi di Atlantide. Storie scientifiche e immaginarie da Platone a Walt Disney. Roma: Carocci, pp. 66-68.
4) Galati, G. 2012. “Astronavi preistoriche”. Query, n. 11: pp. 42-43.