Novità sulla “preistoria” dei Protocolli dei Savi di Sion

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  • 10-11-2021
  • di Roberto Labanti
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Una pubblicazione in epoca fascista che illustra la teoria del complotto relativa ai Protocolli dei Savi di Sion. ©Wikipedia
Definiti una licenza per un genocidio, come si intitolava il volume dello storico Norman Cohn (1915-2007) a loro dedicato, i Protocolli dei Savi di Sion vogliono apparire come il piano segreto degli ebrei per conquistare il mondo, pubblicato da chi vuole far fallire l’affermato complotto. Non sarebbe necessario specificare che si tratta di un falso, se non fosse che ancora oggi è preso per vero o per realistico da antisemiti più o meno sofisticati.

Una prima versione dei Protocolli sembra fare la comparsa nel settembre 1903 su un quotidiano di Pietroburgo, l’allora capitale della Russia: Znamja (“Bandiera”), fondato qualche mese prima dal giornalista di estrema destra Pavel Aleksandrovic Krusevan (1860-1909)[1]. Nel febbraio precedente, quando un bambino era stato ucciso (da un parente, come poi si scoprirà) a Dubasari, in Bessarabia, un altro quotidiano di Krusevan aveva sostenuto la tesi di un omicidio rituale commesso da israeliti, contribuendo così a dare origine in aprile al primo pogrom di Kisinev, la capitale del governatorato, con 49 ebrei uccisi. Altre edizioni, ognuna con le proprie differenze testuali, apparvero fra il 1905 e il 1906: le due principali, appartenenti a rami diversi della tradizione, sono quelle curate da Sergéj Aleksandrovic Nílus (1862-1929) e da Georgij Vasil’evic Butmi-de-Kacman (1856-1918?)[2].

In Italia i Protocolli arrivarono non dopo il 1920: come ha segnalato qualche anno fa il contemporaneista Gabriele Rigano in un saggio dedicato all’antisemitismo in Italia prima delle leggi razziali fasciste[3], la rivista Il Vessillo Israelitico segnalava già a fine aprile (se diamo credito alla data della rivista) di quell’anno che che era «stato diffuso un manifestino in italiano dal titolo Ebraismo al di sopra di tutto - Dovrà l’ebreo render schiavo il mondo? - Ci siamo vicini!!! Si trova alle porte!!!!» e che si voleva «dare a bere che si tratta[va] del riassunto di un manoscritto consegnato da una russa “che l’aveva sottratto ad una delle più inaccessibili congreghe sioniste a Basilea”»[4]. In assenza del testo Rigano ipotizzava che dovesse derivare o dalla traduzione inglese dei Protocolli, nella versione di Nilus, «uscita nel gennaio-febbraio del 1920, o da qualche edizione di poco precedente». Il testo stava già comunque circolando: nel numero di marzo la rivista cattolico-tradizionalista e antimodernista Fede e Ragione citava un protocollo (il VII) in un pezzo firmato da “Spectator”, uno pseudonimo utilizzato da due sacerdoti: il direttore del periodico Paolo De Töth (1881-1965) e un collaboratore della rivista, Umberto Benigni (1862-1934). E ancora poi, a giugno, Pietro Misciatelli aveva segnalato l’uscita della traduzione inglese su Il Resto del Carlino[5]. L’anno successivo fu proprio quest’ultima alla base della traduzione italiana di un altro ex sacerdote, Giovanni Preziosi (1881-1945), uno dei più importanti propagandisti dell’antisemitismo in Italia, per i tipi della rivista La Vita Italiana, diretta dallo stesso Preziosi e dall’economista Maffeo Pantaleoni (1857-1924).

Nell’agosto 1921 a smascherare il falso fu, con una corrispondenza da Costantinopoli per The Times, il giornalista Philip Graves: il testo era per buona parte un plagio di una satira politica di Maurice Joly (1829-1878) contro Napoleone III che era apparsa a Bruxelles nel 1864, il Dialogue aux enfers entre Machiavel & Montesquieu, volto in chiave antisemita[6].

Ma chi ne era stato l’autore? L’ipotesi classica, a volte definita “poliziesca” dagli attori che prevede in scena, quella ancora oggi più diffusa fra gli studiosi, vuole che i Protocolli siano stati fatti nascere intorno al 1897 a Parigi, nella Francia della Terza Repubblica e del caso Dreyfus, in lingua francese, da agenti dell’Otdelenie po ohraneniu obsestvennoj bezopasnosti i poradka (il Dipartimento per la protezione della sicurezza pubblica e dell’ordine dell’Impero russo, abbreviato in Ohrana) sotto il coordinamento di Petr Ivanovic Rackovskij (1851-1910) per poi essere portati e tradotti in Russia. Forse però, secondo la storica russa Ljubov’ Vladimirovna Ul’janova-Bibikova dell’Università statale di Mosca, l’ipotesi dell’origine dovuta alla polizia segreta russa è “un mito storiografico inconsapevolmente sorto nell’ambiente dell’emigrazione liberale di sinistra degli anni 1920-30”[7].

Nel 1994, infatti, lo slavista Cesare Giuseppe De Michelis, allora all’Università di Tor Vergata a Roma, dopo aver esaminato nel suo Il manoscritto inesistente le sei diverse edizioni russe a stampa fra il 1903 e il 1906, era giunto a una diversa ipotesi sulla loro provenienza: i Protocolli «sono stati compilati tra il 1902 e il 1903, certamente in Russia e con ogni probabilità a Pietroburgo»[8]. Anzi, per De Michelis, le persone che «vi ebbero a che fare nella primissima fase della loro circolazione sono soltanto due o tre», che «appartenevano all’estrema destra giudeofoba del “Circolo russo”»: il pubblicista Mihail Osipovic Mén’sikov (1859-1918), che per primo su Novoe vremja (“L’epoca moderna”) del 7(20) aprile 1902 aveva parlato dell’esistenza del misterioso documento pur prendendo le distanze dalla sua autenticità[9], e gli altri giornalisti già ricordati, Krusevan e Butmi-de-Kacman[10]. Per lo slavista italiano, in effetti, «(anche sulla base d’un riscontro documentario, la testimonianza [della metà degli anni '30, N.d.A.] di [un sacerdote uniate, N.d.A.] G[leb] Verchovskij), il promotore e in gran parte compilatore» dei Protocolli sarebbe stato proprio Butmi[11].

La ricostruzione di De Michelis esce rinforzata da una recente scoperta, annunciata dalla Ul’janova, presso la Biblioteca centrale di Mosca. Qui uno storico dell’ultimo periodo della Russia zarista, G. B. Kremnev, studiando i manoscritti del fondo del conte Illarion Ivanovic Voroncov-Daskov (1837-1916) ha rinvenuto quello che appare essere un dattiloscritto, con correzioni a mano, di un testo dei Protocolli che sembra vicino al gruppo di edizioni/versioni di cui fa parte anche quello di Butmi. Data la natura delle correzioni, come segnala ancora De Michelis in una breve comunicazione apparsa su Studi Slavistici, «chi ha corretto a mano l’esemplare a macchina doveva essere all’origine della compilazione (e in tal senso può essere considerato il “protografo” dei Protocolli: infatti le “inserzioni manoscritte nel testo dattiloscritto consistono nel ristabilimento di omissioni casuali nel corso della stesura», fra le quali «alcune corrispondono ai frammenti del pamphlet di M. Joly». La mano che ha steso le note manoscritte, secondo la studiosa russa, è simile a quella di Butmi che potrebbe quindi essere l’estensore o almeno il correttore del dattiloscritto[12].

Non è ancora, ovviamente, possibile chiudere il cold case: anche rispetto al dattiloscritto scoperto (che deve ancora essere pubblicato in un’edizione critica) sorgono una serie di domande. Ad esempio, la scrittura è davvero quella di Butmi? Dove si colloca esattamente il nuovo testimone all’interno del complesso “stemma” delle versioni dei Protocolli? E, comunque, come è finito fra le carte di uno statista e militare di carriera come Voroncov-Daskov, di cui non si conoscevano legami con il famigerato testo? Domande a cui forse la ricerca storica e filologica potrà dare risposta nei prossimi anni.

Note


1) De Michelis, C. G. 2004. Il manoscritto inesistente. I «Protocolli dei savi di Sion» [seconda edizione]. Marsilio, Venezia, pp. 17-18.
2) Ibidem, pp. 19-26.
3) Rigano, G. 2008. Note sull’antisemitismo in Italia prima del 1938. “Storiografia”, n. 12, pp. 215-267, infra p. 243. I successivi riferimenti a Rigano sono sempre a questa pagina.
4) “Il Vessillo Israelitico”, n. vii-viii, 15-30 aprile 1920, pp. 165-166.
5) Rigano, 2008, cit.
6) De Michelis, 2004, cit., p. 44.
7) Citata in De Michelis, C. G. 2021. Protocolli dei savi di Sion. Ritrovato il protografo. “Studi Slavistici”, Vol. xviii, n. 1, pp. 253-255, disponibile all’url https://bit.ly/3aNW688 , infra p. 254.
8) De Michelis, 2004, cit., p. 63.
9) Ibidem, pp. 38-42.
10) Ibidem, p. 69.
11) De Michelis, 2021, cit., p. 254; cfr. De Michelis, 2004, cit, p. 74.
12) De Michelis, 2021, cit.
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