In Sardegna girano da tempo delle voci su eventi misteriosi che si sarebbero verificati in un passato più o meno remoto nel delicato momento in cui un proprio caro era moribondo e afflitto da una lunga agonia. In epoche in cui gli ospedali erano pochi e troppo lontani, e le cure mediche scarse e di gran lunga meno efficaci di adesso, spesso le sofferenze del morente erano terribili e interminabili, ma nessuno dei familiari aveva l’intenzione o il coraggio di intervenire attivamente per mettervi fine togliendogli la vita. Cosa fare in questi casi? È qui che entrava in gioco una misteriosa signora disposta a compiere quel gesto macabro ma anche pieno di pietà. La chiamavano accabadora.
Si dice che arrivasse silenziosa, con i suoi attrezzi di morte, vestita tutta di nero e coperta anche in volto, irriconoscibile a chiunque. Entrava nella stanza del moribondo e per prima cosa faceva rimuovere tutti gli amuleti e le immagini sacre, poiché si credeva che impedissero il sopraggiungere della morte. Poi chiudeva la porta, restando sola col morente e apriva la finestra per far uscire l’anima una volta che si fosse staccata dal corpo. Dopo aver pronunciato preghiere o formule magiche, dette brebus, la donna misteriosa utilizzava uno dei suoi metodi per far morire l’agonizzante.
Poteva mettere un giogo di legno in miniatura, detto jualeddu, a contatto con la nuca del moribondo facendolo morire misteriosamente subito, come per magia. Poteva soffocarlo coprendogli naso e bocca con le mani, con il cuscino, o ancora stringendogli il collo tra le gambe. Un’altra possibilità era usare sa matzocca (con le varianti sa matzucca, su matzuccu e su matzolu), una mazza nodosa tutta di legno, spesso simile a un martello, che si dice battesse con un colpo secco sul capo, la nuca o il petto, uccidendo il moribondo. Finito il suo compito, se ne andava in silenzio così com’era arrivata. Si dice che in genere non venisse pagata, accettando al massimo un’offerta sotto forma di cibo.
Nella cultura popolare sarda esistono diversi proverbi che alludono a questa figura. Per esempio, un adagio di Desulo dice “canno lompia est s’ora, benit s’accabadora” (“quando è arrivata l’ora, arriva l’accabadora”). A Orgosolo invece c’è un modo di dire, più precisamente un’imprecazione, che fa più o meno così: “s’accabbadora i ti muttant!”, “che ti chiamino l’accabbadora!”
Il termine accabadora (con le varianti accabbadora, accabadura, agabbadora, agabbadori) significherebbe letteralmente “colei che mette fine”, cioè “la terminatrice”, e deriverebbe dal sardo accab(b)are (logudorese) o accab(b)ai (campidanese), che significa “finire, terminare, smettere, esaurire” (con varianti di significato derivato quali “accoppare” e “uccidere”), il quale a sua volta deriva dallo spagnolo acabar, “terminare”.
Una delle prime testimonianze scritte relative a queste figure misteriose è del generale, naturalista e cartografo Alberto Della Marmora nella prima edizione del Voyage en Sardaigne del 1826, in cui però dice che il residuo di queste pratiche di "affrettare la fine dei moribondi" è "del tutto sparito da un centinaio d’anni", quindi dai primi due o tre decenni del Settecento. Negli stessi anni l’ammiraglio W. H. Smyth scrisse nei suoi diari dell’esistenza di queste donne la cui pratica eutanasica "venne abolita sessanta o settant'anni orsono". Nel 1833 anche l’abate Vittorio Angius affermava che le attività di queste donne fossero cessate verso la metà del XVIII secolo, documentando anche altre nuove informazioni riguardanti la figura dell’accabadora che circolavano nel comune di Bosa.
Tra i pareri più critici relativi all’esistenza dell’accabadora, ci sono quelli dell’antropologo Francesco Alziator e, più di recente, dello studioso di tradizioni sarde Italo Bussa, che con i loro studi hanno messo in dubbio che queste figure uccidessero realmente. Ipotizzano piuttosto che accudissero i moribondi tramite antichi riti e formule magiche che, forse, avevano lo scopo di invocare la fine della loro agonia con la guarigione o con la definitiva morte. Da qui potrebbero essere nati tutti i racconti derivati intorno a questa figura. In assenza di prove a favore dell’accabadora che agiva in modo pratico e “violento”, i due studiosi propendono più per un’accabadora che agiva in modo superstizioso, indiretto e “magico”[1],[2].
E dunque si tratta solamente di favole della buona morte? In realtà, atti di eutanasia attiva risultano documentati dallo studioso Franco Fresi e in particolare dal medico legale e antropologo criminale Alessandro Bucarelli, e vengono considerati come ultime manifestazioni dell’accabadora, arrivando addirittura fino alla metà del Novecento[3],[4].
Tra i vari elementi che ricorrono spesso nei racconti sull’accabadora c’è lo jualeddu (con le varianti juale, jale, juvale), cioè il giogo di un aratro o di un carro in miniatura, che sarebbe stato messo sotto il cuscino del moribondo per abbreviarne le sofferenze. Si credeva infatti che quel dolore interminabile fosse dovuto a qualche grave torto commesso in passato. Nel contesto di una cultura tipicamente rurale e contadina, la colpa poteva essere quella di avere, appunto, rubato o distrutto un giogo agricolo altrui.
Già l’abate V. Angius affermava che questo oggetto di legno venisse considerato il rimedio maggiore per metter fine alle pene di un moribondo. Monsignor Masia, ex parroco di Sedilo e Sindia, verso gli anni ’80 confidò alla studiosa di tradizioni popolari sarde Dolores Turchi di aver trovato svariate volte il giogo sotto il cuscino del morente durante il rito dell’estrema unzione[5]. Alcune versioni dicono, però, che prima del contatto con la nuca lo jualeddu venisse passato lentamente sulle gambe, sul petto, sino a raggiungere la testa, mentre venivano recitati i brebus col fine di “alleviare la sua coscienza dalla colpa che gli impediva di morire in pace”. È interessante notare che tradizioni simili a quelle relative allo jualeddu si trovano anche in molte regioni italiane e persino in Francia.
In molti paesi della Sardegna si diceva che su juale fosse usato anche per facilitare il parto e che lo si mettesse sotto il letto o dietro la porta per proteggere i bambini dalla sùrbile, la strega-vampiro delle leggende sarde. È evidente la valenza sacra e apotropaica, in particolare nel periodo della nascita e della morte degli individui. Non di rado, infatti, viene raccontato che l’accabadora facesse anche la levatrice. Insomma, una donna esperta nel far nascere e nel far morire, conoscitrice di rimedi tradizionali, di erbe officinali: una curatrice, addetta a far terminare qualunque tipo di dolore, con le buone o con le cattive.
Lo studio anatomo-patologico del giogo come possibile “oggetto letale” è stato condotto da vari studiosi. Si ipotizza che, una volta posto sotto la nuca (senza il cuscino), servisse a ledere la seconda vertebra cervicale grazie a un colpo sulla fronte del malato con una mano, causando in genere la morte.
Pier Giacomo Pala, cultore e appassionato di tradizioni popolari, custodisce e mette in mostra nel suo Museo Etnografico Galluras quello che ritiene sia l’unico e ultimo esemplare di matzolu, il martello dell’accabadora, trovato dopo svariati anni di ricerche nascosto in un muretto a secco in prossimità della casa di una levatrice che si dice facesse anche l’accabadora. Purtroppo, però, trovare questa mazza di legno in una vecchia casa sarda non prova l’esistenza dell’accabadora, in quanto in passato era un comune strumento utilizzato dalle donne per battere i panni da lavare. Il termine matzoccare o a(m)matzoccai significa non a caso “battere i panni da lavare con la mazza di legno”.
Ma vale lo stesso anche per il ritrovamento più recente di una matzocca con tracce di sangue umano? È il tema affrontato nell’intervista a Roberto Demontis (vedi pagine seguenti) che, insieme ad altri tre dottori appassionati di tradizioni sarde, ha ritrovato e analizzato questo e altri oggetti con i più moderni metodi di medicina forense, e ha raccontato a Query i risultati delle loro analisi e le ipotesi che suggeriscono.
Gli studi di Demontis e colleghi farebbero pensare che finalmente si sia trovata “la pistola fumante”. Peccato però che le dicerie, e persino questi stessi studiosi, siano concordi sul fatto che l’accabadora agisse evitando di lasciare tracce.
Negli ultimi anni questa figura misteriosa è diventata nota anche fuori dall'isola in particolare grazie a un libro e a un film. Il libro è il romanzo Accabadora del 2009, di Michela Murgia, che immerge il lettore nella società sarda degli anni '50, spingendolo a fare profonde riflessioni sul tema etico dell'eutanasia.
Il film è L’Accabadora (2015) del regista Enrico Pau, in cui i temi dell'eutanasia e della guerra, vissuti nella Cagliari degli anni ’40, vengono trattati in modo particolarmente drammatico e ieratico soprattutto per via del peso che l'accabadora protagonista dell’opera trascina con sé.
La forte identitarietà sarda porta chi è dell’isola a propendere a credere all’esistenza di tutto ciò che fa parte delle tradizioni e delle leggende antiche o moderne. Dietro a questo c’è sicuramente un bias di conferma ma, a causa dello stereotipo che ha rappresentato a lungo i sardi come ignoranti e pastori di pecore, probabilmente c’è anche il pressante bisogno di sentirsi ascoltati e rivalutati. Per fare un’indagine scientifica però bisogna mettere da parte le opinioni e i propri desideri. Pertanto, finché le indagini porteranno a indizi supportati solamente da ipotesi e interpretazioni teoriche, non possiamo dire che ci siano prove inconfutabili e inequivocabili che dimostrino che le accabadore siano effettivamente esistite.
C’è chi ipotizza che la difficoltà di dimostrarne l’esistenza potrebbe essere dovuta al fatto che, benché le loro pratiche fossero note a tutti, allo stesso tempo dovevano essere segrete per tutti perché non accettate né dalla religione né dalla legge. Ma finché non avremo prove valide e definitive, l’unica cosa che possiamo affermare è che questa è una delle tante storie misteriose e affascinanti legate a riti antichi rimasti in una terra in grado di conservare echi di tradizioni millenarie.
Roberto Demontis, di professione medico legale, è uno degli autori di Accabadora mito e realtà (Isolapalma Ed., 2021), il libro che ricostruisce il ritrovamento e la successiva analisi di alcuni oggetti che potrebbero essere appartenuti a un’accabadora ancora attiva circa un secolo fa.
Insieme ad altri tre medici – Aldo Cinus, Augusto Marini e Mariano Staffa – lei ha svolto un’indagine su alcuni oggetti la cui proprietà sembra riconducibile alla controversa figura di un’accabadora. Di che oggetti si tratta?
Il primo è una mazzocca, un ciocco di legno con presenza di macchie di sangue. Poi c’è un pezzo di legno intagliato, reso molto simile a un coltello, avvolto con dei ritagli di giornale e chiuso con uno spago di fibra vegetale. Attorno c’era un rosario con dei vaghi di legno, una crocetta e una medaglia della Madonna della Medaglia Miracolosa. Accanto a questo reperto c’era un foglio in cui erano scritti a matita nove nomi sardi, a fianco di ognuno dei quali è riportato il numero 1. C’era anche una monetina di rame con la figura di Vittorio Emanuele III e nel retro un’ape. Infine, c’era un dente che si è rivelato essere un primo molare dell’arcata inferiore sinistra. I fogli di giornale erano di chiaro stampo religioso. La data presente era 1925, 1926, quindi stiamo parlando di reperti di circa 100 anni fa.
Come avete ritrovato questi oggetti?
La mazzocca con le tracce di sangue era stata data in dono al dottor Augusto Marini da un suo paziente. Qualche mese dopo l’esito delle analisi di questo reperto, siamo andati a vedere di persona il sito in cui era stato trovato, cioè un incavo in un muro di pietra di una vecchia casa. Nella nicchia c’erano però anche altri reperti. Così con l’aiuto di mia figlia abbiamo documentato e fotografato tutto accuratamente. Il fatto di aver rinvenuto tutti questi oggetti insieme nello stesso sito e di aver trovato inoltre l’unica mazzocca esistente che presenti tracce di sangue, credo che sia una testimonianza forte a favore del fatto che l’accabadora sia esistita veramente.
Che tipo di analisi avete condotto e con quali risultati?
Io mi sono occupato della parte tecnica e di quelle che dovevano essere le modalità lesive. È cominciato tutto quando Augusto Marini mi ha chiamato e mi ha detto che aveva con sé un oggetto con probabili tracce scure di sangue. Gli ho risposto di portarlo pure da me all’Istituto di medicina legale di Cagliari per poterlo esaminare.
Quando mi è stata data la mazzocca da analizzare, ho notato la presenza di tracce con le caratteristiche di colatura che andavano dal battente verso la parte centrale del braccio corto della mazzocca, e una formazione pilifera bianca. Abbiamo proceduto agli esami, prima con una prova generica di sangue che ha dato esito positivo. Questo però ci indicava solo che poteva essere materiale ematico. A quel punto ho coinvolto anche i miei colleghi genetisti per saperne di più. È emerso che si trattava di sangue umano appartenuto a un soggetto di sesso maschile. Per noi è stata una notizia estremamente importante e affascinante.
I nove nomi scritti nel foglietto erano: Antiogu, Boricu, Pepanna, Mariedda, Nanni, Claudinu, Paulicu, Pieredu e Bisenti. Abbiamo fatto una verifica nell’archivio arcivescovile in cui sono registrati i decessi, i battesimi e le cresime e, per esempio, abbiamo individuato una sola Pepanna che viveva nello stesso luogo dell’accabadora che usava gli strumenti da noi ritrovati e proprio nel periodo in cui avrebbe agito. Ne abbiamo dunque dedotto che potesse essere un elenco delle persone a cui aveva dato la morte.
Il legnetto intagliato dovrebbe essere la cosiddetta misericordia, cioè una sorta di punteruolo che veniva infisso nella regione nucale e forse anche sospinto con la mazzocca. L’alternativa era s’ossu sanadore che era sostanzialmente un frammento d’osso appuntito. Entrambi avrebbero avuto la funzione di determinare una lesione a livello midollare. Se infisso nella parte alta della nuca dove ci sono i centri respiratori, i centri cardiocinetici, si sarebbe determinato un arresto cardiorespiratorio e poi il decesso.
L’obiettivo era quello di dare la morte ma senza creare delle lesioni che fossero visibili per esempio al sacerdote che andava a benedire la salma o alle persone che andavano a rendere omaggio al defunto. Dunque lesioni non evidenti e quindi lesioni non sanguinanti.
Ecco perché ritengo che la mazzocca possa essere stata utilizzata molto raramente e il sangue presente potrebbe essere riferito a uno di quei pochi casi. Certamente non si usava la mazzocca per colpire la regione frontale, dato che avrebbe provocato delle ferite lacerocontuse facilmente visibili. Piuttosto, poteva essere utilizzata per esempio colpendo le regioni laterali del collo dove ci sono i glomi carotidei, che sono dei recettori sensibili all’aumento di pressione. Un colpo a quel livello avrebbe dato un arresto cardiaco immediato per stimolazione vagale e poi quindi la morte.
Anche l’uso della mazzocca per conficcare sa misericordia era residuale poiché avrebbe portato lesioni sanguinanti. Il suo utilizzo lo reputo più probabile sugli infanti. Dando un colpo nella regione dello sterno, cioè sostanzialmente al centro del torace, si sarebbe ottenuto quel meccanismo che viene descritto in letteratura come commotio cordis, cioè una contusione a livello cardiaco che provoca un’aritmia cardiaca e una fibrillazione ventricolare che può portare a morte. A quei tempi non esistevano i defibrillatori e quindi l’arresto cardiaco evolveva in maniera naturale.
A mio giudizio, però, la metodica a cui si ricorreva più frequentemente era il soffocamento col cuscino, che non lascia traccia, soprattutto se chi osserva il corpo non ha dimestichezza con l’esame dei cadaveri. Nessuno avrebbe pensato di andare a vedere se nel vestibolo orale (dentro la bocca) c’erano i segni della compressione dei denti contro la parte interna delle labbra. Tra l’altro molto spesso non risulta nemmeno questa dato che il mezzo è soffice. Teniamo inoltre presente che stiamo parlando di malati terminali che quindi non offrivano resistenza all’insulto traumatico. Quella che in realtà era una morte per asfissia poteva benissimo essere scambiata per una morte assolutamente naturale e quindi non traumatica. Vale lo stesso per il soffocamento con le mani andando a chiudere il naso e la bocca.
Un’altra modalità che non lasciava segni evidenti poteva essere quella con il giogo, su juale, che veniva messo dietro la nuca. Dando un colpo nella regione frontale si determinava un’iperestensione del collo con rottura del dente dell’epistrofeo. Questo però poteva non portare alla morte il soggetto ma piuttosto a una tetraparesi, cioè a una paralisi. Sottolineo che si tratta di ipotesi. Ho tentato di ricostruire le varie modalità grazie alle mie competenze.
Come scrivete nel vostro libro, voi ritenete plausibile che l’accabadora sia davvero esistita. Che idea si è fatto di questa persona?
I ritrovamenti portano in questa direzione, e devo ammettere che è stata un'esperienza veramente entusiasmante.
Secondo me l’accabadora era una donna animata da un grande senso di solidarietà sociale e da un grande sentimento di pietà, una donna religiosa, come dimostrano i frammenti di giornale trovati, ma probabilmente anche dedita a pratiche come sa mexina de s’ogu, cioè le pratiche sarde per togliere il malocchio.
Era una donna che dava la vita, perché molto spesso fungeva anche da ostetrica, ed era anche quella che toglieva la vita, ma come gesto di estrema pietà. Dava la morte ai malati terminali con l’intento di porre fine alle loro sofferenze oppure ai neonati malformati che in epoche antiche potevano essere un peso per la famiglia.
Se i vari oggetti ritrovati e da voi analizzati non fossero stati di un’accabadora, quale spiegazione alternativa se ne potrebbe dare?
Tutto porta a pensare che questi strumenti fossero di un’accabadora. Non vedo un’alternativa plausibile.
Le vostre indagini non si sono ancora concluse. Ci sono delle novità?
La perizia calligrafica che ho svolto sui nove nomi rivela che sono stati scritti dalla medesima persona.
Con l’analisi del DNA il dente rinvenuto risulta essere appartenuto a un soggetto umano di sesso maschile. Sulla base delle caratteristiche del dente il soggetto doveva avere un’età tra i 30 e i 40 anni. Il profilo genetico tuttavia non corrisponde a quello del sangue trovato sulla mazzocca.
Abbiamo promesso di mantenere l’anonimato sia su chi ci ha fornito i vari reperti sia sulla donna che li utilizzava, sebbene sia ormai già deceduta. Nessuno vuole problemi e nessuno vuole essere coinvolto in cose che dal punto di vista legale sono considerate a tutti gli effetti reati, tra l’altro non soggetti a prescrizione.
Si dice che arrivasse silenziosa, con i suoi attrezzi di morte, vestita tutta di nero e coperta anche in volto, irriconoscibile a chiunque. Entrava nella stanza del moribondo e per prima cosa faceva rimuovere tutti gli amuleti e le immagini sacre, poiché si credeva che impedissero il sopraggiungere della morte. Poi chiudeva la porta, restando sola col morente e apriva la finestra per far uscire l’anima una volta che si fosse staccata dal corpo. Dopo aver pronunciato preghiere o formule magiche, dette brebus, la donna misteriosa utilizzava uno dei suoi metodi per far morire l’agonizzante.
Poteva mettere un giogo di legno in miniatura, detto jualeddu, a contatto con la nuca del moribondo facendolo morire misteriosamente subito, come per magia. Poteva soffocarlo coprendogli naso e bocca con le mani, con il cuscino, o ancora stringendogli il collo tra le gambe. Un’altra possibilità era usare sa matzocca (con le varianti sa matzucca, su matzuccu e su matzolu), una mazza nodosa tutta di legno, spesso simile a un martello, che si dice battesse con un colpo secco sul capo, la nuca o il petto, uccidendo il moribondo. Finito il suo compito, se ne andava in silenzio così com’era arrivata. Si dice che in genere non venisse pagata, accettando al massimo un’offerta sotto forma di cibo.
Il classico granito a vista della facciata del Museo Galluras, che ospita la ricostruzione fedele di una tipica casa gallurese © Museo Galluras
Nella cultura popolare sarda esistono diversi proverbi che alludono a questa figura. Per esempio, un adagio di Desulo dice “canno lompia est s’ora, benit s’accabadora” (“quando è arrivata l’ora, arriva l’accabadora”). A Orgosolo invece c’è un modo di dire, più precisamente un’imprecazione, che fa più o meno così: “s’accabbadora i ti muttant!”, “che ti chiamino l’accabbadora!”
Il termine accabadora (con le varianti accabbadora, accabadura, agabbadora, agabbadori) significherebbe letteralmente “colei che mette fine”, cioè “la terminatrice”, e deriverebbe dal sardo accab(b)are (logudorese) o accab(b)ai (campidanese), che significa “finire, terminare, smettere, esaurire” (con varianti di significato derivato quali “accoppare” e “uccidere”), il quale a sua volta deriva dallo spagnolo acabar, “terminare”.
Una delle prime testimonianze scritte relative a queste figure misteriose è del generale, naturalista e cartografo Alberto Della Marmora nella prima edizione del Voyage en Sardaigne del 1826, in cui però dice che il residuo di queste pratiche di "affrettare la fine dei moribondi" è "del tutto sparito da un centinaio d’anni", quindi dai primi due o tre decenni del Settecento. Negli stessi anni l’ammiraglio W. H. Smyth scrisse nei suoi diari dell’esistenza di queste donne la cui pratica eutanasica "venne abolita sessanta o settant'anni orsono". Nel 1833 anche l’abate Vittorio Angius affermava che le attività di queste donne fossero cessate verso la metà del XVIII secolo, documentando anche altre nuove informazioni riguardanti la figura dell’accabadora che circolavano nel comune di Bosa.
Tra i pareri più critici relativi all’esistenza dell’accabadora, ci sono quelli dell’antropologo Francesco Alziator e, più di recente, dello studioso di tradizioni sarde Italo Bussa, che con i loro studi hanno messo in dubbio che queste figure uccidessero realmente. Ipotizzano piuttosto che accudissero i moribondi tramite antichi riti e formule magiche che, forse, avevano lo scopo di invocare la fine della loro agonia con la guarigione o con la definitiva morte. Da qui potrebbero essere nati tutti i racconti derivati intorno a questa figura. In assenza di prove a favore dell’accabadora che agiva in modo pratico e “violento”, i due studiosi propendono più per un’accabadora che agiva in modo superstizioso, indiretto e “magico”[1],[2].
E dunque si tratta solamente di favole della buona morte? In realtà, atti di eutanasia attiva risultano documentati dallo studioso Franco Fresi e in particolare dal medico legale e antropologo criminale Alessandro Bucarelli, e vengono considerati come ultime manifestazioni dell’accabadora, arrivando addirittura fino alla metà del Novecento[3],[4].
Tra i vari elementi che ricorrono spesso nei racconti sull’accabadora c’è lo jualeddu (con le varianti juale, jale, juvale), cioè il giogo di un aratro o di un carro in miniatura, che sarebbe stato messo sotto il cuscino del moribondo per abbreviarne le sofferenze. Si credeva infatti che quel dolore interminabile fosse dovuto a qualche grave torto commesso in passato. Nel contesto di una cultura tipicamente rurale e contadina, la colpa poteva essere quella di avere, appunto, rubato o distrutto un giogo agricolo altrui.
Fra le pareti del Museo sono custoditi oltre 7000 oggetti tradizionali datati dalla fine del '400 alla prima metà del '900 © Museo Galluras
Già l’abate V. Angius affermava che questo oggetto di legno venisse considerato il rimedio maggiore per metter fine alle pene di un moribondo. Monsignor Masia, ex parroco di Sedilo e Sindia, verso gli anni ’80 confidò alla studiosa di tradizioni popolari sarde Dolores Turchi di aver trovato svariate volte il giogo sotto il cuscino del morente durante il rito dell’estrema unzione[5]. Alcune versioni dicono, però, che prima del contatto con la nuca lo jualeddu venisse passato lentamente sulle gambe, sul petto, sino a raggiungere la testa, mentre venivano recitati i brebus col fine di “alleviare la sua coscienza dalla colpa che gli impediva di morire in pace”. È interessante notare che tradizioni simili a quelle relative allo jualeddu si trovano anche in molte regioni italiane e persino in Francia.
In molti paesi della Sardegna si diceva che su juale fosse usato anche per facilitare il parto e che lo si mettesse sotto il letto o dietro la porta per proteggere i bambini dalla sùrbile, la strega-vampiro delle leggende sarde. È evidente la valenza sacra e apotropaica, in particolare nel periodo della nascita e della morte degli individui. Non di rado, infatti, viene raccontato che l’accabadora facesse anche la levatrice. Insomma, una donna esperta nel far nascere e nel far morire, conoscitrice di rimedi tradizionali, di erbe officinali: una curatrice, addetta a far terminare qualunque tipo di dolore, con le buone o con le cattive.
Lo studio anatomo-patologico del giogo come possibile “oggetto letale” è stato condotto da vari studiosi. Si ipotizza che, una volta posto sotto la nuca (senza il cuscino), servisse a ledere la seconda vertebra cervicale grazie a un colpo sulla fronte del malato con una mano, causando in genere la morte.
Pier Giacomo Pala, cultore e appassionato di tradizioni popolari, custodisce e mette in mostra nel suo Museo Etnografico Galluras quello che ritiene sia l’unico e ultimo esemplare di matzolu, il martello dell’accabadora, trovato dopo svariati anni di ricerche nascosto in un muretto a secco in prossimità della casa di una levatrice che si dice facesse anche l’accabadora. Purtroppo, però, trovare questa mazza di legno in una vecchia casa sarda non prova l’esistenza dell’accabadora, in quanto in passato era un comune strumento utilizzato dalle donne per battere i panni da lavare. Il termine matzoccare o a(m)matzoccai significa non a caso “battere i panni da lavare con la mazza di legno”.
Ma vale lo stesso anche per il ritrovamento più recente di una matzocca con tracce di sangue umano? È il tema affrontato nell’intervista a Roberto Demontis (vedi pagine seguenti) che, insieme ad altri tre dottori appassionati di tradizioni sarde, ha ritrovato e analizzato questo e altri oggetti con i più moderni metodi di medicina forense, e ha raccontato a Query i risultati delle loro analisi e le ipotesi che suggeriscono.
Gli studi di Demontis e colleghi farebbero pensare che finalmente si sia trovata “la pistola fumante”. Peccato però che le dicerie, e persino questi stessi studiosi, siano concordi sul fatto che l’accabadora agisse evitando di lasciare tracce.
Negli ultimi anni questa figura misteriosa è diventata nota anche fuori dall'isola in particolare grazie a un libro e a un film. Il libro è il romanzo Accabadora del 2009, di Michela Murgia, che immerge il lettore nella società sarda degli anni '50, spingendolo a fare profonde riflessioni sul tema etico dell'eutanasia.
Il film è L’Accabadora (2015) del regista Enrico Pau, in cui i temi dell'eutanasia e della guerra, vissuti nella Cagliari degli anni ’40, vengono trattati in modo particolarmente drammatico e ieratico soprattutto per via del peso che l'accabadora protagonista dell’opera trascina con sé.
La forte identitarietà sarda porta chi è dell’isola a propendere a credere all’esistenza di tutto ciò che fa parte delle tradizioni e delle leggende antiche o moderne. Dietro a questo c’è sicuramente un bias di conferma ma, a causa dello stereotipo che ha rappresentato a lungo i sardi come ignoranti e pastori di pecore, probabilmente c’è anche il pressante bisogno di sentirsi ascoltati e rivalutati. Per fare un’indagine scientifica però bisogna mettere da parte le opinioni e i propri desideri. Pertanto, finché le indagini porteranno a indizi supportati solamente da ipotesi e interpretazioni teoriche, non possiamo dire che ci siano prove inconfutabili e inequivocabili che dimostrino che le accabadore siano effettivamente esistite.
C’è chi ipotizza che la difficoltà di dimostrarne l’esistenza potrebbe essere dovuta al fatto che, benché le loro pratiche fossero note a tutti, allo stesso tempo dovevano essere segrete per tutti perché non accettate né dalla religione né dalla legge. Ma finché non avremo prove valide e definitive, l’unica cosa che possiamo affermare è che questa è una delle tante storie misteriose e affascinanti legate a riti antichi rimasti in una terra in grado di conservare echi di tradizioni millenarie.
Note
1) F. Alziator, 2005. Il folklore sardo, Zonza.
2) I. Bussa, 2015. L’accabadora immaginaria. Una rottamazione del mito, Edizioni della Torre.
3) D. Turchi, 2008. Ho visto agire s’accabadora, Iris.
4) A. Bucarelli, C. Lubrano, 2003. Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa Femmina Accabbadòra. Usi, costumi e tradizioni attorno alla morte in Sardegna, Scuola Sarda.
5) D. Turchi, 1992. Lo sciamanesimo in Sardegna, Newton Compton Editori.
Una scoperta sorprendente - Intervista a Roberto Demontis
Roberto Demontis, di professione medico legale, è uno degli autori di Accabadora mito e realtà (Isolapalma Ed., 2021), il libro che ricostruisce il ritrovamento e la successiva analisi di alcuni oggetti che potrebbero essere appartenuti a un’accabadora ancora attiva circa un secolo fa.
Insieme ad altri tre medici – Aldo Cinus, Augusto Marini e Mariano Staffa – lei ha svolto un’indagine su alcuni oggetti la cui proprietà sembra riconducibile alla controversa figura di un’accabadora. Di che oggetti si tratta?
Il primo è una mazzocca, un ciocco di legno con presenza di macchie di sangue. Poi c’è un pezzo di legno intagliato, reso molto simile a un coltello, avvolto con dei ritagli di giornale e chiuso con uno spago di fibra vegetale. Attorno c’era un rosario con dei vaghi di legno, una crocetta e una medaglia della Madonna della Medaglia Miracolosa. Accanto a questo reperto c’era un foglio in cui erano scritti a matita nove nomi sardi, a fianco di ognuno dei quali è riportato il numero 1. C’era anche una monetina di rame con la figura di Vittorio Emanuele III e nel retro un’ape. Infine, c’era un dente che si è rivelato essere un primo molare dell’arcata inferiore sinistra. I fogli di giornale erano di chiaro stampo religioso. La data presente era 1925, 1926, quindi stiamo parlando di reperti di circa 100 anni fa.
Come avete ritrovato questi oggetti?
La mazzocca con le tracce di sangue era stata data in dono al dottor Augusto Marini da un suo paziente. Qualche mese dopo l’esito delle analisi di questo reperto, siamo andati a vedere di persona il sito in cui era stato trovato, cioè un incavo in un muro di pietra di una vecchia casa. Nella nicchia c’erano però anche altri reperti. Così con l’aiuto di mia figlia abbiamo documentato e fotografato tutto accuratamente. Il fatto di aver rinvenuto tutti questi oggetti insieme nello stesso sito e di aver trovato inoltre l’unica mazzocca esistente che presenti tracce di sangue, credo che sia una testimonianza forte a favore del fatto che l’accabadora sia esistita veramente.
Che tipo di analisi avete condotto e con quali risultati?
Io mi sono occupato della parte tecnica e di quelle che dovevano essere le modalità lesive. È cominciato tutto quando Augusto Marini mi ha chiamato e mi ha detto che aveva con sé un oggetto con probabili tracce scure di sangue. Gli ho risposto di portarlo pure da me all’Istituto di medicina legale di Cagliari per poterlo esaminare.
Quando mi è stata data la mazzocca da analizzare, ho notato la presenza di tracce con le caratteristiche di colatura che andavano dal battente verso la parte centrale del braccio corto della mazzocca, e una formazione pilifera bianca. Abbiamo proceduto agli esami, prima con una prova generica di sangue che ha dato esito positivo. Questo però ci indicava solo che poteva essere materiale ematico. A quel punto ho coinvolto anche i miei colleghi genetisti per saperne di più. È emerso che si trattava di sangue umano appartenuto a un soggetto di sesso maschile. Per noi è stata una notizia estremamente importante e affascinante.
I nove nomi scritti nel foglietto erano: Antiogu, Boricu, Pepanna, Mariedda, Nanni, Claudinu, Paulicu, Pieredu e Bisenti. Abbiamo fatto una verifica nell’archivio arcivescovile in cui sono registrati i decessi, i battesimi e le cresime e, per esempio, abbiamo individuato una sola Pepanna che viveva nello stesso luogo dell’accabadora che usava gli strumenti da noi ritrovati e proprio nel periodo in cui avrebbe agito. Ne abbiamo dunque dedotto che potesse essere un elenco delle persone a cui aveva dato la morte.
Il legnetto intagliato dovrebbe essere la cosiddetta misericordia, cioè una sorta di punteruolo che veniva infisso nella regione nucale e forse anche sospinto con la mazzocca. L’alternativa era s’ossu sanadore che era sostanzialmente un frammento d’osso appuntito. Entrambi avrebbero avuto la funzione di determinare una lesione a livello midollare. Se infisso nella parte alta della nuca dove ci sono i centri respiratori, i centri cardiocinetici, si sarebbe determinato un arresto cardiorespiratorio e poi il decesso.
L’obiettivo era quello di dare la morte ma senza creare delle lesioni che fossero visibili per esempio al sacerdote che andava a benedire la salma o alle persone che andavano a rendere omaggio al defunto. Dunque lesioni non evidenti e quindi lesioni non sanguinanti.
Ecco perché ritengo che la mazzocca possa essere stata utilizzata molto raramente e il sangue presente potrebbe essere riferito a uno di quei pochi casi. Certamente non si usava la mazzocca per colpire la regione frontale, dato che avrebbe provocato delle ferite lacerocontuse facilmente visibili. Piuttosto, poteva essere utilizzata per esempio colpendo le regioni laterali del collo dove ci sono i glomi carotidei, che sono dei recettori sensibili all’aumento di pressione. Un colpo a quel livello avrebbe dato un arresto cardiaco immediato per stimolazione vagale e poi quindi la morte.
Anche l’uso della mazzocca per conficcare sa misericordia era residuale poiché avrebbe portato lesioni sanguinanti. Il suo utilizzo lo reputo più probabile sugli infanti. Dando un colpo nella regione dello sterno, cioè sostanzialmente al centro del torace, si sarebbe ottenuto quel meccanismo che viene descritto in letteratura come commotio cordis, cioè una contusione a livello cardiaco che provoca un’aritmia cardiaca e una fibrillazione ventricolare che può portare a morte. A quei tempi non esistevano i defibrillatori e quindi l’arresto cardiaco evolveva in maniera naturale.
A mio giudizio, però, la metodica a cui si ricorreva più frequentemente era il soffocamento col cuscino, che non lascia traccia, soprattutto se chi osserva il corpo non ha dimestichezza con l’esame dei cadaveri. Nessuno avrebbe pensato di andare a vedere se nel vestibolo orale (dentro la bocca) c’erano i segni della compressione dei denti contro la parte interna delle labbra. Tra l’altro molto spesso non risulta nemmeno questa dato che il mezzo è soffice. Teniamo inoltre presente che stiamo parlando di malati terminali che quindi non offrivano resistenza all’insulto traumatico. Quella che in realtà era una morte per asfissia poteva benissimo essere scambiata per una morte assolutamente naturale e quindi non traumatica. Vale lo stesso per il soffocamento con le mani andando a chiudere il naso e la bocca.
Un’altra modalità che non lasciava segni evidenti poteva essere quella con il giogo, su juale, che veniva messo dietro la nuca. Dando un colpo nella regione frontale si determinava un’iperestensione del collo con rottura del dente dell’epistrofeo. Questo però poteva non portare alla morte il soggetto ma piuttosto a una tetraparesi, cioè a una paralisi. Sottolineo che si tratta di ipotesi. Ho tentato di ricostruire le varie modalità grazie alle mie competenze.
Come scrivete nel vostro libro, voi ritenete plausibile che l’accabadora sia davvero esistita. Che idea si è fatto di questa persona?
I ritrovamenti portano in questa direzione, e devo ammettere che è stata un'esperienza veramente entusiasmante.
Secondo me l’accabadora era una donna animata da un grande senso di solidarietà sociale e da un grande sentimento di pietà, una donna religiosa, come dimostrano i frammenti di giornale trovati, ma probabilmente anche dedita a pratiche come sa mexina de s’ogu, cioè le pratiche sarde per togliere il malocchio.
Era una donna che dava la vita, perché molto spesso fungeva anche da ostetrica, ed era anche quella che toglieva la vita, ma come gesto di estrema pietà. Dava la morte ai malati terminali con l’intento di porre fine alle loro sofferenze oppure ai neonati malformati che in epoche antiche potevano essere un peso per la famiglia.
Se i vari oggetti ritrovati e da voi analizzati non fossero stati di un’accabadora, quale spiegazione alternativa se ne potrebbe dare?
Tutto porta a pensare che questi strumenti fossero di un’accabadora. Non vedo un’alternativa plausibile.
Le vostre indagini non si sono ancora concluse. Ci sono delle novità?
La perizia calligrafica che ho svolto sui nove nomi rivela che sono stati scritti dalla medesima persona.
Con l’analisi del DNA il dente rinvenuto risulta essere appartenuto a un soggetto umano di sesso maschile. Sulla base delle caratteristiche del dente il soggetto doveva avere un’età tra i 30 e i 40 anni. Il profilo genetico tuttavia non corrisponde a quello del sangue trovato sulla mazzocca.
Abbiamo promesso di mantenere l’anonimato sia su chi ci ha fornito i vari reperti sia sulla donna che li utilizzava, sebbene sia ormai già deceduta. Nessuno vuole problemi e nessuno vuole essere coinvolto in cose che dal punto di vista legale sono considerate a tutti gli effetti reati, tra l’altro non soggetti a prescrizione.
S’Accabadora Pianalzesa è una maschera moderna, mai attestata dalle fonti, creata nel 2019 da un gruppo di donne della Planargia per raffigurare simbolicamente questo misterioso personaggio femminile. L'accabadora indossa una maschera in cuoio che copre la bocca, il naso e la fronte, lasciando liberi solo gli occhi, e ha delle “pieghe” che rappresentano il fazzoletto usato dalle femmine accabadore per non farsi riconoscere. Sopra il vestito nero indossa sa mantedda, una mantellina di orbace nero con un cappuccio, su cuguddu; in mano stringe su mazzuccu, il martello di legno stagionato di olivastro con cui infliggere il colpo finale, e appeso alla vita un piccolo gioco, su jualeddu. Per illustrare le pratiche dell’accabadora, l'associazione ha elaborato una coreografia altamente simbolica con cui interviene a processioni ed eventi. Alla rappresentazione partecipano 11 donne, le accabadore, e un uomo, s'accabau, cioè il moribondo. Quest'ultimo è vestito di bianco, ha il volto completamente nascosto da una maschera color legno e porta sulle spalle un vero giogo che rappresenta la sofferenza da cui sarà liberato quando l’accabadora lo colpisce.
Per contatti e informazioni: https://tinyurl.com/zrawrdup .
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