Lo sbarco dei primi esseri umani sulla Luna con la missione Apollo 11 è ormai storia: lontana nel tempo, sbiadita nei ricordi, cristallizzata in poche immagini riassuntive, onnipresenti e talmente fissate nella nostra cultura da diventare, paradossalmente, invisibili perché già viste fin troppe volte. La graduale, inevitabile scomparsa dei protagonisti diretti dell’impresa contribuisce non poco a creare ricordi sempre più distorti di questa tappa straordinaria della scienza e dell’esplorazione. Ma in realtà questa distorsione ha origini lontane: la costruzione dei miti e delle percezioni errate intorno all’allunaggio iniziò infatti già durante la preparazione del progetto Apollo.
Il primo mito da smontare, diffuso soprattutto fra chi negli anni Sessanta non era ancora nato, è che ci sia stato un solo viaggio verso la Luna. Comunemente si dice “lo sbarco”, al singolare: ma le missioni con equipaggio che raggiunsero la Luna furono ben nove, e gli allunaggi veri e propri furono sei. Apollo 8, nel 1968, entrò in orbita intorno alla Luna, sfiorandola a soli cento chilometri di distanza dopo averne percorsi quattrocentomila con i suoi tre astronauti, primi ad avventurarsi così lontano; Apollo 10, nel 1969, fece lo stesso viaggio avvicinandosi a soli quindici chilometri dalla superficie lunare. Il primo allunaggio fu quello di Neil Armstrong e Buzz Aldrin a bordo di Apollo 11, a luglio del 1969, e fu seguito pochi mesi dopo dal secondo, quello di Apollo 12. Apollo 13 divenne memorabile per la sua drammatica odissea, causata dal gravissimo scoppio di un serbatoio di ossigeno, ma raggiunse comunque la Luna per girarvi intorno e tornare sulla Terra. Le missioni Apollo dalla 14 alla 17 scesero sulla Luna con obiettivi e risultati man mano più ambiziosi e sofisticati. In tutto, dodici uomini camminarono sulla luna fra il 1969 e il 1972.
Il fatto che molti ricordino solo il primo allunaggio non è solo questione di memoria sbiadita o di disinteresse: anche i mass-media dell’epoca, dopo il trionfo di Apollo 11, dedicarono molta meno attenzione alle missioni successive, le cui dirette dallo spazio e dalla Luna, pur essendo a colori e ben più nitide rispetto alle immagini confuse e in bianco e nero di Apollo 11, furono snobbate dalle reti televisive statunitensi. Il Congresso degli Stati Uniti, ottenuto il risultato politico di battere la rivale Unione Sovietica nella corsa alla Luna, tagliò drasticamente i fondi all’ente spaziale americano. Mentre Neil Armstrong e Buzz Aldrin camminavano per primi sulla Luna, la NASA mandava già le prime lettere di licenziamento ai tecnici e al personale dei suoi centri spaziali.
Nel corso dei cinque decenni che ormai ci separano dal primo allunaggio è stata costruita una serie di miti anche intorno alla figura del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, legandola inestricabilmente alla Luna. La sua fine violenta sotto i proiettili di Lee Harvey Oswald a Dallas, nel 1963, fissò per sempre l'iconografia tragica di un presidente giovane e moderno, grande sponsor della cultura, attento all’immagine pubblica propria e del Paese nei media, che galvanizzò gli Stati Uniti proponendo la sfida della nuova frontiera dello spazio.
Il suo celebre discorso del 12 settembre 1962 allo stadio della Rice University, in Texas, descrisse la scelta «di andare sulla Luna in questo decennio e di compiere altre imprese non perché sono facili, ma perché sono difficili; perché quell’obiettivo servirà a organizzare e misurare le nostre migliori energie e capacità, perché quella è una sfida che siamo disposti ad accettare, non siamo disposti a rinviare, e intendiamo vincere». È indubbiamente uno dei discorsi più avvincenti e coraggiosi mai pronunciati, specialmente se si considera che a quel momento gli USA avevano al proprio attivo soltanto undici ore scarse di volo spaziale umano, mentre l’Unione Sovietica batteva un primato dopo l’altro con i propri cosmonauti.
Kennedy si impegnò a rendere ben visibile la sua dedizione al progetto Apollo. Ma in privato non era affatto un sostenitore dei viaggi nello spazio: nelle registrazioni confidenziali delle sue conversazioni con i responsabili della NASA nel 1962, rese pubbliche nel 2001, disse chiaramente «Lo spazio non m’interessa granché». Alle prese con imbarazzi politici, come il recente fallito intervento militare americano a Cuba del 1961 e la crisi dei missili nucleari sovietici installati nell’isola l’anno successivo, Kennedy concepì le missioni lunari principalmente come un’operazione di propaganda per il proprio Paese: un mezzo per raggiungere il fine geopolitico di battere l’URSS, ridare prestigio mondiale agli Stati Uniti e convincere altri Paesi ad allearsi con il suo.
Il vero entusiasta promotore delle missioni spaziali era il vicepresidente Lyndon Johnson, al quale Kennedy si era rivolto chiedendo di identificare un traguardo specifico per un viaggio nello spazio: qualcosa che i russi non sarebbero stati in grado di fare. Johnson e i suoi esperti conclusero che proporre una semplice circumnavigazione della Luna avrebbe comportato il rischio di essere battuti di nuovo sul tempo dall’Unione Sovietica. Solo un allunaggio vero e proprio sarebbe stato così tecnicamente difficile da essere al di sopra delle capacità tecniche ed economiche sovietiche. Fu per questo che Kennedy propose specificamente di «far atterrare un uomo sulla Luna, prima che questo decennio finisca, e riportarlo salvo sulla Terra»: un uomo solo, per sottolineare la natura di duello fra campioni, e una scadenza precisa, per rendere chiaro a tutti che si trattava di un gara con un traguardo e un vincitore. Nessun riferimento alla scienza.
A distanza di cinquant’anni, riguardando i filmati dell’epoca Apollo è facile avere l’impressione che i cittadini statunitensi fossero compattamente ed entusiasticamente favorevoli alle missioni verso la Luna. Ma la realtà fu ben diversa.
Lo storico della NASA Roger Launius, esaminando i sondaggi d’opinione effettuati negli anni Sessanta, ha evidenziato che durante tutto il decennio la maggioranza della popolazione statunitense non riteneva che il progetto Apollo valesse la spesa, con l’unica eccezione di un sondaggio svolto proprio nel mese del primo allunaggio, che comunque vide scendere i contrari solo al 47%. Nello stesso periodo, dal 45% al 60% degli statunitensi intervistati riteneva che il governo spendesse troppo nello spazio.
Nell’estate del 1965, un terzo degli interpellati dai sondaggi era favorevole a un taglio dei finanziamenti alla NASA, e questa percentuale salì negli anni successivi fino a raggiungere il 40%. «La maggior parte degli americani», scrive Launius, «preferiva a quanto pare che si facesse qualcosa per l’inquinamento dell‘atmosfera e delle acque, per la formazione al lavoro, per il miglioramento dell’aspetto del paese e per la povertà prima di spendere soldi federali per i voli spaziali con equipaggi».
Nel 1966, la popolare rivista Newsweek lamentava che «la guerra in Vietnam e le condizioni disperate dei poveri di questa nazione e delle sue città... fanno sembrare il volo spaziale, in confronto, un imbarazzante esercizio di vanità nazionale».
Se poi si prende in esame specificamente la popolazione afroamericana, che subiva ancor più di oggi discriminazioni e ineguaglianze sociali e culturali, l’entusiasmo per le missioni lunari era praticamente inesistente. La NASA era, fondamentalmente, un’organizzazione di uomini bianchi che faceva volare altri uomini bianchi; per i neri non c’era posto (il film Hidden Figures - Il diritto di contare è una versione molto addolcita di questa amara realtà). Ed Dwight, pilota di caccia con una laurea in ingegneria aeronautica, superò tutte le prove e completò lo stesso addestramento degli altri candidati astronauti, ma non volò mai nello spazio, perché era nero; Robert Lawrence Jr, candidato per il programma spaziale militare americano, morì in un incidente aereo prima di essere assegnato a una missione. Il primo astronauta afroamericano ad andare nello spazio fu Guion Bluford, nel 1983.
La conquista della Luna da parte di dodici uomini bianchi strideva con la povertà delle persone di colore sulla Terra. Il poeta e musicista statunitense Gil Scott-Heron riassunse perfettamente questa dissonanza nella canzone Whitey on the Moon (“Uomo bianco sulla Luna”): «Un ratto ha morsicato mia sorella Nell / Con l’uomo bianco sulla Luna / La sua faccia e le sue braccia hanno cominciato a gonfiarsi / E l’uomo bianco è sulla Luna».
Il 15 luglio 1969, alla vigilia della partenza di Apollo 11 per la Luna, il direttore generale della NASA Thomas Paine si trovò a incontrare il reverendo Ralph Abernathy, successore di Martin Luther King, che aveva portato con sé venticinque famiglie di colore povere e due carretti trainati da quattro muli a simboleggiare l’estrema povertà delle aree rurali degli Stati Uniti del sud. Sotto l’occhio attento dei media mondiali, Abernathy criticò il «distorto senso nazionale delle priorità» e «l’abisso tragico e imperdonabile tra le capacità tecnologiche dell’America e le nostre ingiustizie sociali». Tre anni prima, Martin Luther King aveva testimoniato di fronte a un comitato del Senato sulla povertà urbana a sfondo razziale dicendo sardonicamente che «entro pochi anni possiamo essere certi che metteremo un uomo sulla Luna, che con un telescopio adeguato sarà in grado di vedere i quartieri poveri sulla Terra».
La crescente attenzione verso i diritti civili e l’opposizione alla guerra in Vietnam spinsero i politici a ridurre gli stanziamenti per lo spazio. Gli studenti pacifisti che la NASA reclutava per i propri progetti di punta si resero conto che l’ente spaziale non era del tutto pacifico come voleva sembrare, ma era anzi parte attiva nella guerra, tramite il suo Limited Warfare Committee che trasformava segretamente in strumenti militari le tecnologie sviluppate per la Luna, e questo fece aumentare la contrarietà dell’opinione pubblica. Alla fine, la NASA annullò tre missioni lunari già pianificate (Apollo 18, 19 e 20) e cercò di rifarsi un’immagine proponendo ben più modeste missioni di ricognizione della Terra tramite satelliti, che potevano dare benefici più diretti alla popolazione.
Un altro aspetto dell’epopea spaziale sul quale oggi si glissa disinvoltamente è la discriminazione della NASA e di tutta la società di allora nei confronti delle donne. L’idea che potessero andare nello spazio era inconcepibile: era opinione comune che fossero fisicamente e mentalmente inadatte al compito. Gli studi scientifici privati che avevano invece indicato il contrario, come quelli delle Mercury 13 (un gruppo di donne sottoposte agli stessi test degli uomini del programma spaziale Mercury della NASA), furono bloccati a livello politico, formalmente con la giustificazione che per essere astronauti bisognava essere piloti collaudatori e non c’erano collaudatrici a causa di una legge del 1948 che vietava alle donne di pilotare aerei da caccia.
Nessuna donna americana volò nello spazio fino a quando Sally Ride orbitò intorno alla Terra con lo Shuttle STS-7 nel 1983, vent’anni dopo la russa Valentina Tereshkova, che comunque era stata inviata nello spazio dal governo sovietico in buona parte per ragioni di propaganda e per poter conquistare un altro primato mediaticamente spendibile.
Gli astronauti stessi diedero un contributo non trascurabile a questa discriminazione. John Glenn, di fronte al Congresso americano, dichiarò nel 1962 che «è un fatto del nostro ordine sociale che le donne non fanno parte di questo campo» perché «sono gli uomini ad andare a combattere le guerre e pilotare gli aerei». Alle donne del pubblico che gli chiedevano, al termine di un discorso, come mai non ci fossero donne astronauta, Pete Conrad rispose chiedendo se le signore che facevano questa domanda fossero «sessualmente carenti». Il progettista capo dell’ente spaziale, Wernher von Braun, sempre nel 1962, disse a proposito delle donne astronauta che «gli astronauti maschi sono assolutamente favorevoli» e che per questo la NASA stava «riservando 55 chilogrammi di carico per le attrezzature ricreative».
Persino l’American Psychological Association, nel 1958, suggerì che le donne astronauta sarebbero state utili al massimo per «alleviare la solitudine e il tedio dei lunghi viaggi spaziali». E la fisiologia femminile veniva vista come un ostacolo misterioso e impenetrabile: il ciclo mestruale, sostenevano gli ingegneri che lavoravano per la NASA, avrebbe comportato il rischio di sbalzi d’umore che avrebbero potuto compromettere le missioni, mentre il corpo femminile avrebbe richiesto tute spaziali apposite per «gestire le particolari esigenze e funzioni biologiche». Il direttore per le scienze biologiche della NASA, David Winter, affermò che «non esisteva alcun modo per gestire i rifiuti femminili» e che la raccolta delle urine in assenza di peso era un problema insormontabile per questioni di anatomia (gli uomini lo risolvevano utilizzando in sostanza un preservativo collegato a un condotto di scarico).
Oggi queste argomentazioni sembrano ridicole, considerato che la Stazione Spaziale Internazionale ospita regolarmente equipaggi composti da donne e uomini che condividono gli stessi rischi, le stesse mansioni, le stesse tute spaziali e la stessa tecnologia di gestione dei rifiuti fisiologici, ma all’epoca erano parte del sentire comune, non solo presso gli enti spaziali.
Il fatto che nella NASA degli anni Sessanta ci fossero anche alcune rare donne in posizioni importanti non altera quest’impostazione sessista pervasiva: il machismo, soprattutto fra gli astronauti, era parte integrante della cultura dell’ente e lo rimase a lungo. Lo racconta bene, con rammarico e col senno di poi, l’astronauta Shuttle Mike Mullane nel suo libro Riding Rockets; proprio a lui, peraltro, toccò di veder morire nello spazio Judy Resnik, una delle sue compagne di addestramento.
A proposito di rare donne alla NASA, le fotografie delle sale controllo dell’ente spaziale durante gli anni degli sbarchi sulla Luna sono una distesa di volti esclusivamente maschili, e questo ha contribuito a formare il mito che la NASA fosse un club sostanzialmente riservato agli uomini, nel quale però le donne potevano entrare alla pari se avevano meriti straordinari.
A sostegno di questa visione viene citato spesso l’esempio di Margaret Hamilton, che a 33 anni era il direttore e supervisore della programmazione del software del programma Apollo. Fu lei, insieme alla propria squadra, a definire i criteri di progettazione e di collaudo del software che faceva funzionare il computer di bordo del Modulo Lunare, il veicolo che portò gli astronauti sulla Luna. Senza quel software, sarebbe stato impossibile allunare manualmente. Ma Margaret Hamilton non era dipendente della NASA: lavorava presso il MIT.
Un caso meno conosciuto ma più calzante è invece quello di JoAnn Morgan, l’unica donna autorizzata a stare nella sala di controllo del lancio della NASA in Florida, che veniva sigillata mezz'ora prima del decollo di un vettore spaziale. Morgan era chiusa dentro la sala, insieme a tutti gli altri controllori, al momento della partenza di Apollo 11 per la Luna. A soli 28 anni, infatti, era capo controllore della strumentazione, responsabile per i computer di guida del razzo, dei sistemi parafulmine e antincendio della rampa di lancio, delle comunicazioni operative e dei circuiti televisivi.
Ma per autorizzarla a rimanere nella sala di controllo era stato necessario risalire tutta la gerarchia e ottenere il permesso esplicito del direttore del centro di lancio, Kurt Debus. Una donna poteva quindi raggiungere incarichi di importanza fondamentale alla NASA degli anni Sessanta, ma per farlo doveva superare ostacoli ben più alti di quelli imposti agli uomini, e sopportare il sessismo intrinseco nell’architettura del centro spaziale. Non solo veniva molestata dai colleghi con chiamate oscene sul posto di lavoro, ma in molti edifici non c’erano neanche toilette per le donne, per cui doveva chiamare una guardia affinché ne sgomberasse una degli uomini.
La percezione comune della cosiddetta “corsa alla Luna” è che i sovietici si rifiutarono subito di partecipare alla sfida lanciata da Kennedy e lasciarono che gli americani corressero da soli e indisturbati. Persino lo stimatissimo giornalista televisivo statunitense Walter Cronkite, storico conduttore delle dirette televisive spaziali, dichiarò pubblicamente nel 1974 che i soldi spesi per le missioni Apollo erano stati sprecati, perché «non c’era mai stata una corsa alla Luna». Ma la realtà fu ben diversa.
È vero che il 16 maggio 1969 il capo dell’Accademia Sovietica delle Scienze Mstislav V. Keldysh annunciò in conferenza stampa che l’URSS avrebbe usato soltanto veicoli robotici per esplorare la Luna e non avrebbe rischiato vite umane nell’impresa. Ma l’annuncio arrivò dopo che l’Unione Sovietica, in gran segreto, aveva lavorato per anni a progettare e costruire un vettore lunare gigante, denominato N1, e un veicolo per scendere sulla Luna con un singolo cosmonauta.
Il vettore effettuò quattro voli di prova, che si conclusero con quattro esplosioni disastrose. Keldysh fece il proprio annuncio tre mesi dopo il primo di questi costosissimi fallimenti e il progetto proseguì fino al 1972, sempre in segreto. I servizi di spionaggio statunitensi erano al corrente del piano sovietico grazie ai satelliti spia, ma non potevano dichiararlo pubblicamente per non rivelare le proprie capacità osservative. La vicenda fu rivelata ufficialmente dalle autorità di Mosca solo nel 1989.
L’Unione Sovietica tentò di vincere la corsa alla Luna anche in altri modi. Lanciò diversi veicoli senza equipaggio verso la Luna, con l’intento di raccogliere campioni di roccia lunare prima degli Stati Uniti e quindi di dimostrare la futilità della scelta americana di mandare degli esseri umani a fare quello che un robot poteva fare senza pericolo per la vita di nessuno, e a costi molto inferiori. Ma tutti questi tentativi fallirono: l’ultimo, denominato Luna 15, avvenne proprio mentre i primi astronauti americani, Armstrong e Aldrin, finivano la propria storica escursione sulla superficie lunare. Il veicolo russo si schiantò contro una montagna durante la discesa verso il suolo della Luna.
La già citata Joann Morgan, inoltre, riferì che durante le missioni Apollo 8, 9 e 10 i sovietici tentarono di disturbare i comandi inviati via radio dal centro di controllo verso il veicolo spaziale. Avevano collocato dei pescherecci e dei sommergibili in acque internazionali e da lì emettevano segnali radio per interferire con i lanci e farli fallire. La NASA rispose installando sistemi di contromisura elettronica e addestrando gli astronauti a compiere il viaggio verso la Luna anche senza assistenza da Terra, e il volo di Apollo 11 andò regolarmente.
Capita spesso di sentire considerazioni meravigliate sulla perfezione dei voli lunari Apollo. Ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, andare sulla Luna è sinonimo di precisione e affidabilità tecnologica, e gli astronauti furono perfetti e impassibili gentiluomini nonostante le condizioni così rischiose.
Ma in realtà questa perfezione è soltanto un’impressione dettata dalla conoscenza superficiale degli eventi e dal fatto che l’importanza politica delle missioni lunari impose alla NASA e ai mass-media un velo di discrezione sugli errori, sugli aspetti meno dignitosi e sui fallimenti. Essendo in gioco il prestigio nazionale negli Stati Uniti ed essendoci il desiderio di una narrazione eroica negli altri Paesi, non fu dato molto risalto ai problemi. Ma alcuni furono talmente grandi da non poter essere nascosti.
Non va dimenticato, infatti, che su sette missioni di allunaggio tentate, una fallì (Apollo 13). Tre astronauti (White, Grissom e Chaffee) morirono sulla rampa di lancio (Apollo 1). Inoltre, tutte le missioni ebbero problemi che per poco non portarono al disastro o all’annullamento.
Durante il volo di Apollo 7, il primo del programma lunare statunitense, in cabina si formarono accumuli d’acqua proveniente dagli impianti di raffreddamento: rischio grave, in un ambiente pieno di circuiti elettrici. Inoltre, l’equipaggio fu colpito da un raffreddore che bloccò le vie nasali: problema serio in una missione spaziale, perché in assenza di peso il muco si accumula invece di defluire e soffiarsi il naso causa forti dolori alle orecchie. E durante il rientro, con la testa incapsulata nel casco, gli astronauti non avrebbero potuto soffiarsi il naso per compensare l’accumulo di pressione, che avrebbe potuto sfondare loro i timpani. Nonostante il parere contrario della NASA, gli astronauti eseguirono il rientro senza casco e non subirono danni.
L’equipaggio di Apollo 7 rifiutò ripetutamente gli ordini del Controllo Missione e il comandante, Walter Schirra, si lamentò senza troppi giri di parole per il carico di lavoro senza precedenti, parlando apertamente di «esperimenti mal preparati e concepiti frettolosamente da un idiota» e dicendo che il suo equipaggio non aveva alcuna intenzione di «accettare altri giochetti... o fare qualche test folle di cui non abbiamo mai sentito parlare prima». Fu una delle varie ribellioni, poco pubblicizzate, degli equipaggi.
La prima circumnavigazione umana della Luna, effettuata da Apollo 8, fu disturbata dal vomito e dalla diarrea del comandante, Frank Borman, che per poco non obbligarono a un ritorno anticipato sulla Terra. Il sigillante di tre dei cinque finestrini del veicolo spaziale ebbe delle perdite che offuscarono la visuale, guastando le osservazioni necessarie per la navigazione e le foto della Luna, inoltre gli accumuli d’acqua in cabina già visti per Apollo 7 si ripresentarono. Come se non bastasse, durante il volo l’astronauta James Lovell cancellò per errore parte della memoria del computer, per cui il sistema di misurazione della posizione credette che la capsula fosse ancora sulla rampa di lancio e accese automaticamente i motori di manovra per tentare di correggere il problema. Gli astronauti dovettero calcolare e reimmettere manualmente i dati corretti.
In Apollo 9, invece, l’astronauta Rusty Schweickart vomitò ripetutamente a causa della nausea da assenza di peso, e questo costrinse ad annullare una passeggiata spaziale per collaudare la tuta extraveicolare da usare sulla Luna nelle missioni successive. Uno dei gruppi di motori di manovra del veicolo non funzionò a causa di un commutatore urtato per errore.
Apollo 10, la prova generale dell’allunaggio, ebbe un’avaria a soli 15 chilometri dalla superficie lunare: un’impostazione errata dei comandi fece girare su se stesso il Modulo Lunare (la scialuppa di allunaggio che conteneva due dei tre astronauti e si sganciava dal veicolo principale per scendere sulla Luna), rischiando di perdere l’assetto e di precipitare fatalmente verso la Luna. Uno di questi due astronauti, Gene Cernan, si lasciò scappare un accorato «Son of a bitch! (“Figlio di puttana!”)» a microfono aperto che fu ascoltato dal pubblico mondiale sulla Terra.
Anche la missione di primo allunaggio, Apollo 11, rischiò di fallire: durante la discesa verso la superficie della Luna, il computer del Modulo Lunare, indispensabile per atterrare correttamente, si sovraccaricò ripetutamente, e la spinta del motore di discesa subì delle fluttuazioni estreme a causa dell’instabilità del software di controllo, rischiando di interrompere pericolosamente la discesa.
Le comunicazioni radio in orbita lunare furono talmente disturbate e frammentarie che Armstrong e Aldrin non udirono il via all’allunaggio da parte del Controllo Missione. Per fortuna, Michael Collins, nel veicolo spaziale principale, lo udì e lo riferì ai suoi compagni che stavano nel Modulo Lunare.
Terminato l’allunaggio, uno dei condotti di convogliamento del propellente del Modulo Lunare si congelò e non sfiatò correttamente, creando un accumulo di pressione potenzialmente esplosivo. Solo il Controllo Missione se ne accorse e chiese con discrezione agli astronauti di attivare manualmente lo sfiato.
Dopo l’escursione lunare, prima di decollare, gli astronauti si accorsero che la manopola di un interruttore di alimentazione dei circuiti del motore a razzo necessario per decollare era stata rotta, probabilmente dall’urto dello zaino della tuta di Aldrin, e non era più azionabile. Senza chiudere quell’interruttore, non potevano decollare. C’erano delle complicate soluzioni alternative, ma gli astronauti improvvisarono usando un pennarello per chiudere l’interruttore rotto.
Al rientro dalla Luna, quando il Modulo Lunare si riagganciò al veicolo principale, l’allineamento leggermente errato dei due veicoli li fece ruotare su loro stessi. I rispettivi computer di bordo si contrastarono a vicenda, facendo girare ancora più all’impazzata i due veicoli agganciati. Soltanto la bravura di Collins e Armstrong permise di correggere manualmente la rotazione caotica e riprendere il controllo.
La missione Apollo 12, invece, fu addirittura colpita da un fulmine durante il decollo dalla Terra: questo causò lo spegnimento completo dei computer di bordo. Soltanto un suggerimento inviato dai tecnici a terra via radio permise di riavviare i computer e ripristinare la telemetria, evitando che la missione venisse interrotta immediatamente.
Durante la diretta TV dalla Luna, la telecamera fu puntata contro il Sole per errore e il suo delicato sensore si bruciò, rendendola inservibile e terminando le trasmissioni televisive dell’escursione lunare.
Nell’ammaraggio a fine missione, il vento fece oscillare la capsula appesa ai paracadute e gli astronauti subirono ben 15 g di decelerazione all’impatto con l’oceano; una cinepresa cadde dal proprio supporto e colpì Alan Bean alla tempia. Se fosse caduta pochi centimetri più a sinistra avrebbe causato un trauma cranico potenzialmente fatale.
Come già accennato, a bordo di Apollo 13 scoppiò un serbatoio d’ossigeno, togliendo riserve di aria ed energia agli astronauti. Fu necessario usare il Modulo Lunare come scialuppa d’emergenza e rientrare precipitosamente sulla Terra dopo un giro intorno alla Luna. L’astronauta James Lovell dovette riallineare manualmente i sistemi di navigazione traguardando le stelle.
Durante Apollo 14, il sistema d’aggancio fra Modulo Lunare e astronave principale fallì cinque volte prima di funzionare. Un residuo fluttuante di materiale di saldatura all’interno di un pulsante fondamentale faceva attivare a intermittenza nel computer un falso segnale di interruzione della manovra in corso, rischiando di interrompere erroneamente la discesa verso la Luna. Appena in tempo, la NASA e il MIT riuscirono a scrivere e trasmettere istruzioni per riprogrammare il computer in modo che ignorasse il segnale fasullo.
Per Apollo 15 i guai seri arrivarono al ritorno: uno dei tre paracadute d’ammaraggio non funzionò correttamente, causando un impatto violento con la superficie dell’oceano. Il malfunzionamento fu causato probabilmente dallo sfiato di propellenti, che avrebbe potuto danneggiare anche gli altri due paracadute, con conseguenze fatali per l’equipaggio.
Apollo 16 si trovò con il motore principale, indispensabile per tornare sulla Terra, che segnalava un’avaria mentre il veicolo era in orbita intorno alla Luna. Fu quasi annullato l’allunaggio. Fortunatamente l’avaria era un falso allarme.
Durante l’ultima missione lunare, Apollo 17, uno degli astronauti ruppe per errore uno dei “parafanghi” dell’auto elettrica usata per spostarsi sulla superficie lunare, per cui la polvere lunare sollevata dalle sue ruote ricadde abbondantemente sul veicolo, causando problemi meccanici e termici. Gli astronauti furono costretti a improvvisare una riparazione mentre erano sulla Luna. Durante la risalita dalla Luna, invece, il Controllo Missione perse il contatto radio con il Modulo Lunare. Per quattro minuti mancò completamente la telemetria dal Modulo e il pilota del veicolo principale dovette ripetere tutto quello che gli astronauti del Modulo Lunare volevano riferire a Terra.
Per quanto fossero selezionati per la loro ottima forma fisica e con l’intento politico di rappresentare l’ideale americano del ruolo maschile, i primi astronauti del programma spaziale statunitense si rivelarono spesso tutt’altro che perfetti, anche se la stampa, mossa da un patriottismo oggi quasi inconcepibile, decise di glissare.
Non mancarono infatti le infedeltà coniugali, messe diligentemente a tacere dai coordinatori della NASA, che ci tenevano a mostrare all’opinione pubblica mondiale famiglie perfette. Un divorzio avrebbe comportato la fine della carriera, per cui le mogli sopportavano e fingevano di non vedere e non sapere. Gordon Cooper, per esempio, era separato dalla moglie Trudy in seguito a una relazione extraconiugale che l‘uomo aveva intrattenuto a lungo, ma la moglie decise di tornare da lui e fingere un matrimonio felice pur di non perdere lo status di celebrità che derivava dall’essere moglie di un astronauta, e questo permise a Cooper di partecipare a due missioni (Mercury-Atlas 9 e Gemini 5). Anche Donn Eisele (Apollo 7) aveva una relazione analoga; tutto fu messo a tacere.
Fumare e bere erano la norma per qualunque pilota dell’epoca, ma Buzz Aldrin cadde nell’alcolismo e lottò per anni contro la depressione. Come già accennato, Frank Borman (Apollo 8) e Rusty Schweickart (Apollo 9) subirono attacchi di nausea prodotti dall’assenza di peso: all’epoca non c’era modo di capire in anticipo chi ne sarebbe stato colpito.
Pete Conrad arrivò fino alla Luna, con la missione Apollo 12, combattendo contro la dislessia. Alan Shepard (Apollo 14) divenne il più anziano degli astronauti lunari, visitando la Luna a 47 anni, perché era stato colpito dalla sindrome di Menière, un disturbo dell’orecchio interno che gli aveva compromesso l’equilibrio. Si era però sottoposto a un delicato intervento sperimentale, che era andato bene e gli aveva permesso di tornare a far parte del corpo astronauti.
Si è scritto molto delle presunte crisi mistiche degli astronauti, ipotizzando che siano state indotte dall’esperienza straordinaria di viaggiare nello spazio, ma in realtà molti di loro avevano già una visione mistica o fortemente religiosa, molto comune in quegli anni, che il viaggio contribuì semmai a rinforzare. Edgar Mitchell (Apollo 14) fece esperimenti premeditati di telepatia durante la propria missione e si appassionò all’ufologia; James Irwin (Apollo 15) dedicò il resto della propria vita alla religione cristiana, interpretando la Bibbia in modo letterale e andando in Turchia a cercare i resti dell’Arca di Noè. Anche Charlie Duke (Apollo 16) trovò conforto nella religione e oggi si proclama apertamente creazionista.
Ed è forse la loro imperfetta umanità a rendere ancora più straordinarie le loro imprese.
1. Lo sbarco (al singolare)
Il primo mito da smontare, diffuso soprattutto fra chi negli anni Sessanta non era ancora nato, è che ci sia stato un solo viaggio verso la Luna. Comunemente si dice “lo sbarco”, al singolare: ma le missioni con equipaggio che raggiunsero la Luna furono ben nove, e gli allunaggi veri e propri furono sei. Apollo 8, nel 1968, entrò in orbita intorno alla Luna, sfiorandola a soli cento chilometri di distanza dopo averne percorsi quattrocentomila con i suoi tre astronauti, primi ad avventurarsi così lontano; Apollo 10, nel 1969, fece lo stesso viaggio avvicinandosi a soli quindici chilometri dalla superficie lunare. Il primo allunaggio fu quello di Neil Armstrong e Buzz Aldrin a bordo di Apollo 11, a luglio del 1969, e fu seguito pochi mesi dopo dal secondo, quello di Apollo 12. Apollo 13 divenne memorabile per la sua drammatica odissea, causata dal gravissimo scoppio di un serbatoio di ossigeno, ma raggiunse comunque la Luna per girarvi intorno e tornare sulla Terra. Le missioni Apollo dalla 14 alla 17 scesero sulla Luna con obiettivi e risultati man mano più ambiziosi e sofisticati. In tutto, dodici uomini camminarono sulla luna fra il 1969 e il 1972.
Il fatto che molti ricordino solo il primo allunaggio non è solo questione di memoria sbiadita o di disinteresse: anche i mass-media dell’epoca, dopo il trionfo di Apollo 11, dedicarono molta meno attenzione alle missioni successive, le cui dirette dallo spazio e dalla Luna, pur essendo a colori e ben più nitide rispetto alle immagini confuse e in bianco e nero di Apollo 11, furono snobbate dalle reti televisive statunitensi. Il Congresso degli Stati Uniti, ottenuto il risultato politico di battere la rivale Unione Sovietica nella corsa alla Luna, tagliò drasticamente i fondi all’ente spaziale americano. Mentre Neil Armstrong e Buzz Aldrin camminavano per primi sulla Luna, la NASA mandava già le prime lettere di licenziamento ai tecnici e al personale dei suoi centri spaziali.
2. Kennedy, sognatore dello spazio
Nel corso dei cinque decenni che ormai ci separano dal primo allunaggio è stata costruita una serie di miti anche intorno alla figura del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, legandola inestricabilmente alla Luna. La sua fine violenta sotto i proiettili di Lee Harvey Oswald a Dallas, nel 1963, fissò per sempre l'iconografia tragica di un presidente giovane e moderno, grande sponsor della cultura, attento all’immagine pubblica propria e del Paese nei media, che galvanizzò gli Stati Uniti proponendo la sfida della nuova frontiera dello spazio.
Il suo celebre discorso del 12 settembre 1962 allo stadio della Rice University, in Texas, descrisse la scelta «di andare sulla Luna in questo decennio e di compiere altre imprese non perché sono facili, ma perché sono difficili; perché quell’obiettivo servirà a organizzare e misurare le nostre migliori energie e capacità, perché quella è una sfida che siamo disposti ad accettare, non siamo disposti a rinviare, e intendiamo vincere». È indubbiamente uno dei discorsi più avvincenti e coraggiosi mai pronunciati, specialmente se si considera che a quel momento gli USA avevano al proprio attivo soltanto undici ore scarse di volo spaziale umano, mentre l’Unione Sovietica batteva un primato dopo l’altro con i propri cosmonauti.
Kennedy si impegnò a rendere ben visibile la sua dedizione al progetto Apollo. Ma in privato non era affatto un sostenitore dei viaggi nello spazio: nelle registrazioni confidenziali delle sue conversazioni con i responsabili della NASA nel 1962, rese pubbliche nel 2001, disse chiaramente «Lo spazio non m’interessa granché». Alle prese con imbarazzi politici, come il recente fallito intervento militare americano a Cuba del 1961 e la crisi dei missili nucleari sovietici installati nell’isola l’anno successivo, Kennedy concepì le missioni lunari principalmente come un’operazione di propaganda per il proprio Paese: un mezzo per raggiungere il fine geopolitico di battere l’URSS, ridare prestigio mondiale agli Stati Uniti e convincere altri Paesi ad allearsi con il suo.
Il vero entusiasta promotore delle missioni spaziali era il vicepresidente Lyndon Johnson, al quale Kennedy si era rivolto chiedendo di identificare un traguardo specifico per un viaggio nello spazio: qualcosa che i russi non sarebbero stati in grado di fare. Johnson e i suoi esperti conclusero che proporre una semplice circumnavigazione della Luna avrebbe comportato il rischio di essere battuti di nuovo sul tempo dall’Unione Sovietica. Solo un allunaggio vero e proprio sarebbe stato così tecnicamente difficile da essere al di sopra delle capacità tecniche ed economiche sovietiche. Fu per questo che Kennedy propose specificamente di «far atterrare un uomo sulla Luna, prima che questo decennio finisca, e riportarlo salvo sulla Terra»: un uomo solo, per sottolineare la natura di duello fra campioni, e una scadenza precisa, per rendere chiaro a tutti che si trattava di un gara con un traguardo e un vincitore. Nessun riferimento alla scienza.
3. L’opinione pubblica era entusiasta
A distanza di cinquant’anni, riguardando i filmati dell’epoca Apollo è facile avere l’impressione che i cittadini statunitensi fossero compattamente ed entusiasticamente favorevoli alle missioni verso la Luna. Ma la realtà fu ben diversa.
Lo storico della NASA Roger Launius, esaminando i sondaggi d’opinione effettuati negli anni Sessanta, ha evidenziato che durante tutto il decennio la maggioranza della popolazione statunitense non riteneva che il progetto Apollo valesse la spesa, con l’unica eccezione di un sondaggio svolto proprio nel mese del primo allunaggio, che comunque vide scendere i contrari solo al 47%. Nello stesso periodo, dal 45% al 60% degli statunitensi intervistati riteneva che il governo spendesse troppo nello spazio.
Nell’estate del 1965, un terzo degli interpellati dai sondaggi era favorevole a un taglio dei finanziamenti alla NASA, e questa percentuale salì negli anni successivi fino a raggiungere il 40%. «La maggior parte degli americani», scrive Launius, «preferiva a quanto pare che si facesse qualcosa per l’inquinamento dell‘atmosfera e delle acque, per la formazione al lavoro, per il miglioramento dell’aspetto del paese e per la povertà prima di spendere soldi federali per i voli spaziali con equipaggi».
Nel 1966, la popolare rivista Newsweek lamentava che «la guerra in Vietnam e le condizioni disperate dei poveri di questa nazione e delle sue città... fanno sembrare il volo spaziale, in confronto, un imbarazzante esercizio di vanità nazionale».
Se poi si prende in esame specificamente la popolazione afroamericana, che subiva ancor più di oggi discriminazioni e ineguaglianze sociali e culturali, l’entusiasmo per le missioni lunari era praticamente inesistente. La NASA era, fondamentalmente, un’organizzazione di uomini bianchi che faceva volare altri uomini bianchi; per i neri non c’era posto (il film Hidden Figures - Il diritto di contare è una versione molto addolcita di questa amara realtà). Ed Dwight, pilota di caccia con una laurea in ingegneria aeronautica, superò tutte le prove e completò lo stesso addestramento degli altri candidati astronauti, ma non volò mai nello spazio, perché era nero; Robert Lawrence Jr, candidato per il programma spaziale militare americano, morì in un incidente aereo prima di essere assegnato a una missione. Il primo astronauta afroamericano ad andare nello spazio fu Guion Bluford, nel 1983.
La conquista della Luna da parte di dodici uomini bianchi strideva con la povertà delle persone di colore sulla Terra. Il poeta e musicista statunitense Gil Scott-Heron riassunse perfettamente questa dissonanza nella canzone Whitey on the Moon (“Uomo bianco sulla Luna”): «Un ratto ha morsicato mia sorella Nell / Con l’uomo bianco sulla Luna / La sua faccia e le sue braccia hanno cominciato a gonfiarsi / E l’uomo bianco è sulla Luna».
Il 15 luglio 1969, alla vigilia della partenza di Apollo 11 per la Luna, il direttore generale della NASA Thomas Paine si trovò a incontrare il reverendo Ralph Abernathy, successore di Martin Luther King, che aveva portato con sé venticinque famiglie di colore povere e due carretti trainati da quattro muli a simboleggiare l’estrema povertà delle aree rurali degli Stati Uniti del sud. Sotto l’occhio attento dei media mondiali, Abernathy criticò il «distorto senso nazionale delle priorità» e «l’abisso tragico e imperdonabile tra le capacità tecnologiche dell’America e le nostre ingiustizie sociali». Tre anni prima, Martin Luther King aveva testimoniato di fronte a un comitato del Senato sulla povertà urbana a sfondo razziale dicendo sardonicamente che «entro pochi anni possiamo essere certi che metteremo un uomo sulla Luna, che con un telescopio adeguato sarà in grado di vedere i quartieri poveri sulla Terra».
La crescente attenzione verso i diritti civili e l’opposizione alla guerra in Vietnam spinsero i politici a ridurre gli stanziamenti per lo spazio. Gli studenti pacifisti che la NASA reclutava per i propri progetti di punta si resero conto che l’ente spaziale non era del tutto pacifico come voleva sembrare, ma era anzi parte attiva nella guerra, tramite il suo Limited Warfare Committee che trasformava segretamente in strumenti militari le tecnologie sviluppate per la Luna, e questo fece aumentare la contrarietà dell’opinione pubblica. Alla fine, la NASA annullò tre missioni lunari già pianificate (Apollo 18, 19 e 20) e cercò di rifarsi un’immagine proponendo ben più modeste missioni di ricognizione della Terra tramite satelliti, che potevano dare benefici più diretti alla popolazione.
4. Solo uomini sulla Luna perché erano meglio delle donne
Un altro aspetto dell’epopea spaziale sul quale oggi si glissa disinvoltamente è la discriminazione della NASA e di tutta la società di allora nei confronti delle donne. L’idea che potessero andare nello spazio era inconcepibile: era opinione comune che fossero fisicamente e mentalmente inadatte al compito. Gli studi scientifici privati che avevano invece indicato il contrario, come quelli delle Mercury 13 (un gruppo di donne sottoposte agli stessi test degli uomini del programma spaziale Mercury della NASA), furono bloccati a livello politico, formalmente con la giustificazione che per essere astronauti bisognava essere piloti collaudatori e non c’erano collaudatrici a causa di una legge del 1948 che vietava alle donne di pilotare aerei da caccia.
Nessuna donna americana volò nello spazio fino a quando Sally Ride orbitò intorno alla Terra con lo Shuttle STS-7 nel 1983, vent’anni dopo la russa Valentina Tereshkova, che comunque era stata inviata nello spazio dal governo sovietico in buona parte per ragioni di propaganda e per poter conquistare un altro primato mediaticamente spendibile.
Gli astronauti stessi diedero un contributo non trascurabile a questa discriminazione. John Glenn, di fronte al Congresso americano, dichiarò nel 1962 che «è un fatto del nostro ordine sociale che le donne non fanno parte di questo campo» perché «sono gli uomini ad andare a combattere le guerre e pilotare gli aerei». Alle donne del pubblico che gli chiedevano, al termine di un discorso, come mai non ci fossero donne astronauta, Pete Conrad rispose chiedendo se le signore che facevano questa domanda fossero «sessualmente carenti». Il progettista capo dell’ente spaziale, Wernher von Braun, sempre nel 1962, disse a proposito delle donne astronauta che «gli astronauti maschi sono assolutamente favorevoli» e che per questo la NASA stava «riservando 55 chilogrammi di carico per le attrezzature ricreative».
Persino l’American Psychological Association, nel 1958, suggerì che le donne astronauta sarebbero state utili al massimo per «alleviare la solitudine e il tedio dei lunghi viaggi spaziali». E la fisiologia femminile veniva vista come un ostacolo misterioso e impenetrabile: il ciclo mestruale, sostenevano gli ingegneri che lavoravano per la NASA, avrebbe comportato il rischio di sbalzi d’umore che avrebbero potuto compromettere le missioni, mentre il corpo femminile avrebbe richiesto tute spaziali apposite per «gestire le particolari esigenze e funzioni biologiche». Il direttore per le scienze biologiche della NASA, David Winter, affermò che «non esisteva alcun modo per gestire i rifiuti femminili» e che la raccolta delle urine in assenza di peso era un problema insormontabile per questioni di anatomia (gli uomini lo risolvevano utilizzando in sostanza un preservativo collegato a un condotto di scarico).
Oggi queste argomentazioni sembrano ridicole, considerato che la Stazione Spaziale Internazionale ospita regolarmente equipaggi composti da donne e uomini che condividono gli stessi rischi, le stesse mansioni, le stesse tute spaziali e la stessa tecnologia di gestione dei rifiuti fisiologici, ma all’epoca erano parte del sentire comune, non solo presso gli enti spaziali.
Il fatto che nella NASA degli anni Sessanta ci fossero anche alcune rare donne in posizioni importanti non altera quest’impostazione sessista pervasiva: il machismo, soprattutto fra gli astronauti, era parte integrante della cultura dell’ente e lo rimase a lungo. Lo racconta bene, con rammarico e col senno di poi, l’astronauta Shuttle Mike Mullane nel suo libro Riding Rockets; proprio a lui, peraltro, toccò di veder morire nello spazio Judy Resnik, una delle sue compagne di addestramento.
5. Alla NASA c’era posto per le donne
A proposito di rare donne alla NASA, le fotografie delle sale controllo dell’ente spaziale durante gli anni degli sbarchi sulla Luna sono una distesa di volti esclusivamente maschili, e questo ha contribuito a formare il mito che la NASA fosse un club sostanzialmente riservato agli uomini, nel quale però le donne potevano entrare alla pari se avevano meriti straordinari.
A sostegno di questa visione viene citato spesso l’esempio di Margaret Hamilton, che a 33 anni era il direttore e supervisore della programmazione del software del programma Apollo. Fu lei, insieme alla propria squadra, a definire i criteri di progettazione e di collaudo del software che faceva funzionare il computer di bordo del Modulo Lunare, il veicolo che portò gli astronauti sulla Luna. Senza quel software, sarebbe stato impossibile allunare manualmente. Ma Margaret Hamilton non era dipendente della NASA: lavorava presso il MIT.
Un caso meno conosciuto ma più calzante è invece quello di JoAnn Morgan, l’unica donna autorizzata a stare nella sala di controllo del lancio della NASA in Florida, che veniva sigillata mezz'ora prima del decollo di un vettore spaziale. Morgan era chiusa dentro la sala, insieme a tutti gli altri controllori, al momento della partenza di Apollo 11 per la Luna. A soli 28 anni, infatti, era capo controllore della strumentazione, responsabile per i computer di guida del razzo, dei sistemi parafulmine e antincendio della rampa di lancio, delle comunicazioni operative e dei circuiti televisivi.
Ma per autorizzarla a rimanere nella sala di controllo era stato necessario risalire tutta la gerarchia e ottenere il permesso esplicito del direttore del centro di lancio, Kurt Debus. Una donna poteva quindi raggiungere incarichi di importanza fondamentale alla NASA degli anni Sessanta, ma per farlo doveva superare ostacoli ben più alti di quelli imposti agli uomini, e sopportare il sessismo intrinseco nell’architettura del centro spaziale. Non solo veniva molestata dai colleghi con chiamate oscene sul posto di lavoro, ma in molti edifici non c’erano neanche toilette per le donne, per cui doveva chiamare una guardia affinché ne sgomberasse una degli uomini.
6. La Russia non interferì
La percezione comune della cosiddetta “corsa alla Luna” è che i sovietici si rifiutarono subito di partecipare alla sfida lanciata da Kennedy e lasciarono che gli americani corressero da soli e indisturbati. Persino lo stimatissimo giornalista televisivo statunitense Walter Cronkite, storico conduttore delle dirette televisive spaziali, dichiarò pubblicamente nel 1974 che i soldi spesi per le missioni Apollo erano stati sprecati, perché «non c’era mai stata una corsa alla Luna». Ma la realtà fu ben diversa.
È vero che il 16 maggio 1969 il capo dell’Accademia Sovietica delle Scienze Mstislav V. Keldysh annunciò in conferenza stampa che l’URSS avrebbe usato soltanto veicoli robotici per esplorare la Luna e non avrebbe rischiato vite umane nell’impresa. Ma l’annuncio arrivò dopo che l’Unione Sovietica, in gran segreto, aveva lavorato per anni a progettare e costruire un vettore lunare gigante, denominato N1, e un veicolo per scendere sulla Luna con un singolo cosmonauta.
Il vettore effettuò quattro voli di prova, che si conclusero con quattro esplosioni disastrose. Keldysh fece il proprio annuncio tre mesi dopo il primo di questi costosissimi fallimenti e il progetto proseguì fino al 1972, sempre in segreto. I servizi di spionaggio statunitensi erano al corrente del piano sovietico grazie ai satelliti spia, ma non potevano dichiararlo pubblicamente per non rivelare le proprie capacità osservative. La vicenda fu rivelata ufficialmente dalle autorità di Mosca solo nel 1989.
L’Unione Sovietica tentò di vincere la corsa alla Luna anche in altri modi. Lanciò diversi veicoli senza equipaggio verso la Luna, con l’intento di raccogliere campioni di roccia lunare prima degli Stati Uniti e quindi di dimostrare la futilità della scelta americana di mandare degli esseri umani a fare quello che un robot poteva fare senza pericolo per la vita di nessuno, e a costi molto inferiori. Ma tutti questi tentativi fallirono: l’ultimo, denominato Luna 15, avvenne proprio mentre i primi astronauti americani, Armstrong e Aldrin, finivano la propria storica escursione sulla superficie lunare. Il veicolo russo si schiantò contro una montagna durante la discesa verso il suolo della Luna.
La già citata Joann Morgan, inoltre, riferì che durante le missioni Apollo 8, 9 e 10 i sovietici tentarono di disturbare i comandi inviati via radio dal centro di controllo verso il veicolo spaziale. Avevano collocato dei pescherecci e dei sommergibili in acque internazionali e da lì emettevano segnali radio per interferire con i lanci e farli fallire. La NASA rispose installando sistemi di contromisura elettronica e addestrando gli astronauti a compiere il viaggio verso la Luna anche senza assistenza da Terra, e il volo di Apollo 11 andò regolarmente.
7. Tutto andò perfettamente
Capita spesso di sentire considerazioni meravigliate sulla perfezione dei voli lunari Apollo. Ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, andare sulla Luna è sinonimo di precisione e affidabilità tecnologica, e gli astronauti furono perfetti e impassibili gentiluomini nonostante le condizioni così rischiose.
Ma in realtà questa perfezione è soltanto un’impressione dettata dalla conoscenza superficiale degli eventi e dal fatto che l’importanza politica delle missioni lunari impose alla NASA e ai mass-media un velo di discrezione sugli errori, sugli aspetti meno dignitosi e sui fallimenti. Essendo in gioco il prestigio nazionale negli Stati Uniti ed essendoci il desiderio di una narrazione eroica negli altri Paesi, non fu dato molto risalto ai problemi. Ma alcuni furono talmente grandi da non poter essere nascosti.
Non va dimenticato, infatti, che su sette missioni di allunaggio tentate, una fallì (Apollo 13). Tre astronauti (White, Grissom e Chaffee) morirono sulla rampa di lancio (Apollo 1). Inoltre, tutte le missioni ebbero problemi che per poco non portarono al disastro o all’annullamento.
Durante il volo di Apollo 7, il primo del programma lunare statunitense, in cabina si formarono accumuli d’acqua proveniente dagli impianti di raffreddamento: rischio grave, in un ambiente pieno di circuiti elettrici. Inoltre, l’equipaggio fu colpito da un raffreddore che bloccò le vie nasali: problema serio in una missione spaziale, perché in assenza di peso il muco si accumula invece di defluire e soffiarsi il naso causa forti dolori alle orecchie. E durante il rientro, con la testa incapsulata nel casco, gli astronauti non avrebbero potuto soffiarsi il naso per compensare l’accumulo di pressione, che avrebbe potuto sfondare loro i timpani. Nonostante il parere contrario della NASA, gli astronauti eseguirono il rientro senza casco e non subirono danni.
L’equipaggio di Apollo 7 rifiutò ripetutamente gli ordini del Controllo Missione e il comandante, Walter Schirra, si lamentò senza troppi giri di parole per il carico di lavoro senza precedenti, parlando apertamente di «esperimenti mal preparati e concepiti frettolosamente da un idiota» e dicendo che il suo equipaggio non aveva alcuna intenzione di «accettare altri giochetti... o fare qualche test folle di cui non abbiamo mai sentito parlare prima». Fu una delle varie ribellioni, poco pubblicizzate, degli equipaggi.
La prima circumnavigazione umana della Luna, effettuata da Apollo 8, fu disturbata dal vomito e dalla diarrea del comandante, Frank Borman, che per poco non obbligarono a un ritorno anticipato sulla Terra. Il sigillante di tre dei cinque finestrini del veicolo spaziale ebbe delle perdite che offuscarono la visuale, guastando le osservazioni necessarie per la navigazione e le foto della Luna, inoltre gli accumuli d’acqua in cabina già visti per Apollo 7 si ripresentarono. Come se non bastasse, durante il volo l’astronauta James Lovell cancellò per errore parte della memoria del computer, per cui il sistema di misurazione della posizione credette che la capsula fosse ancora sulla rampa di lancio e accese automaticamente i motori di manovra per tentare di correggere il problema. Gli astronauti dovettero calcolare e reimmettere manualmente i dati corretti.
In Apollo 9, invece, l’astronauta Rusty Schweickart vomitò ripetutamente a causa della nausea da assenza di peso, e questo costrinse ad annullare una passeggiata spaziale per collaudare la tuta extraveicolare da usare sulla Luna nelle missioni successive. Uno dei gruppi di motori di manovra del veicolo non funzionò a causa di un commutatore urtato per errore.
Apollo 10, la prova generale dell’allunaggio, ebbe un’avaria a soli 15 chilometri dalla superficie lunare: un’impostazione errata dei comandi fece girare su se stesso il Modulo Lunare (la scialuppa di allunaggio che conteneva due dei tre astronauti e si sganciava dal veicolo principale per scendere sulla Luna), rischiando di perdere l’assetto e di precipitare fatalmente verso la Luna. Uno di questi due astronauti, Gene Cernan, si lasciò scappare un accorato «Son of a bitch! (“Figlio di puttana!”)» a microfono aperto che fu ascoltato dal pubblico mondiale sulla Terra.
Anche la missione di primo allunaggio, Apollo 11, rischiò di fallire: durante la discesa verso la superficie della Luna, il computer del Modulo Lunare, indispensabile per atterrare correttamente, si sovraccaricò ripetutamente, e la spinta del motore di discesa subì delle fluttuazioni estreme a causa dell’instabilità del software di controllo, rischiando di interrompere pericolosamente la discesa.
Le comunicazioni radio in orbita lunare furono talmente disturbate e frammentarie che Armstrong e Aldrin non udirono il via all’allunaggio da parte del Controllo Missione. Per fortuna, Michael Collins, nel veicolo spaziale principale, lo udì e lo riferì ai suoi compagni che stavano nel Modulo Lunare.
Terminato l’allunaggio, uno dei condotti di convogliamento del propellente del Modulo Lunare si congelò e non sfiatò correttamente, creando un accumulo di pressione potenzialmente esplosivo. Solo il Controllo Missione se ne accorse e chiese con discrezione agli astronauti di attivare manualmente lo sfiato.
Dopo l’escursione lunare, prima di decollare, gli astronauti si accorsero che la manopola di un interruttore di alimentazione dei circuiti del motore a razzo necessario per decollare era stata rotta, probabilmente dall’urto dello zaino della tuta di Aldrin, e non era più azionabile. Senza chiudere quell’interruttore, non potevano decollare. C’erano delle complicate soluzioni alternative, ma gli astronauti improvvisarono usando un pennarello per chiudere l’interruttore rotto.
Al rientro dalla Luna, quando il Modulo Lunare si riagganciò al veicolo principale, l’allineamento leggermente errato dei due veicoli li fece ruotare su loro stessi. I rispettivi computer di bordo si contrastarono a vicenda, facendo girare ancora più all’impazzata i due veicoli agganciati. Soltanto la bravura di Collins e Armstrong permise di correggere manualmente la rotazione caotica e riprendere il controllo.
La missione Apollo 12, invece, fu addirittura colpita da un fulmine durante il decollo dalla Terra: questo causò lo spegnimento completo dei computer di bordo. Soltanto un suggerimento inviato dai tecnici a terra via radio permise di riavviare i computer e ripristinare la telemetria, evitando che la missione venisse interrotta immediatamente.
Durante la diretta TV dalla Luna, la telecamera fu puntata contro il Sole per errore e il suo delicato sensore si bruciò, rendendola inservibile e terminando le trasmissioni televisive dell’escursione lunare.
Nell’ammaraggio a fine missione, il vento fece oscillare la capsula appesa ai paracadute e gli astronauti subirono ben 15 g di decelerazione all’impatto con l’oceano; una cinepresa cadde dal proprio supporto e colpì Alan Bean alla tempia. Se fosse caduta pochi centimetri più a sinistra avrebbe causato un trauma cranico potenzialmente fatale.
Come già accennato, a bordo di Apollo 13 scoppiò un serbatoio d’ossigeno, togliendo riserve di aria ed energia agli astronauti. Fu necessario usare il Modulo Lunare come scialuppa d’emergenza e rientrare precipitosamente sulla Terra dopo un giro intorno alla Luna. L’astronauta James Lovell dovette riallineare manualmente i sistemi di navigazione traguardando le stelle.
Durante Apollo 14, il sistema d’aggancio fra Modulo Lunare e astronave principale fallì cinque volte prima di funzionare. Un residuo fluttuante di materiale di saldatura all’interno di un pulsante fondamentale faceva attivare a intermittenza nel computer un falso segnale di interruzione della manovra in corso, rischiando di interrompere erroneamente la discesa verso la Luna. Appena in tempo, la NASA e il MIT riuscirono a scrivere e trasmettere istruzioni per riprogrammare il computer in modo che ignorasse il segnale fasullo.
Per Apollo 15 i guai seri arrivarono al ritorno: uno dei tre paracadute d’ammaraggio non funzionò correttamente, causando un impatto violento con la superficie dell’oceano. Il malfunzionamento fu causato probabilmente dallo sfiato di propellenti, che avrebbe potuto danneggiare anche gli altri due paracadute, con conseguenze fatali per l’equipaggio.
Apollo 16 si trovò con il motore principale, indispensabile per tornare sulla Terra, che segnalava un’avaria mentre il veicolo era in orbita intorno alla Luna. Fu quasi annullato l’allunaggio. Fortunatamente l’avaria era un falso allarme.
Durante l’ultima missione lunare, Apollo 17, uno degli astronauti ruppe per errore uno dei “parafanghi” dell’auto elettrica usata per spostarsi sulla superficie lunare, per cui la polvere lunare sollevata dalle sue ruote ricadde abbondantemente sul veicolo, causando problemi meccanici e termici. Gli astronauti furono costretti a improvvisare una riparazione mentre erano sulla Luna. Durante la risalita dalla Luna, invece, il Controllo Missione perse il contatto radio con il Modulo Lunare. Per quattro minuti mancò completamente la telemetria dal Modulo e il pilota del veicolo principale dovette ripetere tutto quello che gli astronauti del Modulo Lunare volevano riferire a Terra.
8. Gli astronauti erano superuomini
Per quanto fossero selezionati per la loro ottima forma fisica e con l’intento politico di rappresentare l’ideale americano del ruolo maschile, i primi astronauti del programma spaziale statunitense si rivelarono spesso tutt’altro che perfetti, anche se la stampa, mossa da un patriottismo oggi quasi inconcepibile, decise di glissare.
Non mancarono infatti le infedeltà coniugali, messe diligentemente a tacere dai coordinatori della NASA, che ci tenevano a mostrare all’opinione pubblica mondiale famiglie perfette. Un divorzio avrebbe comportato la fine della carriera, per cui le mogli sopportavano e fingevano di non vedere e non sapere. Gordon Cooper, per esempio, era separato dalla moglie Trudy in seguito a una relazione extraconiugale che l‘uomo aveva intrattenuto a lungo, ma la moglie decise di tornare da lui e fingere un matrimonio felice pur di non perdere lo status di celebrità che derivava dall’essere moglie di un astronauta, e questo permise a Cooper di partecipare a due missioni (Mercury-Atlas 9 e Gemini 5). Anche Donn Eisele (Apollo 7) aveva una relazione analoga; tutto fu messo a tacere.
Fumare e bere erano la norma per qualunque pilota dell’epoca, ma Buzz Aldrin cadde nell’alcolismo e lottò per anni contro la depressione. Come già accennato, Frank Borman (Apollo 8) e Rusty Schweickart (Apollo 9) subirono attacchi di nausea prodotti dall’assenza di peso: all’epoca non c’era modo di capire in anticipo chi ne sarebbe stato colpito.
Pete Conrad arrivò fino alla Luna, con la missione Apollo 12, combattendo contro la dislessia. Alan Shepard (Apollo 14) divenne il più anziano degli astronauti lunari, visitando la Luna a 47 anni, perché era stato colpito dalla sindrome di Menière, un disturbo dell’orecchio interno che gli aveva compromesso l’equilibrio. Si era però sottoposto a un delicato intervento sperimentale, che era andato bene e gli aveva permesso di tornare a far parte del corpo astronauti.
Si è scritto molto delle presunte crisi mistiche degli astronauti, ipotizzando che siano state indotte dall’esperienza straordinaria di viaggiare nello spazio, ma in realtà molti di loro avevano già una visione mistica o fortemente religiosa, molto comune in quegli anni, che il viaggio contribuì semmai a rinforzare. Edgar Mitchell (Apollo 14) fece esperimenti premeditati di telepatia durante la propria missione e si appassionò all’ufologia; James Irwin (Apollo 15) dedicò il resto della propria vita alla religione cristiana, interpretando la Bibbia in modo letterale e andando in Turchia a cercare i resti dell’Arca di Noè. Anche Charlie Duke (Apollo 16) trovò conforto nella religione e oggi si proclama apertamente creazionista.
Ed è forse la loro imperfetta umanità a rendere ancora più straordinarie le loro imprese.