In un libro del 2007[1] Anabela Carvalho, ricercatrice in Comunicazione della Scienza all’Università di Minho in Portogallo, ha raccolto una serie di ricerche originali per dare un quadro del ruolo che la comunicazione pubblica ha avuto e ha ancora nella percezione dei cambiamenti climatici.
Nel caso degli argomenti scientifici, gli studi hanno dimostrato che il ruolo dei media è tanto più importante quanto meno dirette e tangibili sono le implicazioni di quel determinato argomento. Quando si parla di farmaci, ad esempio, la maggioranza delle persone ne ha un’esperienza diretta e riesce a percepire l’importanza di una determinata scoperta scientifica indipendentemente dall’enfasi data dai media. Quando invece si parla di riscaldamento globale, pochissimi ne hanno un’idea concreta e precisa e quindi tutte le informazioni che hanno a disposizione sono quelle che arrivano dai mezzi di comunicazione.
Inoltre, televisioni e giornali hanno un ruolo fondamentale nel dettare gli argomenti di “tendenza”. Gli autori di un lavoro pubblicato nel libro di Carvalho affermano che i media non possono dirci cosa pensare ma possono decidere a cosa noi dobbiamo pensare. Il caos climatico è al centro dell’interesse mediatico ormai da anni per diversi motivi che qui non abbiamo lo spazio di approfondire, ma che vanno dagli interessi economici in gioco, alle forze politiche coinvolte, alle ricadute sull’economia globale e tutto questo ha contribuito a dare una grossa importanza ad un problema (che c’è), ma che da solo non sarebbe stato in grado di sensibilizzare l’opinione pubblica.
Come viene comunicato il riscaldamento globale?
Dagli studi pubblicati sul libro di Carvalho emerge un identikit abbastanza preciso della comunicazione in tema di cambiamento climatico.
Il primo punto, evidente anche ai non esperti, è la presenza nei media delle “due voci”: per una sorta di par condicio, infatti, si tende a dar lo stesso peso ai sostenitori della teoria del riscaldamento globale di origine antropica e ai suoi detrattori. Come ci è già capitato di dire più volte sulle pagine di Scienza&Paranormale, questo atteggiamento molto diffuso è, dal punto di vista della comunicazione, abbastanza scorretto, poiché scientificamente le due voci non hanno lo stesso peso. Ma quello che preoccupa di più è che questo atteggiamento di fatto contribuisce ad aumentare l’incertezza: passa il messaggio che la scienza è divisa e il risultato è una crescita della confusione su un tema già di per sé complesso.
Il secondo punto che emerge è l’eccessiva enfasi data ad alcuni aspetti dell’argomento. Questo è, di nuovo, un atteggiamento che al CICAP conosciamo bene e in parte coinvolge il punto precedente. Ad un certo tipo di giornalismo dei giorni nostri lo scontro piace e questo viene spesso sottolineato dando maggiore spazio a personaggi scontrosi: un dibattito tra Pier Giorgio Odifreddi e Antonio Zichichi fa molta più audience di uno fra Piero Angela e Monsignor Ravasi, anche se gli argomenti possono essere gli stessi. E allo stesso modo si predilige un linguaggio duro, fatto di giudizi trancianti, per cui da una parte i climatologi vengono definiti “catastrofisti” e dall’altra invece si parla di “negazionisti” e così via a suon di insulti e affermazioni esagerate. O addirittura si arriva alla banalizzazione del problema, cavalcando a seconda della “parrocchia” di appartenenza nevicate straordinarie, estati torride e straripamenti di fiumi per affermare che il Pianeta si sta evidentemente surriscaldando, oppure l’esatto contrario.
E proprio parlando di esagerazioni arriviamo all’enfasi eccessiva data ad alcuni aspetti del cambiamento climatico e della quale sono responsabili in gran parte l’IPCC, gli scienziati e anche Al Gore.
Pensando di riuscire a sensibilizzare meglio l’opinione pubblica sul tema, nel corso degli ultimi anni sono state fatte affermazioni (alcune delle quali “smontate” da Gianni Comoretto nel suo articolo sulle bufale) decisamente sopra le righe. Sempre nel libro di Carvalho troviamo uno studio nel quale sono stati esaminati tutti i rapporti dell’IPCC e il risultato è abbastanza esplicativo: vi è una netta preponderanza di termini come catastrofe, paura, disastro e morte. Il tono allarmistico di certi comunicati, i titoli catastrofici di molti articoli e le immagini di città sommerse dalle acque hanno prodotto però esattamente il risultato opposto a quello atteso, per due motivi. Il primo, semplice, è perché alla fine i nodi vengono al pettine (e il Climategate ne è un esempio) e le esagerazioni, se ci sono, vengono scoperte, causando un calo di fiducia nell’opinione pubblica preoccupante.
Il secondo motivo chiama in causa la psicologia, infatti, secondo gli psicologi quando le persone si trovano ad avere a che fare con problemi grandi ma risolvibili sono molto più motivate a cambiare atteggiamento per cercare di risolverli, rispetto a quando vengono messe di fronte ad una catastrofe imminente. Il pensiero, banalizzando, è un po’ quello del “è un problema troppo grande e io da solo non posso far niente”, con il risultato che si allontanano le persone dal problema.
In un recente lavoro pubblicato da Observa[2] si possono misurare le conseguenze di questa strategia comunicativa: negli ultimi anni la sensibilità dei cittadini italiani sul tema del clima si è ridotta notevolmente. Rispetto al 2007, i cittadini convinti che il clima stia effettivamente cambiando sono diminuiti dal 90% al 71,7%, anche se è raddoppiata la fiducia nei dati scientifici ed è diminuita l’incidenza delle organizzazioni ambientaliste nella percezione del problema. Come a dire che la comunicazione “urlata” deve in qualche modo essere sostituita con quella “ragionata”.
Nel caso degli argomenti scientifici, gli studi hanno dimostrato che il ruolo dei media è tanto più importante quanto meno dirette e tangibili sono le implicazioni di quel determinato argomento. Quando si parla di farmaci, ad esempio, la maggioranza delle persone ne ha un’esperienza diretta e riesce a percepire l’importanza di una determinata scoperta scientifica indipendentemente dall’enfasi data dai media. Quando invece si parla di riscaldamento globale, pochissimi ne hanno un’idea concreta e precisa e quindi tutte le informazioni che hanno a disposizione sono quelle che arrivano dai mezzi di comunicazione.
Inoltre, televisioni e giornali hanno un ruolo fondamentale nel dettare gli argomenti di “tendenza”. Gli autori di un lavoro pubblicato nel libro di Carvalho affermano che i media non possono dirci cosa pensare ma possono decidere a cosa noi dobbiamo pensare. Il caos climatico è al centro dell’interesse mediatico ormai da anni per diversi motivi che qui non abbiamo lo spazio di approfondire, ma che vanno dagli interessi economici in gioco, alle forze politiche coinvolte, alle ricadute sull’economia globale e tutto questo ha contribuito a dare una grossa importanza ad un problema (che c’è), ma che da solo non sarebbe stato in grado di sensibilizzare l’opinione pubblica.
Come viene comunicato il riscaldamento globale?
Dagli studi pubblicati sul libro di Carvalho emerge un identikit abbastanza preciso della comunicazione in tema di cambiamento climatico.
Il primo punto, evidente anche ai non esperti, è la presenza nei media delle “due voci”: per una sorta di par condicio, infatti, si tende a dar lo stesso peso ai sostenitori della teoria del riscaldamento globale di origine antropica e ai suoi detrattori. Come ci è già capitato di dire più volte sulle pagine di Scienza&Paranormale, questo atteggiamento molto diffuso è, dal punto di vista della comunicazione, abbastanza scorretto, poiché scientificamente le due voci non hanno lo stesso peso. Ma quello che preoccupa di più è che questo atteggiamento di fatto contribuisce ad aumentare l’incertezza: passa il messaggio che la scienza è divisa e il risultato è una crescita della confusione su un tema già di per sé complesso.
Il secondo punto che emerge è l’eccessiva enfasi data ad alcuni aspetti dell’argomento. Questo è, di nuovo, un atteggiamento che al CICAP conosciamo bene e in parte coinvolge il punto precedente. Ad un certo tipo di giornalismo dei giorni nostri lo scontro piace e questo viene spesso sottolineato dando maggiore spazio a personaggi scontrosi: un dibattito tra Pier Giorgio Odifreddi e Antonio Zichichi fa molta più audience di uno fra Piero Angela e Monsignor Ravasi, anche se gli argomenti possono essere gli stessi. E allo stesso modo si predilige un linguaggio duro, fatto di giudizi trancianti, per cui da una parte i climatologi vengono definiti “catastrofisti” e dall’altra invece si parla di “negazionisti” e così via a suon di insulti e affermazioni esagerate. O addirittura si arriva alla banalizzazione del problema, cavalcando a seconda della “parrocchia” di appartenenza nevicate straordinarie, estati torride e straripamenti di fiumi per affermare che il Pianeta si sta evidentemente surriscaldando, oppure l’esatto contrario.
E proprio parlando di esagerazioni arriviamo all’enfasi eccessiva data ad alcuni aspetti del cambiamento climatico e della quale sono responsabili in gran parte l’IPCC, gli scienziati e anche Al Gore.
Pensando di riuscire a sensibilizzare meglio l’opinione pubblica sul tema, nel corso degli ultimi anni sono state fatte affermazioni (alcune delle quali “smontate” da Gianni Comoretto nel suo articolo sulle bufale) decisamente sopra le righe. Sempre nel libro di Carvalho troviamo uno studio nel quale sono stati esaminati tutti i rapporti dell’IPCC e il risultato è abbastanza esplicativo: vi è una netta preponderanza di termini come catastrofe, paura, disastro e morte. Il tono allarmistico di certi comunicati, i titoli catastrofici di molti articoli e le immagini di città sommerse dalle acque hanno prodotto però esattamente il risultato opposto a quello atteso, per due motivi. Il primo, semplice, è perché alla fine i nodi vengono al pettine (e il Climategate ne è un esempio) e le esagerazioni, se ci sono, vengono scoperte, causando un calo di fiducia nell’opinione pubblica preoccupante.
Il secondo motivo chiama in causa la psicologia, infatti, secondo gli psicologi quando le persone si trovano ad avere a che fare con problemi grandi ma risolvibili sono molto più motivate a cambiare atteggiamento per cercare di risolverli, rispetto a quando vengono messe di fronte ad una catastrofe imminente. Il pensiero, banalizzando, è un po’ quello del “è un problema troppo grande e io da solo non posso far niente”, con il risultato che si allontanano le persone dal problema.
In un recente lavoro pubblicato da Observa[2] si possono misurare le conseguenze di questa strategia comunicativa: negli ultimi anni la sensibilità dei cittadini italiani sul tema del clima si è ridotta notevolmente. Rispetto al 2007, i cittadini convinti che il clima stia effettivamente cambiando sono diminuiti dal 90% al 71,7%, anche se è raddoppiata la fiducia nei dati scientifici ed è diminuita l’incidenza delle organizzazioni ambientaliste nella percezione del problema. Come a dire che la comunicazione “urlata” deve in qualche modo essere sostituita con quella “ragionata”.
Gli italiani pensano che il clima stia cambiando? Perchè? Fonte: M. Bucchi, F. Neresini, Annuario Scienza e Società 2010. Bologna: Il Mulino (2010)
Note
1) Reperibile in formato elettronico qui: http://www.lasics.uminho.pt/ojs/index.php/climate_change
2) Italiani meno sensibili ai mutamenti del clima, ma cresce la rilevanza dei dati scientifici, Osservatorio Scienza e Società, http://www.observa.it