La rappresentazione che abbiamo di un oggetto ci dice più cose su di noi che sulla realtà di quell’oggetto. Questa idea, proposta dallo psicologo sociale francese Serge Moscovici nel discutere la sua teoria delle rappresentazioni sociali, si adatta bene al tema di questo articolo, che si occupa di rappresentazioni della natura. Come vedremo, infatti, indipendentemente dalla diversità delle prospettive con cui la questione può essere affrontata nell’ambito delle scienze psico-sociali, tutte queste prospettive concordano nel mostrare come tali rappresentazioni dipendano in maniera rilevante dal soggetto, individuale o collettivo, che le elabora. In questo senso, guardare alla nostra idea di natura ci aiuta più in generale a capire noi stessi, in particolare come costruiamo il pensiero sociale relativamente a un oggetto con cui ci relazioniamo.
Le persone che preferiscono i prodotti presentati con l'etichetta “naturale” vivono un tempo particolarmente felice se consideriamo l’ampia disponibilità di merci e di servizi che soddisfano questa esigenza. L'uso diffuso del termine nel marketing, pur in mancanza di una definizione condivisa di cosa significhi naturale, suggerisce che offre un vantaggio commerciale. E in effetti, alcune ricerche hanno dimostrato che le persone sono disposte a pagare un po’ di più un prodotto che si presenta come “naturale”. Più in generale, negli ultimi decenni molti studi hanno dimostrato che abbiamo una tendenza ad associare naturalezza e bontà in un'ampia varietà di ambiti tra cui, per esempio, l’illuminazione, il cibo, i cosmetici, la medicina.
Questa associazione può essere considerata indicativa dell’utilizzo di un’euristica, una strategia di ragionamento semplificato che ci consente di produrre in tempi rapidi, e con pochi dati a disposizione, un giudizio circa un oggetto sociale. Le euristiche sono usate in particolare nelle situazioni in cui abbiamo una limitata conoscenza di un oggetto/problema o siamo poco interessati a occuparcene e ci aiutano a portare a termine il nostro compito in un modo che, in generale, produce risultati sufficientemente adeguati. D’altra parte, in quelle situazioni non avremmo il tempo, la competenza o la motivazione per approfondire la questione su cui dobbiamo decidere e quindi le euristiche ci offrono un valido aiuto.
Per capirci su questo punto importante, dato che ci riguarda tutti, basti pensare a una situazione molto concreta. Siamo di fronte a uno scaffale di supermercato per comprare un detersivo per capi delicati colorati e non l’abbiamo mai fatto prima. La lettura degli ingredienti che compongono ciascuno dei numerosi prodotti di fronte a noi sarebbe un inutile dispendio di tempo in relazione alla limitata portata del compito. E sarebbe, per la gran parte di noi che non abbiamo le competenze chimiche necessarie, del tutto improduttiva. Dobbiamo quindi necessariamente utilizzare un’euristica per scegliere. C’è chi compra il prodotto più caro sulla base dell’euristica secondo cui “se costa un po’ di più, probabilmente vale un po’ di più”, chi compra quello della stessa marca che usa abitualmente per lavare capi bianchi sulla base di un’euristica di familiarità, chi si fa consigliare da una persona che considera esperta usando quindi l’euristica della fonte credibile, e chi compra il detersivo sulla cui etichetta legge “naturale” pensando che sarà un prodotto migliore di altri proprio per questa sua caratteristica. Nessuna di queste scelte è classificabile come irrazionale o sbagliata, si tratta semplicemente di un modo rapido, e tendenzialmente adeguato, di risolvere un problema.
Proprio l’utilizzo di euristiche, in quanto strategie semplificate, conduce però anche a commettere degli errori, i noti bias di ragionamento, quando porta a percepire sistematicamente gli oggetti naturali come migliori, più sani e più sicuri dei loro equivalenti prodotti dall’attività umana. E infatti sappiamo che le persone tendono a sovrastimare il pericolo legato a disastri provocati dall’uomo come gli incidenti nucleari, rispetto ai disastri naturali come le inondazioni, e gli studi dimostrano che circa l’80% dei rispondenti dichiara di preferire una medicina descritta come di origine naturale a una descritta come sintetica anche se è stato chiarito che sono egualmente efficaci e sicure. Quel che evidenzia più chiaramente l'errore è che una minoranza non irrilevante di partecipanti dichiara di preferire il farmaco di origine naturale anche se è stato loro detto che è meno sicuro o meno efficace. Non abbiamo bisogno di andare a cercare fuori da noi, o in qualche nostra mancanza, questi errori: possono essere considerati l’effetto collaterale negativo di un modo condiviso di comprendere il mondo intorno che necessariamente si avvale di euristiche.
Roberto Cubelli e Sergio Della Sala in un articolo pubblicato proprio su Query (n. 49) hanno però chiaramente evidenziato che i bias di ragionamento non costituiscono la spiegazione di un fenomeno, ma sono qualcosa che a sua volta necessita di una spiegazione. Quando diciamo “tizio ragiona male perché usa un bias”, ci sembra di aver dato una spiegazione, ma in effetti abbiamo solo descritto un funzionamento. Il problema resta quindi aperto, e in questo caso possiamo definirlo così: perché esiste un bias favorevole alla natura? E qui le cose sono molto meno chiare.
Una premessa importante: la letteratura scientifica in questo ambito è ancora recente e risente di alcuni limiti. Per esempio, in gran parte dei casi le ricerche misurano intenzioni e non comportamenti effettivi, per cui non sappiamo se le scelte di acquisto o di utilizzo dichiarate dalle persone si tradurranno davvero in atti. Fatta questa precisazione, vediamo quali sono le ipotesi sin qui emerse circa l’origine del bias.
Le ricerche indicano che la preferenza per ciò che è naturale deriva da ragioni sia strumentali sia ideologiche. Le ragioni strumentali si osservano quando gli individui attribuiscono una superiorità funzionale alle entità naturali. Per esempio, le persone possono ritenere che gli alimenti naturali abbiano un sapore migliore, siano più nutrienti, più sicuri, più freschi e più sani e abbiano un minore impatto ambientale rispetto alle controparti artificiali chimicamente equivalenti. Le ragioni ideologiche riguardano la percezione di una superiorità morale o estetica innata in ciò che è naturale. Il naturale in questi casi è visto come puro e spirituale; evoca immagini sentimentali e pastorali di un'epoca precedente alla contaminazione umana; e semplicemente “sembra giusto”. Entrambe queste tipologie di credenze (strumentale e ideologica) contribuiscono alla preferenza degli individui per il naturale. Resta però da capire perché si svilupperebbero queste credenze.
Una prima ipotesi ha a che fare con l’esperienza diretta. Le persone potrebbero aver sperimentato che una serie di azioni realizzate in un contesto di contatto con la natura, come correre in un bosco, sono più gradevoli che in un contesto artificiale, come una palestra. Da qui potrebbero inferire una maggior gradevolezza della natura in sé. Si tratta di una modalità fondamentale di formazione degli atteggiamenti attraverso il contatto diretto con l’oggetto. Non abbiamo mai provato un cibo tailandese e quando lo facciamo scopriamo che ci piace molto. Tendenzialmente si forma un atteggiamento favorevole nei confronti di quell’oggetto, che ci porterà a ripetere quell’esperienza e magari a provare altri cibi della stessa cucina. Se anche queste nuove esperienze saranno coerenti con la prima, allora il nostro atteggiamento tenderà a generalizzarsi: siamo amanti della cucina tailandese, di cui, diciamo agli altri, “ci piace tutto” (anche se ovviamente così non è, e d’altra parte non abbiamo in effetti provato tutto). Una seconda ipotesi ritiene che l’origine di questa euristica risieda nei processi evolutivi delle specie umane. Alcune teorie sottolineano infatti non soltanto lo stretto contatto ma la dipendenza dei nostri antenati dalla natura per tutto ciò che garantiva la sopravvivenza, il che spiegherebbe la nostra innata attrazione per ciò che è naturale.
Entrambe queste ipotesi ci aiutano a comprendere alcune evidenze presenti nella letteratura scientifica. Per esempio, alcuni studi mostrano che trascorrere del tempo all’aria aperta in ambienti naturali produce benefici fisiologici, emotivi e cognitivi, ma anche che la semplice visione di immagini della natura o il ripensare a esperienze passate in natura può favorire il recupero dallo stress e aumentare il livello di funzionamento cognitivo.
Una terza ipotesi si concentra sui processi di socializzazione e cioè considera il fatto che un’altra modalità fondamentale di formazione di atteggiamenti e credenze è l’esposizione a fonti diverse: i genitori, gli amici, il sistema dei media. In questo caso l’idea è che il contatto con l’oggetto è mediato da altri, il cui punto di vista, nelle diverse fasi della nostra vita, ha un'influenza differente sulla formazione dei nostri atteggiamenti. Per cui l’essere esposti a una pluralità di fonti che sostengono le credenze strumentali e ideologiche citate sopra tende di per sé a favorire il formarsi di una analoga convinzione in noi.
Dovrebbe essere chiaro che queste tre ipotesi non sono alternative, ma concorrono nel cercare di spiegare l’origine di quelle credenze. La terza ipotesi però, a differenza delle prime due, colloca l’origine di quelle credenze non in una relazione diretta tra l’individuo e l’oggetto, ma in una prospettiva più ampia, nella quale gioca un ruolo fondamentale il contesto in cui vive l’individuo. In questa logica possiamo provare allora a considerare un modo diverso di guardare alla questione.
«Se fosse possibile dire: qui finisce l’individuo e qui comincia la società tutto sarebbe semplice» scrive Moscovici, riferendosi al carattere inestricabilmente sociale della nostra relazione con il mondo e con gli oggetti che lo abitano. Se assumiamo questa prospettiva, allora diventa interessante guardare alle rappresentazioni della natura come a un costrutto culturale che viene elaborato collettivamente da una comunità per definire come comportarsi e per comunicare, e che costituisce il senso comune relativo a quell’oggetto al quale gli individui sono gradualmente socializzati.
Questa prospettiva consente di cogliere alcune nuove dimensioni che possono arricchire il nostro discorso. In primo luogo osserviamo che culture diverse hanno espresso differenti modalità di concettualizzare la natura e le relazioni con essa. Per esempio, in culture animiste le persone non solo attribuivano comunemente disposizioni e comportamenti umani a piante e animali, ma spesso includevano nel campo degli organismi viventi anche minerali, artefatti, spiriti e mostri.
Una diversa modalità di identificazione, a noi più familiare, è il naturalismo, cioè la convinzione che la natura esista, che certe cose debbano la loro esistenza e il loro sviluppo a un principio estraneo sia al caso che agli effetti della volontà umana. Secondo l’antropologo francese Philippe Descola, il naturalismo, tipico delle cosmologie occidentali a partire da Platone e Aristotele, ha creato uno specifico dominio, la natura appunto per come la intendiamo, un luogo di ordine e necessità dove nulla accade senza una ragione o una causa, sia essa proveniente da Dio o immanente al mondo stesso (“le leggi della natura”). Poiché il naturalismo è la nostra modalità di identificazione e permea il nostro senso comune e la nostra pratica scientifica, è diventato per noi un presupposto ovvio che struttura il nostro modo di vedere le cose, ma appunto ciò non ne determina l’universalità o la necessaria stabilità. Possiamo inoltre osservare che anche all’interno di una stessa cultura le idee relative alla natura sono articolate e complesse. Per esempio, alcune ricerche mostrano che, anche se l'importanza della conservazione della natura è un principio generalmente riconosciuto, esso è declinato diversamente in termini morali in relazione a diverse rappresentazioni della natura. Una rappresentazione della natura centrata sul suo carattere “selvaggio” (per esempio l’idea che la vera natura è costituita dalle foreste primordiali) si basa sul valore eco-centrico della natura, mentre una centrata sui suoi caratteri estetici e funzionali («quando penso alla natura mi viene in mente l’acqua dei fiumi che ci garantisce la sopravvivenza») si basa su un valore antropocentrico. Oltre a questi valori eco-centrici e antropocentrici, quelle ricerche hanno rilevato la presenza di valori biocentrici, che sostengono cioè il valore intrinseco della natura, da proteggere indipendentemente dai suoi valori utilitaristici. Mentre il valore eco-centrico della natura si concentra su concetti come habitat o specie, quello biocentrico si concentra sul benessere individuale di piante e animali ed è legato al valore della protezione dei singoli esseri viventi.
A un livello contestuale, che cerca di cogliere i nessi tra i sistemi di rappresentazione di un oggetto e l’insieme di pratiche di vita in cui tali rappresentazioni vengono elaborate, possiamo anche rilevare la variabilità delle rappresentazioni della natura, ancora una volta in una prospettiva che ne sottolinea il carattere non universale.
È quanto emerge in studi che hanno per esempio indagato se il tipo di esperienze quotidiane dei bambini influenzano la loro concettualizzazione del mondo naturale. Per farlo hanno confrontato bambini che vivono in un'area urbana, e che quindi fanno esperienze di natura “curata” come quella dei parchi, oppure in un'area rurale di montagna o in un’area rurale agricola. Questi tipi di esperienza sono infatti resi diversamente possibili in relazione al contesto socioculturale in cui i bambini vivono. Emerge qui, per esempio, che i bambini di città sono più propensi a nominare elementi non naturali quando descrivono cos’è la natura («È qualcosa che non è stato fatto dall'uomo»; «Penso agli animali, alle piante, agli insetti, all'aria pulita e, soprattutto, alla tranquillità di essere lontano da tutto ciò che è legato al fumo delle macchine») rispetto ai bambini delle zone montana e agricola, che non hanno chiamato in causa questa distinzione. I bambini delle aree agricole considerano la funzione ricreativa degli ambienti naturali insieme al ruolo che la natura ha per il sostentamento. D'altra parte, i bambini che vivono in montagna e in città sembrano avere un rapporto puramente ricreativo con la natura.
A questo stesso livello contestuale, altri studi hanno mostrato per esempio comportamenti che sembrano allontanarsi dal bias che abbiamo descritto nella prima parte dell’articolo. Per esempio, hanno indagato le mobilitazioni contro la creazione di parchi nazionali destinati a proteggere insediamenti naturali quando contrastavano con gli interessi di alcuni gruppi sociali, oppure hanno mostrato che le persone possono opporsi alla predisposizione di zone caratterizzate da una natura incontaminata e priva di specie non autoctone, preferendo invece una natura “artificiale” di prati su cui passeggiare e alberi da ammirare, indipendentemente dalla loro provenienza “naturale”.
Infine, la focalizzazione sulla dimensione culturale ci aiuta anche a evitare di attribuire spiegazioni semplici al comportamento degli altri - per esempio: le persone rifiutano una tecnologia che ha un impatto sulla natura perché hanno paura delle novità - o a giudicarlo negativamente riconducendolo all’ignoranza di chi lo mette in atto. E questo non per negare l’esistenza dell’ignoranza o della resistenza alle novità, ma per sostenere che per poterle identificare come le cause di quei fenomeni, questi vanno analizzati in profondità e nello specifico, evitando le generalizzazioni e le valutazioni a priori.
Per provare ad argomentare circa questo aspetto, faccio l'esempio dello studio della percezione pubblica delle biotecnologie. Si tratta di tecnologie rilevanti quando si parla di natura dato che i prodotti dell’ingegneria genetica sono degli artefatti e contemporaneamente sono versioni modificate di organismi naturali che tendiamo a considerare elementi immutabili nella struttura del mondo. Queste tecnologie rompono quindi i confini tradizionali tra natura e cultura, costituendo una sfida per il senso comune. In questo quadro, molte ricerche evidenziano una maggioritaria tendenza delle opinioni pubbliche occidentali a rifiutare i cibi geneticamente modificati, mentre l’atteggiamento nei confronti delle biotecnologie mediche appare diverso e maggiormente differenziato. Per esempio, i test genetici e la produzione di farmaci attraverso batteri geneticamente modificati sono considerati molto più positivamente degli xenotrapianti con organi geneticamente modificati di altre specie.
Il punto è che la medicina si distingue dalle applicazioni alimentari per tre aspetti. Il primo è che la medicina è l'esempio prototipico quando si pensa alla scienza, e che le cure mediche, con la ricerca che ne è alla base, costituiscono l'incontro più ravvicinato che una persona media ha con la scienza e le sue applicazioni. Di conseguenza, i progressi in campo medico, anche se prodotti dall'ingegneria genetica, tendono a essere percepiti come un esempio di scienza positiva. Il secondo aspetto è che l’esperienza con la medicina è molto meno frequente di quella con il cibo e che, mentre mangiare è normale, la malattia è sempre vissuta come una deviazione dalla norma. Pertanto, le persone si possono legittimamente considerare esperte nella preparazione e nel consumo di cibo, ma pensano di dover ricorrere all'esperienza dei medici nel campo della medicina. Allo stesso tempo, mentre le persone possono immaginare alternative agli alimenti e alle colture geneticamente modificate, quando si trovano di fronte a una malattia nella maggior parte dei casi non vedono alternative al rivolgersi ai medici e seguirne le indicazioni. La terza caratteristica distintiva è la promessa di aiuto in condizioni spiacevoli offerta dalla medicina. Per questa ragione, in campo medico le persone soppesano l'utilità rispetto ai costi sociali e morali anche se si tratta di operare “contro natura” o allontanandosi da essa. L'obiettivo di aiutare gli esseri umani a condurre una vita dignitosa e priva di sofferenze vale la pena di correre qualche rischio.
Come abbiamo visto, parlare di rappresentazioni della natura richiede di articolare un quadro ampio e sfaccettato, in cui dimensioni individuali, sociali e culturali sono tra loro intrecciate.
Proprio il riconoscimento di questa interazione tra fattori diversi può aiutare a capire che la varietà dell’esperienza umana e dei posizionamenti che le persone assumono nel mondo difficilmente può essere ricondotta a spiegazioni semplici ed universali. È invece importante riconoscere questa complessità anche nel dialogo con rappresentazioni diverse dalla nostra, se si vuole costruire un confronto, così da evitare che le persone si sentano non ascoltate e quindi poco comprese.
Naturale è bello, buono e anche sano:euristiche e bias
Le persone che preferiscono i prodotti presentati con l'etichetta “naturale” vivono un tempo particolarmente felice se consideriamo l’ampia disponibilità di merci e di servizi che soddisfano questa esigenza. L'uso diffuso del termine nel marketing, pur in mancanza di una definizione condivisa di cosa significhi naturale, suggerisce che offre un vantaggio commerciale. E in effetti, alcune ricerche hanno dimostrato che le persone sono disposte a pagare un po’ di più un prodotto che si presenta come “naturale”. Più in generale, negli ultimi decenni molti studi hanno dimostrato che abbiamo una tendenza ad associare naturalezza e bontà in un'ampia varietà di ambiti tra cui, per esempio, l’illuminazione, il cibo, i cosmetici, la medicina.
Questa associazione può essere considerata indicativa dell’utilizzo di un’euristica, una strategia di ragionamento semplificato che ci consente di produrre in tempi rapidi, e con pochi dati a disposizione, un giudizio circa un oggetto sociale. Le euristiche sono usate in particolare nelle situazioni in cui abbiamo una limitata conoscenza di un oggetto/problema o siamo poco interessati a occuparcene e ci aiutano a portare a termine il nostro compito in un modo che, in generale, produce risultati sufficientemente adeguati. D’altra parte, in quelle situazioni non avremmo il tempo, la competenza o la motivazione per approfondire la questione su cui dobbiamo decidere e quindi le euristiche ci offrono un valido aiuto.
Per capirci su questo punto importante, dato che ci riguarda tutti, basti pensare a una situazione molto concreta. Siamo di fronte a uno scaffale di supermercato per comprare un detersivo per capi delicati colorati e non l’abbiamo mai fatto prima. La lettura degli ingredienti che compongono ciascuno dei numerosi prodotti di fronte a noi sarebbe un inutile dispendio di tempo in relazione alla limitata portata del compito. E sarebbe, per la gran parte di noi che non abbiamo le competenze chimiche necessarie, del tutto improduttiva. Dobbiamo quindi necessariamente utilizzare un’euristica per scegliere. C’è chi compra il prodotto più caro sulla base dell’euristica secondo cui “se costa un po’ di più, probabilmente vale un po’ di più”, chi compra quello della stessa marca che usa abitualmente per lavare capi bianchi sulla base di un’euristica di familiarità, chi si fa consigliare da una persona che considera esperta usando quindi l’euristica della fonte credibile, e chi compra il detersivo sulla cui etichetta legge “naturale” pensando che sarà un prodotto migliore di altri proprio per questa sua caratteristica. Nessuna di queste scelte è classificabile come irrazionale o sbagliata, si tratta semplicemente di un modo rapido, e tendenzialmente adeguato, di risolvere un problema.
Proprio l’utilizzo di euristiche, in quanto strategie semplificate, conduce però anche a commettere degli errori, i noti bias di ragionamento, quando porta a percepire sistematicamente gli oggetti naturali come migliori, più sani e più sicuri dei loro equivalenti prodotti dall’attività umana. E infatti sappiamo che le persone tendono a sovrastimare il pericolo legato a disastri provocati dall’uomo come gli incidenti nucleari, rispetto ai disastri naturali come le inondazioni, e gli studi dimostrano che circa l’80% dei rispondenti dichiara di preferire una medicina descritta come di origine naturale a una descritta come sintetica anche se è stato chiarito che sono egualmente efficaci e sicure. Quel che evidenzia più chiaramente l'errore è che una minoranza non irrilevante di partecipanti dichiara di preferire il farmaco di origine naturale anche se è stato loro detto che è meno sicuro o meno efficace. Non abbiamo bisogno di andare a cercare fuori da noi, o in qualche nostra mancanza, questi errori: possono essere considerati l’effetto collaterale negativo di un modo condiviso di comprendere il mondo intorno che necessariamente si avvale di euristiche.
Roberto Cubelli e Sergio Della Sala in un articolo pubblicato proprio su Query (n. 49) hanno però chiaramente evidenziato che i bias di ragionamento non costituiscono la spiegazione di un fenomeno, ma sono qualcosa che a sua volta necessita di una spiegazione. Quando diciamo “tizio ragiona male perché usa un bias”, ci sembra di aver dato una spiegazione, ma in effetti abbiamo solo descritto un funzionamento. Il problema resta quindi aperto, e in questo caso possiamo definirlo così: perché esiste un bias favorevole alla natura? E qui le cose sono molto meno chiare.
Alle origini del bias
Una premessa importante: la letteratura scientifica in questo ambito è ancora recente e risente di alcuni limiti. Per esempio, in gran parte dei casi le ricerche misurano intenzioni e non comportamenti effettivi, per cui non sappiamo se le scelte di acquisto o di utilizzo dichiarate dalle persone si tradurranno davvero in atti. Fatta questa precisazione, vediamo quali sono le ipotesi sin qui emerse circa l’origine del bias.
Le ricerche indicano che la preferenza per ciò che è naturale deriva da ragioni sia strumentali sia ideologiche. Le ragioni strumentali si osservano quando gli individui attribuiscono una superiorità funzionale alle entità naturali. Per esempio, le persone possono ritenere che gli alimenti naturali abbiano un sapore migliore, siano più nutrienti, più sicuri, più freschi e più sani e abbiano un minore impatto ambientale rispetto alle controparti artificiali chimicamente equivalenti. Le ragioni ideologiche riguardano la percezione di una superiorità morale o estetica innata in ciò che è naturale. Il naturale in questi casi è visto come puro e spirituale; evoca immagini sentimentali e pastorali di un'epoca precedente alla contaminazione umana; e semplicemente “sembra giusto”. Entrambe queste tipologie di credenze (strumentale e ideologica) contribuiscono alla preferenza degli individui per il naturale. Resta però da capire perché si svilupperebbero queste credenze.
Una prima ipotesi ha a che fare con l’esperienza diretta. Le persone potrebbero aver sperimentato che una serie di azioni realizzate in un contesto di contatto con la natura, come correre in un bosco, sono più gradevoli che in un contesto artificiale, come una palestra. Da qui potrebbero inferire una maggior gradevolezza della natura in sé. Si tratta di una modalità fondamentale di formazione degli atteggiamenti attraverso il contatto diretto con l’oggetto. Non abbiamo mai provato un cibo tailandese e quando lo facciamo scopriamo che ci piace molto. Tendenzialmente si forma un atteggiamento favorevole nei confronti di quell’oggetto, che ci porterà a ripetere quell’esperienza e magari a provare altri cibi della stessa cucina. Se anche queste nuove esperienze saranno coerenti con la prima, allora il nostro atteggiamento tenderà a generalizzarsi: siamo amanti della cucina tailandese, di cui, diciamo agli altri, “ci piace tutto” (anche se ovviamente così non è, e d’altra parte non abbiamo in effetti provato tutto). Una seconda ipotesi ritiene che l’origine di questa euristica risieda nei processi evolutivi delle specie umane. Alcune teorie sottolineano infatti non soltanto lo stretto contatto ma la dipendenza dei nostri antenati dalla natura per tutto ciò che garantiva la sopravvivenza, il che spiegherebbe la nostra innata attrazione per ciò che è naturale.
Entrambe queste ipotesi ci aiutano a comprendere alcune evidenze presenti nella letteratura scientifica. Per esempio, alcuni studi mostrano che trascorrere del tempo all’aria aperta in ambienti naturali produce benefici fisiologici, emotivi e cognitivi, ma anche che la semplice visione di immagini della natura o il ripensare a esperienze passate in natura può favorire il recupero dallo stress e aumentare il livello di funzionamento cognitivo.
Una terza ipotesi si concentra sui processi di socializzazione e cioè considera il fatto che un’altra modalità fondamentale di formazione di atteggiamenti e credenze è l’esposizione a fonti diverse: i genitori, gli amici, il sistema dei media. In questo caso l’idea è che il contatto con l’oggetto è mediato da altri, il cui punto di vista, nelle diverse fasi della nostra vita, ha un'influenza differente sulla formazione dei nostri atteggiamenti. Per cui l’essere esposti a una pluralità di fonti che sostengono le credenze strumentali e ideologiche citate sopra tende di per sé a favorire il formarsi di una analoga convinzione in noi.
Dovrebbe essere chiaro che queste tre ipotesi non sono alternative, ma concorrono nel cercare di spiegare l’origine di quelle credenze. La terza ipotesi però, a differenza delle prime due, colloca l’origine di quelle credenze non in una relazione diretta tra l’individuo e l’oggetto, ma in una prospettiva più ampia, nella quale gioca un ruolo fondamentale il contesto in cui vive l’individuo. In questa logica possiamo provare allora a considerare un modo diverso di guardare alla questione.
Dagli individui alla cultura
«Se fosse possibile dire: qui finisce l’individuo e qui comincia la società tutto sarebbe semplice» scrive Moscovici, riferendosi al carattere inestricabilmente sociale della nostra relazione con il mondo e con gli oggetti che lo abitano. Se assumiamo questa prospettiva, allora diventa interessante guardare alle rappresentazioni della natura come a un costrutto culturale che viene elaborato collettivamente da una comunità per definire come comportarsi e per comunicare, e che costituisce il senso comune relativo a quell’oggetto al quale gli individui sono gradualmente socializzati.
Questa prospettiva consente di cogliere alcune nuove dimensioni che possono arricchire il nostro discorso. In primo luogo osserviamo che culture diverse hanno espresso differenti modalità di concettualizzare la natura e le relazioni con essa. Per esempio, in culture animiste le persone non solo attribuivano comunemente disposizioni e comportamenti umani a piante e animali, ma spesso includevano nel campo degli organismi viventi anche minerali, artefatti, spiriti e mostri.
Una diversa modalità di identificazione, a noi più familiare, è il naturalismo, cioè la convinzione che la natura esista, che certe cose debbano la loro esistenza e il loro sviluppo a un principio estraneo sia al caso che agli effetti della volontà umana. Secondo l’antropologo francese Philippe Descola, il naturalismo, tipico delle cosmologie occidentali a partire da Platone e Aristotele, ha creato uno specifico dominio, la natura appunto per come la intendiamo, un luogo di ordine e necessità dove nulla accade senza una ragione o una causa, sia essa proveniente da Dio o immanente al mondo stesso (“le leggi della natura”). Poiché il naturalismo è la nostra modalità di identificazione e permea il nostro senso comune e la nostra pratica scientifica, è diventato per noi un presupposto ovvio che struttura il nostro modo di vedere le cose, ma appunto ciò non ne determina l’universalità o la necessaria stabilità. Possiamo inoltre osservare che anche all’interno di una stessa cultura le idee relative alla natura sono articolate e complesse. Per esempio, alcune ricerche mostrano che, anche se l'importanza della conservazione della natura è un principio generalmente riconosciuto, esso è declinato diversamente in termini morali in relazione a diverse rappresentazioni della natura. Una rappresentazione della natura centrata sul suo carattere “selvaggio” (per esempio l’idea che la vera natura è costituita dalle foreste primordiali) si basa sul valore eco-centrico della natura, mentre una centrata sui suoi caratteri estetici e funzionali («quando penso alla natura mi viene in mente l’acqua dei fiumi che ci garantisce la sopravvivenza») si basa su un valore antropocentrico. Oltre a questi valori eco-centrici e antropocentrici, quelle ricerche hanno rilevato la presenza di valori biocentrici, che sostengono cioè il valore intrinseco della natura, da proteggere indipendentemente dai suoi valori utilitaristici. Mentre il valore eco-centrico della natura si concentra su concetti come habitat o specie, quello biocentrico si concentra sul benessere individuale di piante e animali ed è legato al valore della protezione dei singoli esseri viventi.
A un livello contestuale, che cerca di cogliere i nessi tra i sistemi di rappresentazione di un oggetto e l’insieme di pratiche di vita in cui tali rappresentazioni vengono elaborate, possiamo anche rilevare la variabilità delle rappresentazioni della natura, ancora una volta in una prospettiva che ne sottolinea il carattere non universale.
È quanto emerge in studi che hanno per esempio indagato se il tipo di esperienze quotidiane dei bambini influenzano la loro concettualizzazione del mondo naturale. Per farlo hanno confrontato bambini che vivono in un'area urbana, e che quindi fanno esperienze di natura “curata” come quella dei parchi, oppure in un'area rurale di montagna o in un’area rurale agricola. Questi tipi di esperienza sono infatti resi diversamente possibili in relazione al contesto socioculturale in cui i bambini vivono. Emerge qui, per esempio, che i bambini di città sono più propensi a nominare elementi non naturali quando descrivono cos’è la natura («È qualcosa che non è stato fatto dall'uomo»; «Penso agli animali, alle piante, agli insetti, all'aria pulita e, soprattutto, alla tranquillità di essere lontano da tutto ciò che è legato al fumo delle macchine») rispetto ai bambini delle zone montana e agricola, che non hanno chiamato in causa questa distinzione. I bambini delle aree agricole considerano la funzione ricreativa degli ambienti naturali insieme al ruolo che la natura ha per il sostentamento. D'altra parte, i bambini che vivono in montagna e in città sembrano avere un rapporto puramente ricreativo con la natura.
A questo stesso livello contestuale, altri studi hanno mostrato per esempio comportamenti che sembrano allontanarsi dal bias che abbiamo descritto nella prima parte dell’articolo. Per esempio, hanno indagato le mobilitazioni contro la creazione di parchi nazionali destinati a proteggere insediamenti naturali quando contrastavano con gli interessi di alcuni gruppi sociali, oppure hanno mostrato che le persone possono opporsi alla predisposizione di zone caratterizzate da una natura incontaminata e priva di specie non autoctone, preferendo invece una natura “artificiale” di prati su cui passeggiare e alberi da ammirare, indipendentemente dalla loro provenienza “naturale”.
Infine, la focalizzazione sulla dimensione culturale ci aiuta anche a evitare di attribuire spiegazioni semplici al comportamento degli altri - per esempio: le persone rifiutano una tecnologia che ha un impatto sulla natura perché hanno paura delle novità - o a giudicarlo negativamente riconducendolo all’ignoranza di chi lo mette in atto. E questo non per negare l’esistenza dell’ignoranza o della resistenza alle novità, ma per sostenere che per poterle identificare come le cause di quei fenomeni, questi vanno analizzati in profondità e nello specifico, evitando le generalizzazioni e le valutazioni a priori.
Per provare ad argomentare circa questo aspetto, faccio l'esempio dello studio della percezione pubblica delle biotecnologie. Si tratta di tecnologie rilevanti quando si parla di natura dato che i prodotti dell’ingegneria genetica sono degli artefatti e contemporaneamente sono versioni modificate di organismi naturali che tendiamo a considerare elementi immutabili nella struttura del mondo. Queste tecnologie rompono quindi i confini tradizionali tra natura e cultura, costituendo una sfida per il senso comune. In questo quadro, molte ricerche evidenziano una maggioritaria tendenza delle opinioni pubbliche occidentali a rifiutare i cibi geneticamente modificati, mentre l’atteggiamento nei confronti delle biotecnologie mediche appare diverso e maggiormente differenziato. Per esempio, i test genetici e la produzione di farmaci attraverso batteri geneticamente modificati sono considerati molto più positivamente degli xenotrapianti con organi geneticamente modificati di altre specie.
Il punto è che la medicina si distingue dalle applicazioni alimentari per tre aspetti. Il primo è che la medicina è l'esempio prototipico quando si pensa alla scienza, e che le cure mediche, con la ricerca che ne è alla base, costituiscono l'incontro più ravvicinato che una persona media ha con la scienza e le sue applicazioni. Di conseguenza, i progressi in campo medico, anche se prodotti dall'ingegneria genetica, tendono a essere percepiti come un esempio di scienza positiva. Il secondo aspetto è che l’esperienza con la medicina è molto meno frequente di quella con il cibo e che, mentre mangiare è normale, la malattia è sempre vissuta come una deviazione dalla norma. Pertanto, le persone si possono legittimamente considerare esperte nella preparazione e nel consumo di cibo, ma pensano di dover ricorrere all'esperienza dei medici nel campo della medicina. Allo stesso tempo, mentre le persone possono immaginare alternative agli alimenti e alle colture geneticamente modificate, quando si trovano di fronte a una malattia nella maggior parte dei casi non vedono alternative al rivolgersi ai medici e seguirne le indicazioni. La terza caratteristica distintiva è la promessa di aiuto in condizioni spiacevoli offerta dalla medicina. Per questa ragione, in campo medico le persone soppesano l'utilità rispetto ai costi sociali e morali anche se si tratta di operare “contro natura” o allontanandosi da essa. L'obiettivo di aiutare gli esseri umani a condurre una vita dignitosa e priva di sofferenze vale la pena di correre qualche rischio.
In conclusione
Come abbiamo visto, parlare di rappresentazioni della natura richiede di articolare un quadro ampio e sfaccettato, in cui dimensioni individuali, sociali e culturali sono tra loro intrecciate.
Proprio il riconoscimento di questa interazione tra fattori diversi può aiutare a capire che la varietà dell’esperienza umana e dei posizionamenti che le persone assumono nel mondo difficilmente può essere ricondotta a spiegazioni semplici ed universali. È invece importante riconoscere questa complessità anche nel dialogo con rappresentazioni diverse dalla nostra, se si vuole costruire un confronto, così da evitare che le persone si sentano non ascoltate e quindi poco comprese.