Pregiudizi e ricordi possono sfuggire alla consapevolezza. L’Implicit Association Test (IAT) può essere un utile strumento per indagare l’elaborazione implicita, ma cercare di diagnosticare l’attitudine razzista o altri bias impliciti e di dimostrare la sincerità degli imputati è ingiustificato.
Quando si agisce nell’ambiente, si esegue un compito o si prende una decisione, a causa dei limiti di capacità e funzionamento dei processi mentali non tutte le informazioni rilevanti sono elaborate in modo consapevole. Il riconoscimento di un volto non è accompagnato dal recupero di tutte le conoscenze e i ricordi associati alla specifica persona, quando si legge un testo ci si concentra sul significato delle parole ma dopo un certo intervallo di tempo ci si accorge di ricordare la posizione delle frasi sulla pagina o di ricordare dettagli della stanza in cui ci si trovava, anche se a queste informazioni non si è prestata attenzione. L’elaborazione di conoscenze e stimoli è in larga parte implicita e si basa su procedure automatiche che sono efficaci e funzionali ma espongono le persone all’influenza di pregiudizi, semplificazioni e stereotipi di cui non ci si rende conto.
La conoscenza è organizzata in schemi e rappresentazioni che sono alla base dei processi di riconoscimento, comprensione, memoria e ragionamento. Ogni informazione è funzionalmente legata a molte altre per formare una complessa rete associativa. Ogni parola udita o letta è elaborata non isolatamente ma insieme a tutte quelle a cui è collegata e che si attivano in modo automatico. Di fronte alla frase “Ha vinto in cinque set” una persona esperta non ha difficoltà a comprendere che ci si riferisce a una partita di tennis giocata in un torneo. Nella vita di tutti i giorni, l’organizzazione in schemi di conoscenza consente di agire in modo rapido e adeguato, come se si attivasse un pilota automatico in grado di affrontare ogni situazione. Gli schemi però descrivono gli oggetti e gli eventi in termini generali senza considerare le situazioni specifiche o i singoli esemplari, riportano le proprietà principali e più frequenti e non i dettagli e le eccezioni, descrivono ciò che è probabile o ciò che la persona ha osservato più frequentemente e non ciò che accade concretamente. Tutto questo può portare a conclusioni sbagliate o a errori di memoria. Se una persona dice “Sono andato al ristorante” immediatamente si pensa che sia andata a mangiare (e quasi sempre è così), ma potrebbe anche essere andata per cercare un lavoro o per fare una consegna. Un testimone che ha assistito a una rapina in banca commessa da una persona con il volto coperto, potrebbe riferire di aver visto un uomo e non una donna solo perché sa che i rapinatori sono spesso di sesso maschile. Allo stesso modo, proprio in quanto strutture di conoscenza, gli schemi possono favorire stereotipi e pregiudizi. Sapere che nella maggioranza dei casi i chirurghi sono uomini, gli insegnanti nella scuola primaria sono donne e gli italiani sono battezzati può portare a concludere erroneamente che tutti i chirurghi siano uomini, che nella scuola primaria debbano insegnare solo donne, che essere italiani coincida con l’essere cristiani. Prendere coscienza dell’esistenza di questi bias dovuti al funzionamento dei processi mentali può aiutare a praticare l’arte del dubbio, a sospendere il giudizio e a prevenire errori; in definitiva, può contribuire ad adottare comportamenti più rispettosi, prendere decisioni eque, rinforzare la democrazia.
Poiché l'utilizzazione di schemi e categorie per comprendere la realtà può avvenire in maniera inconscia (Legrenzi e Umiltà, 2018), per studiare l’organizzazione delle conoscenze non è sufficiente chiedere alle persone di esplicitare opinioni o di descrivere il significato delle parole, ma è utile usare anche dei test che li rilevano indirettamente (e.g. compiti di categorizzazione o decisione lessicale) e analizzare i tempi di risposta (Zogmeister e Castelli, 2008). Tra i test proposti, il più noto e il più utilizzato è l’Implicit Association Test (IAT; Greenwald et al., 1998), finalizzato a misurare la forza associativa tra i concetti, ovverosia, come nell’esempio di Zogmeister a Castelli (2008), quanto un nome di persona (maschile o femminile) sia associato a una certa categoria (lavoro o famiglia).
Il paradigma classico dello IAT consiste nella presentazione di stimoli (parole o immagini) che appaiono su uno schermo a cui rispondere il più velocemente possibile premendo un tasto a destra o a sinistra. La prova prevede cinque fasi:
Le fasi 1, 2 e 4 servono per allenare i partecipanti al compito, per accertarsi che ne abbiamo compreso il funzionamento e per stabilire i tempi di risposta basali. Il confronto critico è tra i tempi di risposta della fase 3 e quelli della fase 5. L’assunto è che tanto più un concetto e un attributo sono associati a livello del sistema semantico (cioè la memoria per conoscenze e fatti appresi), tanto più rapida sarà la selezione del tasto di risposta. Per esempio, in un compito di riconoscimento di parole, la parola 'infermiere’ è riconosciuta più rapidamente se immediatamente preceduta dalla parola 'dottore’, che se preceduta dalla parola 'tavolo’ (Neely, 1977). Nello IAT, in caso di forte associazione, la risposta è facilitata, perché è come se al singolo tasto fosse associato un criterio unico (bianco/piacevole) che si riferisce ad entrambi gli stimoli (volti e parole); al contrario, in caso di bassa associazione il singolo tasto è associato a due criteri tra loro indipendenti (se volto bianco, se parola spiacevole) e il partecipante deve decidere quale utilizzare per rispondere, il che comporta un maggior dispendio di tempo (Devine, 1989).
Esempio di IAT volto allo studio di bias razziali impliciti. Nelle fasi 3 e 5 del test, i partecipanti devono classificare gli stimoli, un volto (bianco o nero) o una parola (piacevole o spiacevole), che sono presentati mescolati in un’unica lista. In questo esempio, nella fase 3 il tasto sinistro è utilizzato per rispondere nero ai volti e piacevole alle parole. Nella fase 5 il tasto sinistro è usato per rispondere bianco ai volti e piacevole alle parole. Chi risulta più rapido usando il tasto associato alle risposte bianco e piacevole rispetto al tasto associato alle risposte nero e piacevole risulterà mostrare un implicito legame concettuale bianco/piacevole, interpretato come rivelatore di un pregiudizio razzista, tanto più forte tanto più ampia è la differenza tra i tempi di risposta.
L’idea alla base dello IAT è interessante: maggiore è la velocità di risposta, più forte è il collegamento automatico nel sistema cognitivo tra le due dimensioni dei criteri di classificazione, quindi più marcato è il pregiudizio.
A partire dalla prima pubblicazione, Greenwald et al. (1998) hanno mostrato che le risposte dei partecipanti di etnia caucasica tendono ad essere più rapide per la combinazione “bianco/piacevole” che per la combinazione “nero/piacevole”. L’effetto, ripetutamente replicato, è mostrato dal gruppo dei partecipanti nel suo insieme ma è presente anche nella prestazione individuale della maggior parte delle persone (e.g. Nosek et al.,, 2002; Sabin et al., 2009). Questo risultato è stato interpretato come rivelatore di un atteggiamento discriminatorio e di un pregiudizio razzista, di cui le persone non si rendono conto ma che possono influenzare il loro comportamento e le loro scelte (Zogmeister e Castelli, 2008).
Lo IAT è da molti considerato un test per indagare il “livello di razzismo implicito” delle persone e per svelare la loro vera natura al di là delle dichiarazioni esplicite (Rumiati, 2018).
Una simile conclusione tende, da un lato, a colpevolizzare le singole persone nonostante le loro opinioni e i loro comportamenti espliciti e pubblici e, dall’altro lato, a negare il ruolo dell’educazione per contrastare i pregiudizi e contenere le reazioni automatiche. Si tratta di una conclusione arbitraria e priva di giustificazione. I risultati dello IAT rivelano una maggior forza a livello concettuale delle associazioni “bianco-buono” e “nero-cattivo”, ma questo non significa necessariamente un pregiudizio razzista o la disponibilità ad aderire a un modello di società che discrimina, perseguita ed uccide. Lo IAT non misura il razzismo.
Le persone tendono a preferire chi è vicino e appartiene al proprio “gruppo” (familiare , sociale, culturale, nazionale o etnico). Quando si è informati di un evento tragico o di una catastrofe, l’immediata reazione emotiva è diversa a seconda che tra le vittime sia presente o meno una persona conosciuta o proveniente da uno stesso ambiente. Questa tendenza non è un segno implicito di discriminazione o di atteggiamento razzista. La tendenza a privilegiare chi è familiare, simile o prossimo ha un alto valore adattivo e non va caricata di un’implicazione morale. E questo anche accettando l’idea che la distinzione in gruppi e la preferenza per gruppi sociali vicini possano essere fonte di discriminazione (Tajfel e Turner, 1979), la risultante di una categorizzazione esplicita. Lo IAT non misura le cause della discriminazione, non è infatti un compito di categorizzazione esplicita. Bias, preferenze e stereotipi influenzano i comportamenti individuali, ma di per sé non sono il razzismo e non lo spiegano. Il razzismo si manifesta attraverso comportamenti consapevoli e complessi: l’esatto contrario dell'esperienza soggettiva e dell’associazione automatica. Si è razzisti quando atteggiamenti e sentimenti sono giustificati, teorizzati, praticati e propagandati come progetto di società e di governo (oppure volutamente taciuti o dissimulati per viltà, opportunismo e ipocrisia) e quando dai pregiudizi e dalle preferenze spontanee - da conoscere e controllare - si passa a comportamenti da realizzare o appoggiare. Può esistere cionondimeno una forma di razzismo latente o implicito o sottile (Dovidio e Gaertner, 1996), caratterizzato da un pregiudizio radicato, da una passiva accettazione di abitudini e tradizioni, dalla paura che le differenze culturali, tanto più se poco conosciute, siano fonte di pericolo e cambiamento, o da una rappresentazione semplificata della realtà basata sulla descrizione stereotipata delle caratteristiche somatiche associate alle diverse etnie.
Un esempio è fornito da una vicenda recente riguardante alcuni testi scolastici assurti agli onori delle cronache per il loro contenuto chiaramente razzista, anche se non esplicitamente dichiarato (si veda, per esempio, Cancelli 2020). In un libro è mostrato un bambino straniero con la pelle nera che vuole imparare l’italiano; in un altro un bambino che chiede alla compagna se è nera o sporca. In entrambi i casi il messaggio è razzista. Il primo fa coincidere la distinzione bianco-nero con la distinzione italiano-straniero: tutti gli italiani sono bianchi, quindi ogni nero è straniero. Il secondo implica l’impossibilità a distinguere percettivamente chi è nero e chi è sporco: quindi essere nero è una condizione oggettivamente paragonabile a qualcosa di disdicevole o pericoloso (con cui è preferibile non entrare in contatto) e irreversibile (non può essere corretto lavandosi, come capitava a Calimero, celebre spot dai contenuti ugualmente razzisti).
Chi diffonde o apprezza questi testi ed è consapevole del contenuto del messaggio è senza dubbio un razzista esplicito. Chi invece diffonde o apprezza questi testi senza rendersi conto delle implicazioni può essere definito razzista implicito. Una persona di questo tipo non è necessariamente destinata a sostenere politiche discriminatorie (nelle situazioni concrete potrebbe operare scelte antirazziste), ma esibisce comportamenti che di per sé rivelano il possesso di una cultura con connotati razzisti o una disponibilità ad accoglierla (per ignoranza o ignavia). Scrivere o scegliere testi scolastici è sempre un comportamento esplicito e in quanto tale richiede che sempre vi sia consapevolezza dei contenuti anche se velati e non immediatamente afferrabili. Altra cosa è lo IAT: un compito implicito che rivela associazioni automatiche, per definizione ambigue e diversamente interpretabili.
Per spiegare i risultati dello IAT non è necessario far riferimento al razzismo. Un'associazione a livello semantico lessicale non implica necessariamente un orientamento politico o un giudizio di valore. Nel linguaggio ordinario, frasi come “sono uscito da un periodo nero”, “sono nero di rabbia”, “mi hanno fatto nero” veicolano significati diversi e non hanno connotazioni razziste. L’opposizione “bianco-nero” riflette un ampio ventaglio di contenuti e rimanda a una varietà di tradizioni, eventi storici e usi linguistici che nel tempo si sono accumulati senza avere nulla a che fare con le questioni relative al colore della pelle. Bianco e nero sono rispettivamente associati a positivo e negativo e a pulito e sporco ma anche a luce e buio e a femminile e maschile. I due colori hanno più significati (Belpoliti, 2020, a, b). Bianco può avere una connotazione negativa (freddezza, privo di vita), nero può rimandare a valori positivi (eleganza, sapienza). Bianco è associato a ordine ma anche a conformismo, nero a disordine ma anche a trasgressione e ribellione. Per questo motivo, il latino aveva due parole per indicare il bianco, candidus (abbagliante) e albus (opaco), e due parole per il nero, ater (opaco) e niger (brillante). Le associazioni in memoria semantica riflettono molteplici dimensioni concettuali, culturali e simboliche e non possono essere interpretate in modo univoco e automatico. Nello IAT la supposta presenza di “una attitudine razzista”, infatti, varia a seconda della lingua utilizzata nel test, come mostrano gli esperimenti con i bilingui il cui “razzismo implicito” può manifestarsi in una lingua ma non in un’altra (Ogunnaike et al., 2010). Le forti associazioni evidenziate dallo IAT possono essere spiegate dalla loro probabilità nella cultura di riferimento del partecipante (Hinton, 2017).
Il successo dello IAT dipende anche dal fatto che la preferenza di una categoria su un’altra si può rilevare in molti ambiti, non solo in quello “razziale”. Per esempio confermando lo stereotipo delle donne come non predisposte per le materie scientifiche (Nosek et al., 2002) o il pregiudizio nei confronti degli omosessuali (Anselmi et al., 2013). Tutto questo consente di trattare ogni tema di attualità ipotizzando la “naturale” propensione a comportamenti sbagliati e moralmente negativi e giustificando i continui inviti a frequentare corsi volti a correggere i supposti pregiudizi impliciti al fine di migliorare i comportamenti espliciti (Chivers, 2020).
Alla sua presentazione, il test fu immediatamente etichettato come rivoluzionario. Il sito degli autori del test, chiamato Project Implicit (https://implicit.harvard.edu/implicit/takeatest.html ) raggiunse presto milioni di visitatori. La sua popolarità è via via cresciuta anche grazie all’entusiasmo di noti divulgatori (Gladwell, 2005). Oggi, dopo una attenta disamina scientifica, la validità dello IAT (Goldhill, 2017), la sua attendibilità (Singal, 2017) la sua coerenza interna (Schimmack, in press) e la sua capacità di predire i comportamenti quotidiani (Oswald et al., 2013) sono messe in discussione. Persino Brian Nosek, uno dei proponenti del test (Greenwald et al., 2003), ha recentemente ammesso che cambiamenti nelle misure implicite non necessariamente si traducono in cambiamenti nelle misure del comportamento esplicito (Forscher et al., 2019), confermando in questo modo l’indipendenza dei due livelli di osservazione e analisi. Altri studi hanno dimostrato che i cambiamenti comportamentali ottenuti con corsi sui bias impliciti hanno influenza quasi nulla sul comportamento dopo solo un giorno, cioè hanno solo effetti a breve termine (Lai et al., 2016), forse dovuti all’intenzione dei partecipanti di aderire alla finalità del corso.
Il test, pensato per inferire l’organizzazione delle conoscenze indagando gruppi di partecipanti, ha immediatamente assunto una funzione diagnostica e prognostica per valutare il comportamento delle singole persone. Sulla base dei risultati individuali si pretende di rilevare i reali sentimenti e atteggiamenti delle persone e di prevedere le loro possibili azioni future. Anche assumendo che lo IAT misuri la disponibilità verso un comportamento discriminatorio, non c’è relazione diretta tra l’atteggiamento verso un dato comportamento e il comportamento stesso (Ajzen, 1991); lo IAT non spiega i fatti di razzismo, misoginia o antisemitismo, né può predire se una persona che ottiene un dato punteggio sia o meno propensa a tradurre in comportamenti concreti e discriminatori le preferenze che il test pretende di misurare.
L'aver trasformato un paradigma sperimentale in un test per giudicare le persone è un esempio dell’uso spurio che si fa della psicologia cognitiva. Degli aspetti applicativi dello IAT si parla nei testi divulgativi e nei musei, ma così si fa disinformazione e si favoriscono nuovi e pericolosi pregiudizi.
Alcuni autori hanno proposto l’uso dello IAT anche in ambito legale. Per esempio, Gray e collaboratori (2005) hanno riscontrato che persone condannate per pedofilia mostravano un’associazione tra attributi sessuali e termini che richiamavano l’infanzia. L’uso processuale dello IAT si sta diffondendo anche in Italia, dove Sartori e colleghi (2008) hanno proposto una particolare versione del test volta ad indagare la veridicità del contenuto delle memorie autobiografiche (Autobiographical Implicit Association Test - aIAT).
È notizia di quest’estate (Ferrarella, 2020) che un uomo, precedentemente condannato per atti di pedofilia, sia stato assolto anche grazie al risultato dello aIAT somministrato dal consulente di parte Pietro Pietrini (direttore della Scuola Imt Alti Studi di Lucca), secondo cui l’assenza di differenze nei tempi di risposta fosse da interpretare come l’assenza in memoria dei fatti contestati per i quali l’imputato era stato condannato. Le stesse conclusioni sulla base di risultati analoghi erano già state avanzate dagli stessi consulenti in altri processi di cui molto si è parlato nei mass media.
Il supposto meccanismo dello aIAT è il medesimo di quello ipotizzato per lo IAT (Agosta e Sartori, 2013): l’analisi dei tempi di risposta a coppie di eventi (accaduti/inventati) e attributi (vero/falso) assumerebbero il valore di verità fattuale, in questo caso dimostrando che nella memoria di chi si sottopone al test esistono o meno rappresentazioni di un dato episodio. Il problema è che lo aIAT è ancora meno affidabile dello IAT. Il test è facilmente soggetto a manipolazioni, i partecipanti, se debitamente istruiti, sono in grado di guidare le risposte esplicitamente (Hu et al., 2012; Verschuere et al., 2009). La replicabilità dei risultati è piuttosto bassa, poco sopra il 60% (Vargo e Petróczi, 2013).
Diversamente dalla memoria di parole e concetti, che può essere pensata come un repertorio o un archivio, la memoria degli eventi è un fenomeno tipicamente ricostruttivo ed è contaminata da falsi ricordi indotti da sogni, desideri, paure, fantasie, suggestioni, letture o pensieri. I ricordi non rispecchiano la verità, non sono fatti; lo aIAT non consente di accertare la presenza e l'accuratezza di specifiche memorie autobiografiche (Vargo et al., 2014). Un evento ricordato come vero potrebbe non essere mai accaduto ma solo immaginato. Analogamente, eventi realmente accaduti potrebbero essere ricordati solo parzialmente e in modo distorto o resi inaccessibili. Ricordi sgradevoli, infatti, possono essere soppressi, rendendo vano il tentativo di rilevarli implicitamente con lo aIAT (Hu et al., 2015). Inoltre, lo aIAT non può essere validato; i contenuti della memoria autobiografica variano da individuo a individuo, quindi gli stimoli devono essere personalizzati, il che impedisce la raccolta di dati normativi. Lo aIAT, infine, non usa termini dicotomici come lo IAT ma frasi (come “sono un pedofilo” o “ho ucciso mia sorella”) che devono essere interpretate e possono assumere significati differenti in agenti e contesti diversi (Cubelli e Giusberti, 2012).
È indubbio che il nostro comportamento sia determinato anche da bias cognitivi. È altresì non in discussione l’esistenza di stereotipi e pregiudizi che vanno conosciuti e studiati. Le diseguaglianze sul posto di lavoro e le discriminazioni sociali sono da condannare e combattere sempre e comunque, e con ogni mezzo efficace. Lo IAT, in ogni sua forma, non è uno di questi mezzi. Se a livello sperimentale è un utile strumento per indagare le associazioni tra concetti, a livello applicativo e divulgativo è un marketing senza evidenza che offre l’illusione di scoprire e contrastare gli atteggiamenti negativi e disdicevoli nascosti nella mente delle persone. Diversamente dallo IAT, lo aIAT non cerca di evidenziare preferenze e pregiudizi nascosti nella mente, ma fatti realmente accaduti. Tuttavia, la memoria non è un magazzino e i fatti non sono recuperabili come da una video camera o da un archivio ordinato. Il fatto che lo aIAT non rilevi alcun ricordo dei fatti incriminati nel corso di un processo non significa dimostrare la sincerità degli imputati né tantomeno la loro estraneità ai fatti contestati.
Lo IAT non è la macchina della verità: usare i tempi di risposta e le associazioni implicite per dimostrare ciò che le persone negano, ovverosia per rivelare pregiudizi e ricordi inconsapevoli, è sbagliato e ingannevole.
Bias impliciti
Quando si agisce nell’ambiente, si esegue un compito o si prende una decisione, a causa dei limiti di capacità e funzionamento dei processi mentali non tutte le informazioni rilevanti sono elaborate in modo consapevole. Il riconoscimento di un volto non è accompagnato dal recupero di tutte le conoscenze e i ricordi associati alla specifica persona, quando si legge un testo ci si concentra sul significato delle parole ma dopo un certo intervallo di tempo ci si accorge di ricordare la posizione delle frasi sulla pagina o di ricordare dettagli della stanza in cui ci si trovava, anche se a queste informazioni non si è prestata attenzione. L’elaborazione di conoscenze e stimoli è in larga parte implicita e si basa su procedure automatiche che sono efficaci e funzionali ma espongono le persone all’influenza di pregiudizi, semplificazioni e stereotipi di cui non ci si rende conto.
La conoscenza è organizzata in schemi e rappresentazioni che sono alla base dei processi di riconoscimento, comprensione, memoria e ragionamento. Ogni informazione è funzionalmente legata a molte altre per formare una complessa rete associativa. Ogni parola udita o letta è elaborata non isolatamente ma insieme a tutte quelle a cui è collegata e che si attivano in modo automatico. Di fronte alla frase “Ha vinto in cinque set” una persona esperta non ha difficoltà a comprendere che ci si riferisce a una partita di tennis giocata in un torneo. Nella vita di tutti i giorni, l’organizzazione in schemi di conoscenza consente di agire in modo rapido e adeguato, come se si attivasse un pilota automatico in grado di affrontare ogni situazione. Gli schemi però descrivono gli oggetti e gli eventi in termini generali senza considerare le situazioni specifiche o i singoli esemplari, riportano le proprietà principali e più frequenti e non i dettagli e le eccezioni, descrivono ciò che è probabile o ciò che la persona ha osservato più frequentemente e non ciò che accade concretamente. Tutto questo può portare a conclusioni sbagliate o a errori di memoria. Se una persona dice “Sono andato al ristorante” immediatamente si pensa che sia andata a mangiare (e quasi sempre è così), ma potrebbe anche essere andata per cercare un lavoro o per fare una consegna. Un testimone che ha assistito a una rapina in banca commessa da una persona con il volto coperto, potrebbe riferire di aver visto un uomo e non una donna solo perché sa che i rapinatori sono spesso di sesso maschile. Allo stesso modo, proprio in quanto strutture di conoscenza, gli schemi possono favorire stereotipi e pregiudizi. Sapere che nella maggioranza dei casi i chirurghi sono uomini, gli insegnanti nella scuola primaria sono donne e gli italiani sono battezzati può portare a concludere erroneamente che tutti i chirurghi siano uomini, che nella scuola primaria debbano insegnare solo donne, che essere italiani coincida con l’essere cristiani. Prendere coscienza dell’esistenza di questi bias dovuti al funzionamento dei processi mentali può aiutare a praticare l’arte del dubbio, a sospendere il giudizio e a prevenire errori; in definitiva, può contribuire ad adottare comportamenti più rispettosi, prendere decisioni eque, rinforzare la democrazia.
Poiché l'utilizzazione di schemi e categorie per comprendere la realtà può avvenire in maniera inconscia (Legrenzi e Umiltà, 2018), per studiare l’organizzazione delle conoscenze non è sufficiente chiedere alle persone di esplicitare opinioni o di descrivere il significato delle parole, ma è utile usare anche dei test che li rilevano indirettamente (e.g. compiti di categorizzazione o decisione lessicale) e analizzare i tempi di risposta (Zogmeister e Castelli, 2008). Tra i test proposti, il più noto e il più utilizzato è l’Implicit Association Test (IAT; Greenwald et al., 1998), finalizzato a misurare la forza associativa tra i concetti, ovverosia, come nell’esempio di Zogmeister a Castelli (2008), quanto un nome di persona (maschile o femminile) sia associato a una certa categoria (lavoro o famiglia).
Implicit Association Test - IAT
Il paradigma classico dello IAT consiste nella presentazione di stimoli (parole o immagini) che appaiono su uno schermo a cui rispondere il più velocemente possibile premendo un tasto a destra o a sinistra. La prova prevede cinque fasi:
- 1. Classificazione di stimoli rappresentanti due concetti opposti (per esempio, si chiede di indicare se nomi o volti di persona sono tipici di persone di pelle bianca o pelle nera)
- 2. Classificazione di attributi (per esempio si chiede di valutare se parole come onore e veleno sono piacevoli o spiacevoli)
- 3. Classificazione combinata di concetti e attributi presentati in un’unica lista (per esempio, rispondere con il tasto sinistro a stimoli classificati neri o piacevoli e con il tasto destro a stimoli bianchi o spiacevoli)
- 4. Classificazione di concetti come nella fase 1 ma invertendo i tasti di risposta
- 5. Classificazione combinata come nella fase 3 ma modificando le associazioni (per esempio, tasto sinistro per stimoli neri o spiacevoli e tasto destro per stimoli bianchi o piacevoli).
Le fasi 1, 2 e 4 servono per allenare i partecipanti al compito, per accertarsi che ne abbiamo compreso il funzionamento e per stabilire i tempi di risposta basali. Il confronto critico è tra i tempi di risposta della fase 3 e quelli della fase 5. L’assunto è che tanto più un concetto e un attributo sono associati a livello del sistema semantico (cioè la memoria per conoscenze e fatti appresi), tanto più rapida sarà la selezione del tasto di risposta. Per esempio, in un compito di riconoscimento di parole, la parola 'infermiere’ è riconosciuta più rapidamente se immediatamente preceduta dalla parola 'dottore’, che se preceduta dalla parola 'tavolo’ (Neely, 1977). Nello IAT, in caso di forte associazione, la risposta è facilitata, perché è come se al singolo tasto fosse associato un criterio unico (bianco/piacevole) che si riferisce ad entrambi gli stimoli (volti e parole); al contrario, in caso di bassa associazione il singolo tasto è associato a due criteri tra loro indipendenti (se volto bianco, se parola spiacevole) e il partecipante deve decidere quale utilizzare per rispondere, il che comporta un maggior dispendio di tempo (Devine, 1989).
Esempio di IAT volto allo studio di bias razziali impliciti. Nelle fasi 3 e 5 del test, i partecipanti devono classificare gli stimoli, un volto (bianco o nero) o una parola (piacevole o spiacevole), che sono presentati mescolati in un’unica lista. In questo esempio, nella fase 3 il tasto sinistro è utilizzato per rispondere nero ai volti e piacevole alle parole. Nella fase 5 il tasto sinistro è usato per rispondere bianco ai volti e piacevole alle parole. Chi risulta più rapido usando il tasto associato alle risposte bianco e piacevole rispetto al tasto associato alle risposte nero e piacevole risulterà mostrare un implicito legame concettuale bianco/piacevole, interpretato come rivelatore di un pregiudizio razzista, tanto più forte tanto più ampia è la differenza tra i tempi di risposta.
Esempio di IAT volto allo studio di bias razziali impliciti. Nelle fasi 3 e 5 del test, i partecipanti devono classificare gli stimoli, un volto (bianco o nero) o una parola (piacevole o spiacevole), che sono presentati mescolati in un’unica lista. In questo esempio, nella fase 3 il tasto sinistro è utilizzato per rispondere nero ai volti e piacevole alle parole. Nella fase 5 il tasto sinistro è usato per rispondere bianco ai volti e piacevole alle parole. Chi risulta più rapido usando il tasto associato alle risposte bianco e piacevole rispetto al tasto associato alle risposte nero e piacevole risulterà mostrare un implicito legame concettuale bianco/piacevole, interpretato come rivelatore di un pregiudizio razzista, tanto più forte tanto più ampia è la differenza tra i tempi di risposta.
IAT come misura di razzismo implicito
L’idea alla base dello IAT è interessante: maggiore è la velocità di risposta, più forte è il collegamento automatico nel sistema cognitivo tra le due dimensioni dei criteri di classificazione, quindi più marcato è il pregiudizio.
A partire dalla prima pubblicazione, Greenwald et al. (1998) hanno mostrato che le risposte dei partecipanti di etnia caucasica tendono ad essere più rapide per la combinazione “bianco/piacevole” che per la combinazione “nero/piacevole”. L’effetto, ripetutamente replicato, è mostrato dal gruppo dei partecipanti nel suo insieme ma è presente anche nella prestazione individuale della maggior parte delle persone (e.g. Nosek et al.,, 2002; Sabin et al., 2009). Questo risultato è stato interpretato come rivelatore di un atteggiamento discriminatorio e di un pregiudizio razzista, di cui le persone non si rendono conto ma che possono influenzare il loro comportamento e le loro scelte (Zogmeister e Castelli, 2008).
Lo IAT non misura il razzismo
Lo IAT è da molti considerato un test per indagare il “livello di razzismo implicito” delle persone e per svelare la loro vera natura al di là delle dichiarazioni esplicite (Rumiati, 2018).
Una simile conclusione tende, da un lato, a colpevolizzare le singole persone nonostante le loro opinioni e i loro comportamenti espliciti e pubblici e, dall’altro lato, a negare il ruolo dell’educazione per contrastare i pregiudizi e contenere le reazioni automatiche. Si tratta di una conclusione arbitraria e priva di giustificazione. I risultati dello IAT rivelano una maggior forza a livello concettuale delle associazioni “bianco-buono” e “nero-cattivo”, ma questo non significa necessariamente un pregiudizio razzista o la disponibilità ad aderire a un modello di società che discrimina, perseguita ed uccide. Lo IAT non misura il razzismo.
Le persone tendono a preferire chi è vicino e appartiene al proprio “gruppo” (familiare , sociale, culturale, nazionale o etnico). Quando si è informati di un evento tragico o di una catastrofe, l’immediata reazione emotiva è diversa a seconda che tra le vittime sia presente o meno una persona conosciuta o proveniente da uno stesso ambiente. Questa tendenza non è un segno implicito di discriminazione o di atteggiamento razzista. La tendenza a privilegiare chi è familiare, simile o prossimo ha un alto valore adattivo e non va caricata di un’implicazione morale. E questo anche accettando l’idea che la distinzione in gruppi e la preferenza per gruppi sociali vicini possano essere fonte di discriminazione (Tajfel e Turner, 1979), la risultante di una categorizzazione esplicita. Lo IAT non misura le cause della discriminazione, non è infatti un compito di categorizzazione esplicita. Bias, preferenze e stereotipi influenzano i comportamenti individuali, ma di per sé non sono il razzismo e non lo spiegano. Il razzismo si manifesta attraverso comportamenti consapevoli e complessi: l’esatto contrario dell'esperienza soggettiva e dell’associazione automatica. Si è razzisti quando atteggiamenti e sentimenti sono giustificati, teorizzati, praticati e propagandati come progetto di società e di governo (oppure volutamente taciuti o dissimulati per viltà, opportunismo e ipocrisia) e quando dai pregiudizi e dalle preferenze spontanee - da conoscere e controllare - si passa a comportamenti da realizzare o appoggiare. Può esistere cionondimeno una forma di razzismo latente o implicito o sottile (Dovidio e Gaertner, 1996), caratterizzato da un pregiudizio radicato, da una passiva accettazione di abitudini e tradizioni, dalla paura che le differenze culturali, tanto più se poco conosciute, siano fonte di pericolo e cambiamento, o da una rappresentazione semplificata della realtà basata sulla descrizione stereotipata delle caratteristiche somatiche associate alle diverse etnie.
Un esempio è fornito da una vicenda recente riguardante alcuni testi scolastici assurti agli onori delle cronache per il loro contenuto chiaramente razzista, anche se non esplicitamente dichiarato (si veda, per esempio, Cancelli 2020). In un libro è mostrato un bambino straniero con la pelle nera che vuole imparare l’italiano; in un altro un bambino che chiede alla compagna se è nera o sporca. In entrambi i casi il messaggio è razzista. Il primo fa coincidere la distinzione bianco-nero con la distinzione italiano-straniero: tutti gli italiani sono bianchi, quindi ogni nero è straniero. Il secondo implica l’impossibilità a distinguere percettivamente chi è nero e chi è sporco: quindi essere nero è una condizione oggettivamente paragonabile a qualcosa di disdicevole o pericoloso (con cui è preferibile non entrare in contatto) e irreversibile (non può essere corretto lavandosi, come capitava a Calimero, celebre spot dai contenuti ugualmente razzisti).
Chi diffonde o apprezza questi testi ed è consapevole del contenuto del messaggio è senza dubbio un razzista esplicito. Chi invece diffonde o apprezza questi testi senza rendersi conto delle implicazioni può essere definito razzista implicito. Una persona di questo tipo non è necessariamente destinata a sostenere politiche discriminatorie (nelle situazioni concrete potrebbe operare scelte antirazziste), ma esibisce comportamenti che di per sé rivelano il possesso di una cultura con connotati razzisti o una disponibilità ad accoglierla (per ignoranza o ignavia). Scrivere o scegliere testi scolastici è sempre un comportamento esplicito e in quanto tale richiede che sempre vi sia consapevolezza dei contenuti anche se velati e non immediatamente afferrabili. Altra cosa è lo IAT: un compito implicito che rivela associazioni automatiche, per definizione ambigue e diversamente interpretabili.
Per spiegare i risultati dello IAT non è necessario far riferimento al razzismo. Un'associazione a livello semantico lessicale non implica necessariamente un orientamento politico o un giudizio di valore. Nel linguaggio ordinario, frasi come “sono uscito da un periodo nero”, “sono nero di rabbia”, “mi hanno fatto nero” veicolano significati diversi e non hanno connotazioni razziste. L’opposizione “bianco-nero” riflette un ampio ventaglio di contenuti e rimanda a una varietà di tradizioni, eventi storici e usi linguistici che nel tempo si sono accumulati senza avere nulla a che fare con le questioni relative al colore della pelle. Bianco e nero sono rispettivamente associati a positivo e negativo e a pulito e sporco ma anche a luce e buio e a femminile e maschile. I due colori hanno più significati (Belpoliti, 2020, a, b). Bianco può avere una connotazione negativa (freddezza, privo di vita), nero può rimandare a valori positivi (eleganza, sapienza). Bianco è associato a ordine ma anche a conformismo, nero a disordine ma anche a trasgressione e ribellione. Per questo motivo, il latino aveva due parole per indicare il bianco, candidus (abbagliante) e albus (opaco), e due parole per il nero, ater (opaco) e niger (brillante). Le associazioni in memoria semantica riflettono molteplici dimensioni concettuali, culturali e simboliche e non possono essere interpretate in modo univoco e automatico. Nello IAT la supposta presenza di “una attitudine razzista”, infatti, varia a seconda della lingua utilizzata nel test, come mostrano gli esperimenti con i bilingui il cui “razzismo implicito” può manifestarsi in una lingua ma non in un’altra (Ogunnaike et al., 2010). Le forti associazioni evidenziate dallo IAT possono essere spiegate dalla loro probabilità nella cultura di riferimento del partecipante (Hinton, 2017).
Bias impliciti oltre il razzismo
Il successo dello IAT dipende anche dal fatto che la preferenza di una categoria su un’altra si può rilevare in molti ambiti, non solo in quello “razziale”. Per esempio confermando lo stereotipo delle donne come non predisposte per le materie scientifiche (Nosek et al., 2002) o il pregiudizio nei confronti degli omosessuali (Anselmi et al., 2013). Tutto questo consente di trattare ogni tema di attualità ipotizzando la “naturale” propensione a comportamenti sbagliati e moralmente negativi e giustificando i continui inviti a frequentare corsi volti a correggere i supposti pregiudizi impliciti al fine di migliorare i comportamenti espliciti (Chivers, 2020).
Alla sua presentazione, il test fu immediatamente etichettato come rivoluzionario. Il sito degli autori del test, chiamato Project Implicit (https://implicit.harvard.edu/implicit/takeatest.html ) raggiunse presto milioni di visitatori. La sua popolarità è via via cresciuta anche grazie all’entusiasmo di noti divulgatori (Gladwell, 2005). Oggi, dopo una attenta disamina scientifica, la validità dello IAT (Goldhill, 2017), la sua attendibilità (Singal, 2017) la sua coerenza interna (Schimmack, in press) e la sua capacità di predire i comportamenti quotidiani (Oswald et al., 2013) sono messe in discussione. Persino Brian Nosek, uno dei proponenti del test (Greenwald et al., 2003), ha recentemente ammesso che cambiamenti nelle misure implicite non necessariamente si traducono in cambiamenti nelle misure del comportamento esplicito (Forscher et al., 2019), confermando in questo modo l’indipendenza dei due livelli di osservazione e analisi. Altri studi hanno dimostrato che i cambiamenti comportamentali ottenuti con corsi sui bias impliciti hanno influenza quasi nulla sul comportamento dopo solo un giorno, cioè hanno solo effetti a breve termine (Lai et al., 2016), forse dovuti all’intenzione dei partecipanti di aderire alla finalità del corso.
Il test, pensato per inferire l’organizzazione delle conoscenze indagando gruppi di partecipanti, ha immediatamente assunto una funzione diagnostica e prognostica per valutare il comportamento delle singole persone. Sulla base dei risultati individuali si pretende di rilevare i reali sentimenti e atteggiamenti delle persone e di prevedere le loro possibili azioni future. Anche assumendo che lo IAT misuri la disponibilità verso un comportamento discriminatorio, non c’è relazione diretta tra l’atteggiamento verso un dato comportamento e il comportamento stesso (Ajzen, 1991); lo IAT non spiega i fatti di razzismo, misoginia o antisemitismo, né può predire se una persona che ottiene un dato punteggio sia o meno propensa a tradurre in comportamenti concreti e discriminatori le preferenze che il test pretende di misurare.
L'aver trasformato un paradigma sperimentale in un test per giudicare le persone è un esempio dell’uso spurio che si fa della psicologia cognitiva. Degli aspetti applicativi dello IAT si parla nei testi divulgativi e nei musei, ma così si fa disinformazione e si favoriscono nuovi e pericolosi pregiudizi.
Autobiographical Implicit Association Test - aIAT
Alcuni autori hanno proposto l’uso dello IAT anche in ambito legale. Per esempio, Gray e collaboratori (2005) hanno riscontrato che persone condannate per pedofilia mostravano un’associazione tra attributi sessuali e termini che richiamavano l’infanzia. L’uso processuale dello IAT si sta diffondendo anche in Italia, dove Sartori e colleghi (2008) hanno proposto una particolare versione del test volta ad indagare la veridicità del contenuto delle memorie autobiografiche (Autobiographical Implicit Association Test - aIAT).
È notizia di quest’estate (Ferrarella, 2020) che un uomo, precedentemente condannato per atti di pedofilia, sia stato assolto anche grazie al risultato dello aIAT somministrato dal consulente di parte Pietro Pietrini (direttore della Scuola Imt Alti Studi di Lucca), secondo cui l’assenza di differenze nei tempi di risposta fosse da interpretare come l’assenza in memoria dei fatti contestati per i quali l’imputato era stato condannato. Le stesse conclusioni sulla base di risultati analoghi erano già state avanzate dagli stessi consulenti in altri processi di cui molto si è parlato nei mass media.
Il supposto meccanismo dello aIAT è il medesimo di quello ipotizzato per lo IAT (Agosta e Sartori, 2013): l’analisi dei tempi di risposta a coppie di eventi (accaduti/inventati) e attributi (vero/falso) assumerebbero il valore di verità fattuale, in questo caso dimostrando che nella memoria di chi si sottopone al test esistono o meno rappresentazioni di un dato episodio. Il problema è che lo aIAT è ancora meno affidabile dello IAT. Il test è facilmente soggetto a manipolazioni, i partecipanti, se debitamente istruiti, sono in grado di guidare le risposte esplicitamente (Hu et al., 2012; Verschuere et al., 2009). La replicabilità dei risultati è piuttosto bassa, poco sopra il 60% (Vargo e Petróczi, 2013).
Diversamente dalla memoria di parole e concetti, che può essere pensata come un repertorio o un archivio, la memoria degli eventi è un fenomeno tipicamente ricostruttivo ed è contaminata da falsi ricordi indotti da sogni, desideri, paure, fantasie, suggestioni, letture o pensieri. I ricordi non rispecchiano la verità, non sono fatti; lo aIAT non consente di accertare la presenza e l'accuratezza di specifiche memorie autobiografiche (Vargo et al., 2014). Un evento ricordato come vero potrebbe non essere mai accaduto ma solo immaginato. Analogamente, eventi realmente accaduti potrebbero essere ricordati solo parzialmente e in modo distorto o resi inaccessibili. Ricordi sgradevoli, infatti, possono essere soppressi, rendendo vano il tentativo di rilevarli implicitamente con lo aIAT (Hu et al., 2015). Inoltre, lo aIAT non può essere validato; i contenuti della memoria autobiografica variano da individuo a individuo, quindi gli stimoli devono essere personalizzati, il che impedisce la raccolta di dati normativi. Lo aIAT, infine, non usa termini dicotomici come lo IAT ma frasi (come “sono un pedofilo” o “ho ucciso mia sorella”) che devono essere interpretate e possono assumere significati differenti in agenti e contesti diversi (Cubelli e Giusberti, 2012).
Conclusione
È indubbio che il nostro comportamento sia determinato anche da bias cognitivi. È altresì non in discussione l’esistenza di stereotipi e pregiudizi che vanno conosciuti e studiati. Le diseguaglianze sul posto di lavoro e le discriminazioni sociali sono da condannare e combattere sempre e comunque, e con ogni mezzo efficace. Lo IAT, in ogni sua forma, non è uno di questi mezzi. Se a livello sperimentale è un utile strumento per indagare le associazioni tra concetti, a livello applicativo e divulgativo è un marketing senza evidenza che offre l’illusione di scoprire e contrastare gli atteggiamenti negativi e disdicevoli nascosti nella mente delle persone. Diversamente dallo IAT, lo aIAT non cerca di evidenziare preferenze e pregiudizi nascosti nella mente, ma fatti realmente accaduti. Tuttavia, la memoria non è un magazzino e i fatti non sono recuperabili come da una video camera o da un archivio ordinato. Il fatto che lo aIAT non rilevi alcun ricordo dei fatti incriminati nel corso di un processo non significa dimostrare la sincerità degli imputati né tantomeno la loro estraneità ai fatti contestati.
Lo IAT non è la macchina della verità: usare i tempi di risposta e le associazioni implicite per dimostrare ciò che le persone negano, ovverosia per rivelare pregiudizi e ricordi inconsapevoli, è sbagliato e ingannevole.
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