Eppur... non è vero

img
In questo dipinto di incerta attribuzione Galileo è rappresentato in una cella con in mano un chiodo apparentemente usato per graffiare sul muro davanti a sé la scritta "E pur si muove" (quasi illeggibile in questa riproduzione) sotto alcuni diagrammi © Wikimedia Commons/Public Domain
Ci siamo già occupati dei luoghi comuni in campo storico che spesso – ancora oggi – si ritrovano nella divulgazione scientifica o nella manualistica. Ciò è determinato in larga misura dalla scarsa abitudine a confrontarsi con le ricerche specialistiche degli storici della scienza a livello professionale.

Invece sarebbe opportuno che chi svolge il mestiere di divulgatore si confrontasse sempre con gli studiosi di un determinato settore e non si attribuisse (capita anche questo) una qualifica che non ha. E soprattutto che non si risentisse, facendo il permaloso, se uno storico gli fa notare qualche errore, tenendo sempre ben presente una delle regole di Arnaldo Momigliano, uno dei grandi storici del Novecento: «Ogni storico serio nel dubbio consulta i colleghi, soprattutto quei colleghi che hanno fama di essere scettici e inesorabili. Dimmi che amici hai, e ti dirò che storico sei».

La ricerca storica è in continua evoluzione e riserva continuamente sorprese. Da qui la necessità di essere continuamente aggiornati, anche per chi si occupa di divulgazione. E ciò accade anche per personaggi studiatissimi, sui quali si potrebbe pensare che non ci sia più niente da dire, come nel caso di Galileo Galilei.

Com’è noto, tra l’autunno e l’inverno del 1609, Galileo dette il via a una sistematica osservazione del cielo, grazie all’uso del cannocchiale (uno strumento non inventato da lui – altro mito storiografico – ma costruito da artigiani olandesi), presentando i risultati delle sue ricerche nel Sidereus Nuncius, pubblicato il 12 marzo 1610: la morfologia della Luna, simile a quella della Terra, con crateri, valli e montagne, la Via Lattea come ammasso di stelle, l’esistenza dei satelliti di Giove (individuati fra il 7 ed il 13 gennaio e battezzati con il nome di Pianeti Medicei) e di stelle invisibili a occhio nudo, molte di più di quelle che erano state catalogate da Tolomeo.

Quelle scoperte innescarono un movimento di idee che, dopo la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, uscito nel 1632, portò all’istituzione di un processo a carico di Galileo da parte del tribunale del Sant’Uffizio a Roma, che iniziò il 13 aprile 1633.

Alla fine del procedimento, il 22 giugno 1963, nella Sala capitolare del convento domenicano adiacente alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, Galileo pronunciò la celebre abiura, di fronte alla Santa Inquisizione, che iniziava così: «Io Galileo, figlio di Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo Santo Officio, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova, e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il Sole sia centro del mondo e imobile e che la Terra non sia centro e che si muova».

L’abiura si concludeva così: «Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; et in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiuratione et recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633. Io Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria».

A quel punto, però, secondo la tradizione, lo scienziato toscano avrebbe pronunciato la fatidica frase: «Eppur si muove». In realtà, non esistono prove che Galileo abbia mai pronunciato questa frase. E, come ci ricorda sempre Momigliano, «senza documenti non c’è storia».

Il primo a occuparsi in maniera rigorosa della questione è stato uno dei pionieri degli studi specialistici su Galileo Galilei, Antonio Favaro, il quale, agli inizi del Novecento, attribuì l'origine del motto allo scrittore Giuseppe Baretti, che si era occupato della vicenda del processo allo scienziato toscano in un’opera destinata al pubblico inglese nel 1757. Presentando il Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, Baretti scriveva: «This is the celebrated Galileo, who was in the inquisition for six years, and put to the torture, for saying, that the earth moved. The moment he was set at liberty, he looked up to the sky and down to the ground, and, damping with his foot, in a contemplative mood, said, Eppur si move; that is, still it moves, meaning the earth» (Si tratta del celebre Galileo, che fu inquisito per sei anni e messo alla tortura per aver detto che la Terra si muoveva. Nel momento in cui fu rimesso in libertà, guardò in alto verso il cielo e in basso verso il suolo e, colpendolo con il piede, in uno stato d'animo contemplativo, disse: “Eppur si muove”, intendendo la Terra, p. 52).

In seguito Favaro, venuto a sapere che su un quadro attribuito al pittore spagnolo Bartolomé Esteban Murillo, dipinto tra il 1643 e il 1645, appariva il celebre motto, modificò il suo parere, pur avendo visto il quadro soltanto su una foto. Il quadro, naturalmente, non provava che Galileo avesse davvero pronunciato quelle parole. Ma era possibile ipotizzare che l’eppur si move fosse una espressione circolante già al tempo di Galileo, o subito dopo la sua morte (che avvenne l’8 gennaio 1642). In realtà, recenti ricerche, condotte da Mario Livio sul dipinto e sulla sua storia, suggeriscono che la raffigurazione in questione sia soltanto una copia, databile al 1837, eseguita dal pittore fiammingo Roman Eugeen Van Maldeghem. E che la prima apparizione del motto sia quindi, molto probabilmente, proprio quella che risale al testo di Giovanni Baretti del 1757.

Per capire come si esegue una rigorosa ricerca storica, rimandiamo alla lettura integrale dell’articolo di Livio. Ogni tipo di informazione storica può continuamente essere sottoposta al vaglio di un accurato esame, purché questo si svolga sulla base di criteri storiografici ben precisi, e sulla presentazione di nuovi documenti e di nuove fonti. Il primo dovere di ogni storico è quello di raccontare storie, non favole. Anche la divulgazione scientifica, là dove si occupi di storia, dovrebbe rispettare sempre questo dovere.

Riferimenti bibliografici

  • Baretti, G. The Italian Library. Containing An Account of the Lives and Works of the Most Valuable Authors of Italy. With a preface, exhibiting the changes of the Tuscan language, from the barbarous ages to the present time. London: Printed for A. Millar, in the Strand, 1757.
  • Favaro, A. "Alla ricerca del motto «E pur si muove»", in Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, lettere ed Arti, s. VIII, 13, pt. 2, pp. 1219-1232, 1910-11.
  • Livio, M. "Did Galileo truly say, And yet it moves? A modern detective story", in Galilaeana, 17, pp. 289-296, 2020.
accessToken: '2206040148.1677ed0.0fda6df7e8ad4d22abe321c59edeb25f',