Vi siete mai chiesti perché, talvolta, il semplice fatto di leggere quali sono gli effetti indesiderati di un farmaco ci può portare a provarne alcuni? È davvero il farmaco a provocarli o è il nostro cervello?
Nonostante un farmaco posa effettivamente produrre degli effetti collaterali a causa dei suoi principi attivi, il nostro cervello è in grado di simulare tali effetti anche quando non viene assunto alcun principio attivo. Questo fenomeno è chiamato effetto nocebo e si riferisce a un peggioramento indotto da un trattamento che, però, è completamente inefficace. È la controparte del più noto effetto placebo[1], che a sua volta consiste in un miglioramento indotto da un trattamento inefficace. A livello evolutivo, questi due effetti coesistono per permetterci di anticipare situazioni di minaccia e pericolo (effetto nocebo), e promuovere comportamenti sicuri (effetto placebo)[2].
È importante differenziare l’effetto nocebo dalla risposta nocebo. Il primo si riferisce al contesto psicosociale (negativo) in cui la persona è inserita, al trattamento e alle basi neurobiologiche che sottendono l’effetto. La risposta nocebo, invece, si riferisce a fattori non specifici (tra cui stress e condizioni fisiologiche) che, però, possono contribuire a indurre il peggioramento di una condizione[3].
Tra i fattori che influenzano lo sviluppo dell’effetto nocebo ci sono le aspettative verso l’effetto del trattamento, che possono essere create da suggestioni verbali, l’apprendimento, l’osservazione di altri e la complessità della relazione medico-paziente.
L’aspettativa può essere elicitata da informazioni verbali o suggerimenti. Uno dei primi studi sul nocebo ha arruolato soggetti sani e ha dimostrato come il fatto di avvisare le persone che il mal di testa potesse essere un eventuale effetto collaterale della stimolazione cerebrale a cui venivano sottoposti, portasse i partecipanti ad esperire esattamente questo sintomo[4]. La forza delle parole non si ferma qui. È infatti possibile anche modificare l’effetto di un farmaco tramite le informazioni fornite verbalmente. Nel 1999, Flaten e i suoi collaboratori hanno somministrato ad un gruppo di soggetti sani un farmaco, dicendo loro che era uno stimolante. I partecipanti hanno infatti percepito un aumento della tensione, come era stato loro preventivato. Tuttavia il farmaco utilizzato era un miorilassante. Tramite le informazioni verbali, gli sperimentatori sono quindi riusciti ad invertire l’effetto del farmaco[5].
Anche informare i pazienti relativamente all’interruzione di un trattamento può portare a sviluppare degli effetti collaterali, nonostante il trattamento sia ancora in atto. Uno studio ha coinvolto pazienti affetti da Morbo di Parkinson che sono stati sottoposti a deep brain stimulation, una procedura neurologica che consiste nell’impiantare un dispositivo che produce stimolazioni elettriche (neurostimolatore) in aree cerebrali specifiche per il controllo del movimento, al fine di implementarlo. Durante l’esperimento, ad un gruppo di pazienti è stato detto che il trattamento sarebbe stato interrotto e che ciò avrebbe comportato la comparsa di bradicinesia, ossia un disturbo neurologico a causa del quale il paziente ha difficoltà ad iniziare un nuovo movimento, e, quando riesce ad effettuarlo, questo risulta rallentato. Un secondo gruppo, invece, non è stato informato che la stimolazione sarebbe stata interrotta. Nonostante il trattamento sia stato sospeso in entrambi i gruppi, i pazienti che erano stati informati di tale interruzione hanno riportato un significativo peggioramento nel controllo del movimento, rispetto ai pazienti che non avevano ricevuto le stesse informazioni[6]. Recentemente è stato dimostrato che anche il valore delle informazioni riguardanti un determinato trattamento influenza la forza dell’effetto nocebo. Nello specifico, in questo studio gli sperimentatori hanno presentato ai partecipanti una crema che, nonostante portasse sollievo da una sensazione pruriginosa, provocava un aumento della sensibilità al dolore (iperalgesia) nella zona in cui veniva applicata. La confezione della crema era stata modificata nel nome e nel prezzo del prodotto in modo che ad un gruppo venisse data una crema identificata come economica, mentre all’altro gruppo venisse data una crema riconosciuta come molto costosa. In realtà, entrambi i gruppi hanno ricevuto una crema neutra, senza alcun principio attivo. I risultati hanno chiaramente mostrato come il gruppo di partecipanti che riceveva la crema considerata più costosa mostrasse un’iperalgesia (effetto nocebo) molto più marcata rispetto al gruppo che aveva ricevuto la crema economica. In questi soggetti è stata anche registrata l’attività cerebrale e, nel gruppo che aveva ricevuto la crema costosa, è stata identificata un’attivazione più accentuata della corteccia prefrontale, zona molto importante per la pianificazione dei comportamenti e la presa di decisioni. Inoltre, l’attivazione di altre aree molto importanti nella modulazione del dolore, quali ad esempio la corteccia cingolata anteriore e la sostanza grigia periacqueduttale, ha portato gli sperimentatori a concludere che, probabilmente, le aspettative di effetti collaterali unite al valore economico elevato della crema hanno portato a una facilitazione dei processi nocicettivi non solo a livello corticale, ossia del cervello, ma anche a livello del midollo spinale[7].
L’apprendimento, invece, sottende l’esperire concretamente gli effetti di un trattamento: dopo la ripetuta associazione tra uno stimolo (ad esempio una pastiglia) e il suo effetto (ad esempio, l’aumento di dolore), tenderemo ad associare le caratteristiche dello stimolo con quel preciso effetto. Di conseguenza, se dopo aver preso un farmaco per alleviare il mal di testa, sviluppiamo un dolore addominale, otterremo lo stesso effetto collaterale anche prendendo una pastiglia di forma e colore uguali a quella originaria, anche se quest’ultima contiene semplicemente vitamine. Nel caso specifico dell’effetto nocebo, la risposta negativa può essere appresa anche da precedenti esperienze infruttuose relativamente all’efficacia di un farmaco o di un trattamento. Questo effetto, inoltre, persiste nel tempo e la sua durata dipende anche dal numero di associazioni precedentemente esperite. In un esperimento[8], per esempio, i ricercatori avevano spiegato ai partecipanti (sani) di essere interessanti a studiare il dolore e che per questo motivo avrebbero applicato sull’avambraccio dei soggetti un dispositivo che riproduceva una stimolazione termica. Ogni stimolo termico veniva preceduto dalla rappresentazione visiva di un colore, che ne indicava l’intensità. Nello specifico, il rosso segnalava ai partecipanti una stimolazione termica alta (abbastanza dolorosa), il giallo una stimolazione di media intensità, e il verde una stimolazione di bassa intensità (non dolorosa). Per diverse sessioni i partecipanti hanno ricevuto tre diversi livelli di stimolazione, come anticipato dai diversi colori presentati sullo schermo di un computer. Dopo ciascuna stimolazione veniva chiesto ai soggetti di quantificare il dolore percepito su una scala da 0 (nessun dolore) a 100 (il peggior dolore immaginabile). Durante l’ultima sessione dello studio, invece, nonostante continuassero ad essere presentati tre tipi di stimoli visivi (rosso, giallo, verde), la stimolazione termica era sempre somministrata allo stesso livello di intensità, ossia medio. I partecipanti non erano stati informati di questo cambiamento e i risultati hanno evidenziato che, anche nell’ultima sessione, i soggetti hanno continuato a riferire (e quindi percepire) tre diversi livelli di dolore, in accordo con i diversi colori presentati. Per esempio, la stimolazione ricevuta dopo il colore rosso è stata percepita come dolorosa anche se non lo era (effetto nocebo). Perché questo succede? Perché ai partecipanti era stato detto che dopo il colore rosso avrebbero ricevuto una stimolazione dolorosa, sensazione che avevano in effetti esperito nelle diverse sessioni. Ancora più interessante è il fatto che il gruppo che aveva fatto quattro sessioni di associazione tra gli stimoli visivi e quelli termici mostrava un effetto nocebo più marcato e più duraturo rispetto al gruppo che aveva fatto una sola sessione associativa.
Anche il contesto in cui si sviluppano le aspettative e si apprendono gli effetti di un trattamento è importante. Se è sempre lo stesso medico, nello stesso ambulatorio, a somministrarci sempre la stessa pastiglia, le nostre aspettative riguardo il trattamento saranno più forti e gli effetti, quindi, saranno più marcati.
Le aspettative che sviluppiamo, l’esperienza che facciamo e l’importanza che diamo al contesto in cui ci troviamo sono stimoli molto importanti che vengono attentamente elaborati dal nostro cervello. L’effetto nocebo ha, infatti, dei chiari correlati neurolobiologici individuati grazie a ricerche fatte principalmente nell’ambito del dolore. Studi che hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno riportato l’attivazione della corteccia cingolata anteriore, della sostanza grigia periacqueduttale, della corteccia prefrontale, dell’insula, del talamo e dell’ippocampo. Queste aree fanno parte di quella che viene chiamata “matrice del dolore” e contribuiscono allo sviluppo degli aspetti affettivo-emozionali e cognitivi dell’esperienza del dolore[9],[10]. L’effetto nocebo è, inoltre, mediato anche da specifici neurotrasmettitori, ossia specifiche sostanze che veicolano le informazioni all’interno del sistema nervoso. Le aspettative negative, infatti, sono responsabili di due effetti opposti che avvengono nel nostro cervello. Da una parte c’è l’attivazione del sistema delle colecistochinine, più comunemente conosciute per essere coinvolte nella regolazione del senso di sazietà, e del sistema ipotalamo-ipofisi-cortico-surrene, ossia l’asse dello stress che produce cortisolo, corrispondente endogeno del cortisone. Questi due sistemi vengono attivati dalle aspettative negative in quanto sono legati, rispettivamente, alla trasmissione dolorosa e all’ansia anticipatoria. Dire a una persona che proverà più dolore crea, infatti, una situazione molto stressante che viene comunemente accompagnata da uno stato d’ansia. Dall’altra parte, invece, si verifica una deattivazione degli oppioidi endogeni[11],[12],[13], ossia neuropeptidi deputati ad alleviare la sensazione di dolore, e del sistema dopaminergico, ossia un sistema neurotrasmettitoriale che regola funzioni cognitive, motorie e motivazionali.
Ma, quindi, dati tutti questi aspetti cognitivi, contestuali e neurobiologici che caratterizzano l’effetto nocebo, possiamo dire che tutte le persone, poste nella stessa situazione esperiscono gli stessi effetti alla stessa intensità? No, non è esattamente così.
Ogni persona è, per definizione, diversa dalle altre. Tra le caratteristiche che più ci contraddistinguono c’è la personalità. Con questo termine ci riferiamo a caratteristiche psicologiche, inclinazioni e interessi, che vanno a costituire il centro e la peculiarità di ogni persona. La personalità è un concetto dinamico, ossia si sviluppa e si modifica nell’arco della vita, e deriva dall’interazione tra fattori innati, educativi ed ambientali. Una delle teorie più conosciute per spiegare la personalità è la teoria dei Big Five, ossia cinque tratti di personalità considerati cardine[14]. Tra questi troviamo: l’estroversione (intesa come grado di socievolezza, loquacità e attivazione), la gradevolezza (ossia l’essere comprensivi, generosi, affettuosi, e avere relazioni interpersonali positive), la coscienziosità (intesa come precisione, affidabilità, perseveranza e capacità di pianificazione), il nevroticismo (caratteristico di persone insicure, timide e preoccupate) e l’apertura all’esperienza (ossia l’essere originali, fantasiosi, audaci, sempre alla ricerca di stimoli ed esperienze nuove).
Negli ultimi anni, diversi studi hanno cercato di capire l’influenza che i tratti di personalità possono avere sull’effetto nocebo e se questi possono, in qualche modo, essere predittivi della grandezza di tale effetto. In uno di questi, gli sperimentatori hanno notato che, nonostante i partecipanti (sani) venissero sottoposti alla stessa procedura nocebo, non tutti mostravano lo stesso effetto. Per questo motivo sono stati indagati i tratti di personalità e come questi influenzassero il modo in cui le persone percepivano il trattamento che veniva somministrato[15]. I risultati hanno evidenziato che più le persone erano ansiose e caratterizzate da eccessiva paura e timidezza, più forti erano le loro credenze e aspettative relativamente agli effetti negativi del trattamento. Analogamente, meno le persone erano ottimiste, determinate e ambiziose, più tendevano ad avere forti aspettative sugli effetti negativi del trattamento somministrato. Sappiamo dalla letteratura che il pessimismo e l’ansia sono tratti che dirigono molto l’attenzione delle persone verso stimoli negativi[16],[17]. Di coƒsi pnseguenza, in questo esperimento, coloro che hanno un alto livello di ansia e un basso livello di ottimismo, tendono ad essere maggiormente inclini a prestare attenzione alle informazioni verbali relative agli effetti negativi conseguenti il trattamento.
Proprio perché la personalità è considerata come un continuum di tratti che interagiscono tra loro, non basta individuare quali tratti di personalità influenzano l’effetto nocebo, ma è importante capire anche come i tratti possano interagire nel rendere questo effetto più marcato. Per questo motivo, un recente studio sul dolore ha attentamente analizzato quali fossero i tratti di personalità che erano stati identificati come influenzanti l’effetto nocebo[18]. Sono emersi principalmente: l’ansia di stato (ossia relativa a uno specifico momento), l’ansia di tratto (intesa come caratteristica permanente), la depressione, il nevroticismo, l’apertura mentale e l’estroversione, la suggestionabilità, la paura del dolore, la catastrofizzazione e la preoccupazione per il dolore. I soggetti che hanno partecipato a questo studio sono stati sottoposti a una procedura nocebo, in cui venivano somministrate delle stimolazioni termiche di diverse intensità. Alla fine dell’esperimento, veniva chiesto ai partecipanti di compilare una batteria di questionari di personalità. I risultati di questo studio hanno mostrato che l’ansia e la suggestionabilità correlavano positivamente con la risposta nocebo, ma anche che, aggregando diversi tratti di personalità, si poteva predire in maniera più o meno accurata la risposta nocebo. In particolare, considerando per esempio solo la sensibilità all’ansia, che si riferisce a sensazioni associate all’ansia e può portare a interpretazioni erronee delle sensazioni corporee come il dolore, si può spiegare il 20% della variabilità nella risposta nocebo. Se, invece, oltre all’ansia si considerano anche tratti quali la depressione, l’apertura mentale e l’estroversione, si può spiegare fino al 49% della variabilità nella risposta nocebo. Questi risultati sono molto importanti ed innovativi, e contribuiscono a trovare risposta a una delle domande divenute centrali in ambito di effetti placebo e nocebo: perché alcune persone rispondono a questi effetti e altre no? Perché alcune persone rispondono in maniera più marcata a questi effetti?
Nonostante queste domande debbano ancora trovare una risposta esaustiva, l’importanza dell’effetto nocebo nell’ambito clinico è ormai consolidata. Il ruolo delle aspettative negative e del precedente apprendimento degli effetti è centrale. Per questo motivo è molto importante cercare di non promuovere aspettative negative quando si tratta di comunicare una diagnosi e proporre un trattamento. Le parole che scegliamo e i metodi comunicativi che utilizziamo influenzano la comprensione della diagnosi, il trattamento e, successivamente, anche il suo effetto. Come comunichiamo è essenziale per influenzare sia l’intensità che la severità con cui vengono esperiti gli effetti di un trattamento. Al contempo, è altrettanto necessario dare ai pazienti informazioni accurate e veritiere nel rispetto della loro autonomia e del loro diritto di essere informati in maniera esaustiva[19]. Una buona comunicazione con i pazienti non è confinata alla sola spiegazione di quali sono i potenziali effetti avversi di un trattamento. Comunicare significa soprattutto creare un rapporto positivo ed empatico tra medico e paziente. Significa costruire un contesto accogliente, perché il contesto, per il paziente, è il primo contatto e il primo indicatore che può portare allo sviluppo di aspettative negative.
In questa cornice è importante considerare l’unicità di ogni paziente, con le sue caratteristiche, i suoi punti di forza e le sue debolezze. L’obiettivo è evitare che le parole diventino un elemento di vulnerabilità per il paziente, anziché essere un punto di forza. Per questo motivo è necessario sviluppare una comunicazione che sia quanto più personalizzata, al fine di ottenere i migliori risultati diagnostici e terapeutici per i pazienti e ridurre le loro sofferenze.
Nonostante un farmaco posa effettivamente produrre degli effetti collaterali a causa dei suoi principi attivi, il nostro cervello è in grado di simulare tali effetti anche quando non viene assunto alcun principio attivo. Questo fenomeno è chiamato effetto nocebo e si riferisce a un peggioramento indotto da un trattamento che, però, è completamente inefficace. È la controparte del più noto effetto placebo[1], che a sua volta consiste in un miglioramento indotto da un trattamento inefficace. A livello evolutivo, questi due effetti coesistono per permetterci di anticipare situazioni di minaccia e pericolo (effetto nocebo), e promuovere comportamenti sicuri (effetto placebo)[2].
È importante differenziare l’effetto nocebo dalla risposta nocebo. Il primo si riferisce al contesto psicosociale (negativo) in cui la persona è inserita, al trattamento e alle basi neurobiologiche che sottendono l’effetto. La risposta nocebo, invece, si riferisce a fattori non specifici (tra cui stress e condizioni fisiologiche) che, però, possono contribuire a indurre il peggioramento di una condizione[3].
Tra i fattori che influenzano lo sviluppo dell’effetto nocebo ci sono le aspettative verso l’effetto del trattamento, che possono essere create da suggestioni verbali, l’apprendimento, l’osservazione di altri e la complessità della relazione medico-paziente.
L’aspettativa può essere elicitata da informazioni verbali o suggerimenti. Uno dei primi studi sul nocebo ha arruolato soggetti sani e ha dimostrato come il fatto di avvisare le persone che il mal di testa potesse essere un eventuale effetto collaterale della stimolazione cerebrale a cui venivano sottoposti, portasse i partecipanti ad esperire esattamente questo sintomo[4]. La forza delle parole non si ferma qui. È infatti possibile anche modificare l’effetto di un farmaco tramite le informazioni fornite verbalmente. Nel 1999, Flaten e i suoi collaboratori hanno somministrato ad un gruppo di soggetti sani un farmaco, dicendo loro che era uno stimolante. I partecipanti hanno infatti percepito un aumento della tensione, come era stato loro preventivato. Tuttavia il farmaco utilizzato era un miorilassante. Tramite le informazioni verbali, gli sperimentatori sono quindi riusciti ad invertire l’effetto del farmaco[5].
Anche informare i pazienti relativamente all’interruzione di un trattamento può portare a sviluppare degli effetti collaterali, nonostante il trattamento sia ancora in atto. Uno studio ha coinvolto pazienti affetti da Morbo di Parkinson che sono stati sottoposti a deep brain stimulation, una procedura neurologica che consiste nell’impiantare un dispositivo che produce stimolazioni elettriche (neurostimolatore) in aree cerebrali specifiche per il controllo del movimento, al fine di implementarlo. Durante l’esperimento, ad un gruppo di pazienti è stato detto che il trattamento sarebbe stato interrotto e che ciò avrebbe comportato la comparsa di bradicinesia, ossia un disturbo neurologico a causa del quale il paziente ha difficoltà ad iniziare un nuovo movimento, e, quando riesce ad effettuarlo, questo risulta rallentato. Un secondo gruppo, invece, non è stato informato che la stimolazione sarebbe stata interrotta. Nonostante il trattamento sia stato sospeso in entrambi i gruppi, i pazienti che erano stati informati di tale interruzione hanno riportato un significativo peggioramento nel controllo del movimento, rispetto ai pazienti che non avevano ricevuto le stesse informazioni[6]. Recentemente è stato dimostrato che anche il valore delle informazioni riguardanti un determinato trattamento influenza la forza dell’effetto nocebo. Nello specifico, in questo studio gli sperimentatori hanno presentato ai partecipanti una crema che, nonostante portasse sollievo da una sensazione pruriginosa, provocava un aumento della sensibilità al dolore (iperalgesia) nella zona in cui veniva applicata. La confezione della crema era stata modificata nel nome e nel prezzo del prodotto in modo che ad un gruppo venisse data una crema identificata come economica, mentre all’altro gruppo venisse data una crema riconosciuta come molto costosa. In realtà, entrambi i gruppi hanno ricevuto una crema neutra, senza alcun principio attivo. I risultati hanno chiaramente mostrato come il gruppo di partecipanti che riceveva la crema considerata più costosa mostrasse un’iperalgesia (effetto nocebo) molto più marcata rispetto al gruppo che aveva ricevuto la crema economica. In questi soggetti è stata anche registrata l’attività cerebrale e, nel gruppo che aveva ricevuto la crema costosa, è stata identificata un’attivazione più accentuata della corteccia prefrontale, zona molto importante per la pianificazione dei comportamenti e la presa di decisioni. Inoltre, l’attivazione di altre aree molto importanti nella modulazione del dolore, quali ad esempio la corteccia cingolata anteriore e la sostanza grigia periacqueduttale, ha portato gli sperimentatori a concludere che, probabilmente, le aspettative di effetti collaterali unite al valore economico elevato della crema hanno portato a una facilitazione dei processi nocicettivi non solo a livello corticale, ossia del cervello, ma anche a livello del midollo spinale[7].
L’apprendimento, invece, sottende l’esperire concretamente gli effetti di un trattamento: dopo la ripetuta associazione tra uno stimolo (ad esempio una pastiglia) e il suo effetto (ad esempio, l’aumento di dolore), tenderemo ad associare le caratteristiche dello stimolo con quel preciso effetto. Di conseguenza, se dopo aver preso un farmaco per alleviare il mal di testa, sviluppiamo un dolore addominale, otterremo lo stesso effetto collaterale anche prendendo una pastiglia di forma e colore uguali a quella originaria, anche se quest’ultima contiene semplicemente vitamine. Nel caso specifico dell’effetto nocebo, la risposta negativa può essere appresa anche da precedenti esperienze infruttuose relativamente all’efficacia di un farmaco o di un trattamento. Questo effetto, inoltre, persiste nel tempo e la sua durata dipende anche dal numero di associazioni precedentemente esperite. In un esperimento[8], per esempio, i ricercatori avevano spiegato ai partecipanti (sani) di essere interessanti a studiare il dolore e che per questo motivo avrebbero applicato sull’avambraccio dei soggetti un dispositivo che riproduceva una stimolazione termica. Ogni stimolo termico veniva preceduto dalla rappresentazione visiva di un colore, che ne indicava l’intensità. Nello specifico, il rosso segnalava ai partecipanti una stimolazione termica alta (abbastanza dolorosa), il giallo una stimolazione di media intensità, e il verde una stimolazione di bassa intensità (non dolorosa). Per diverse sessioni i partecipanti hanno ricevuto tre diversi livelli di stimolazione, come anticipato dai diversi colori presentati sullo schermo di un computer. Dopo ciascuna stimolazione veniva chiesto ai soggetti di quantificare il dolore percepito su una scala da 0 (nessun dolore) a 100 (il peggior dolore immaginabile). Durante l’ultima sessione dello studio, invece, nonostante continuassero ad essere presentati tre tipi di stimoli visivi (rosso, giallo, verde), la stimolazione termica era sempre somministrata allo stesso livello di intensità, ossia medio. I partecipanti non erano stati informati di questo cambiamento e i risultati hanno evidenziato che, anche nell’ultima sessione, i soggetti hanno continuato a riferire (e quindi percepire) tre diversi livelli di dolore, in accordo con i diversi colori presentati. Per esempio, la stimolazione ricevuta dopo il colore rosso è stata percepita come dolorosa anche se non lo era (effetto nocebo). Perché questo succede? Perché ai partecipanti era stato detto che dopo il colore rosso avrebbero ricevuto una stimolazione dolorosa, sensazione che avevano in effetti esperito nelle diverse sessioni. Ancora più interessante è il fatto che il gruppo che aveva fatto quattro sessioni di associazione tra gli stimoli visivi e quelli termici mostrava un effetto nocebo più marcato e più duraturo rispetto al gruppo che aveva fatto una sola sessione associativa.
Anche il contesto in cui si sviluppano le aspettative e si apprendono gli effetti di un trattamento è importante. Se è sempre lo stesso medico, nello stesso ambulatorio, a somministrarci sempre la stessa pastiglia, le nostre aspettative riguardo il trattamento saranno più forti e gli effetti, quindi, saranno più marcati.
Le aspettative che sviluppiamo, l’esperienza che facciamo e l’importanza che diamo al contesto in cui ci troviamo sono stimoli molto importanti che vengono attentamente elaborati dal nostro cervello. L’effetto nocebo ha, infatti, dei chiari correlati neurolobiologici individuati grazie a ricerche fatte principalmente nell’ambito del dolore. Studi che hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno riportato l’attivazione della corteccia cingolata anteriore, della sostanza grigia periacqueduttale, della corteccia prefrontale, dell’insula, del talamo e dell’ippocampo. Queste aree fanno parte di quella che viene chiamata “matrice del dolore” e contribuiscono allo sviluppo degli aspetti affettivo-emozionali e cognitivi dell’esperienza del dolore[9],[10]. L’effetto nocebo è, inoltre, mediato anche da specifici neurotrasmettitori, ossia specifiche sostanze che veicolano le informazioni all’interno del sistema nervoso. Le aspettative negative, infatti, sono responsabili di due effetti opposti che avvengono nel nostro cervello. Da una parte c’è l’attivazione del sistema delle colecistochinine, più comunemente conosciute per essere coinvolte nella regolazione del senso di sazietà, e del sistema ipotalamo-ipofisi-cortico-surrene, ossia l’asse dello stress che produce cortisolo, corrispondente endogeno del cortisone. Questi due sistemi vengono attivati dalle aspettative negative in quanto sono legati, rispettivamente, alla trasmissione dolorosa e all’ansia anticipatoria. Dire a una persona che proverà più dolore crea, infatti, una situazione molto stressante che viene comunemente accompagnata da uno stato d’ansia. Dall’altra parte, invece, si verifica una deattivazione degli oppioidi endogeni[11],[12],[13], ossia neuropeptidi deputati ad alleviare la sensazione di dolore, e del sistema dopaminergico, ossia un sistema neurotrasmettitoriale che regola funzioni cognitive, motorie e motivazionali.
Ma, quindi, dati tutti questi aspetti cognitivi, contestuali e neurobiologici che caratterizzano l’effetto nocebo, possiamo dire che tutte le persone, poste nella stessa situazione esperiscono gli stessi effetti alla stessa intensità? No, non è esattamente così.
Ogni persona è, per definizione, diversa dalle altre. Tra le caratteristiche che più ci contraddistinguono c’è la personalità. Con questo termine ci riferiamo a caratteristiche psicologiche, inclinazioni e interessi, che vanno a costituire il centro e la peculiarità di ogni persona. La personalità è un concetto dinamico, ossia si sviluppa e si modifica nell’arco della vita, e deriva dall’interazione tra fattori innati, educativi ed ambientali. Una delle teorie più conosciute per spiegare la personalità è la teoria dei Big Five, ossia cinque tratti di personalità considerati cardine[14]. Tra questi troviamo: l’estroversione (intesa come grado di socievolezza, loquacità e attivazione), la gradevolezza (ossia l’essere comprensivi, generosi, affettuosi, e avere relazioni interpersonali positive), la coscienziosità (intesa come precisione, affidabilità, perseveranza e capacità di pianificazione), il nevroticismo (caratteristico di persone insicure, timide e preoccupate) e l’apertura all’esperienza (ossia l’essere originali, fantasiosi, audaci, sempre alla ricerca di stimoli ed esperienze nuove).
Negli ultimi anni, diversi studi hanno cercato di capire l’influenza che i tratti di personalità possono avere sull’effetto nocebo e se questi possono, in qualche modo, essere predittivi della grandezza di tale effetto. In uno di questi, gli sperimentatori hanno notato che, nonostante i partecipanti (sani) venissero sottoposti alla stessa procedura nocebo, non tutti mostravano lo stesso effetto. Per questo motivo sono stati indagati i tratti di personalità e come questi influenzassero il modo in cui le persone percepivano il trattamento che veniva somministrato[15]. I risultati hanno evidenziato che più le persone erano ansiose e caratterizzate da eccessiva paura e timidezza, più forti erano le loro credenze e aspettative relativamente agli effetti negativi del trattamento. Analogamente, meno le persone erano ottimiste, determinate e ambiziose, più tendevano ad avere forti aspettative sugli effetti negativi del trattamento somministrato. Sappiamo dalla letteratura che il pessimismo e l’ansia sono tratti che dirigono molto l’attenzione delle persone verso stimoli negativi[16],[17]. Di coƒsi pnseguenza, in questo esperimento, coloro che hanno un alto livello di ansia e un basso livello di ottimismo, tendono ad essere maggiormente inclini a prestare attenzione alle informazioni verbali relative agli effetti negativi conseguenti il trattamento.
Proprio perché la personalità è considerata come un continuum di tratti che interagiscono tra loro, non basta individuare quali tratti di personalità influenzano l’effetto nocebo, ma è importante capire anche come i tratti possano interagire nel rendere questo effetto più marcato. Per questo motivo, un recente studio sul dolore ha attentamente analizzato quali fossero i tratti di personalità che erano stati identificati come influenzanti l’effetto nocebo[18]. Sono emersi principalmente: l’ansia di stato (ossia relativa a uno specifico momento), l’ansia di tratto (intesa come caratteristica permanente), la depressione, il nevroticismo, l’apertura mentale e l’estroversione, la suggestionabilità, la paura del dolore, la catastrofizzazione e la preoccupazione per il dolore. I soggetti che hanno partecipato a questo studio sono stati sottoposti a una procedura nocebo, in cui venivano somministrate delle stimolazioni termiche di diverse intensità. Alla fine dell’esperimento, veniva chiesto ai partecipanti di compilare una batteria di questionari di personalità. I risultati di questo studio hanno mostrato che l’ansia e la suggestionabilità correlavano positivamente con la risposta nocebo, ma anche che, aggregando diversi tratti di personalità, si poteva predire in maniera più o meno accurata la risposta nocebo. In particolare, considerando per esempio solo la sensibilità all’ansia, che si riferisce a sensazioni associate all’ansia e può portare a interpretazioni erronee delle sensazioni corporee come il dolore, si può spiegare il 20% della variabilità nella risposta nocebo. Se, invece, oltre all’ansia si considerano anche tratti quali la depressione, l’apertura mentale e l’estroversione, si può spiegare fino al 49% della variabilità nella risposta nocebo. Questi risultati sono molto importanti ed innovativi, e contribuiscono a trovare risposta a una delle domande divenute centrali in ambito di effetti placebo e nocebo: perché alcune persone rispondono a questi effetti e altre no? Perché alcune persone rispondono in maniera più marcata a questi effetti?
Nonostante queste domande debbano ancora trovare una risposta esaustiva, l’importanza dell’effetto nocebo nell’ambito clinico è ormai consolidata. Il ruolo delle aspettative negative e del precedente apprendimento degli effetti è centrale. Per questo motivo è molto importante cercare di non promuovere aspettative negative quando si tratta di comunicare una diagnosi e proporre un trattamento. Le parole che scegliamo e i metodi comunicativi che utilizziamo influenzano la comprensione della diagnosi, il trattamento e, successivamente, anche il suo effetto. Come comunichiamo è essenziale per influenzare sia l’intensità che la severità con cui vengono esperiti gli effetti di un trattamento. Al contempo, è altrettanto necessario dare ai pazienti informazioni accurate e veritiere nel rispetto della loro autonomia e del loro diritto di essere informati in maniera esaustiva[19]. Una buona comunicazione con i pazienti non è confinata alla sola spiegazione di quali sono i potenziali effetti avversi di un trattamento. Comunicare significa soprattutto creare un rapporto positivo ed empatico tra medico e paziente. Significa costruire un contesto accogliente, perché il contesto, per il paziente, è il primo contatto e il primo indicatore che può portare allo sviluppo di aspettative negative.
In questa cornice è importante considerare l’unicità di ogni paziente, con le sue caratteristiche, i suoi punti di forza e le sue debolezze. L’obiettivo è evitare che le parole diventino un elemento di vulnerabilità per il paziente, anziché essere un punto di forza. Per questo motivo è necessario sviluppare una comunicazione che sia quanto più personalizzata, al fine di ottenere i migliori risultati diagnostici e terapeutici per i pazienti e ridurre le loro sofferenze.
Note
1) Petrovic, P. Placebo analgesia and nocebo hyperalgesia - Two sides of the same coin? Pain 136, 5–6 (2008).
2) Colloca, L. Nocebo effects can make you feel pain. Science (80-. ). 358, 44–44 (2017).
3) Colloca, L. & Miller, F. G. How placebo responses are formed: a learning perspective. Philos. Trans. R. Soc. Lond. B. Biol. Sci. 366, 1859–69 (2011).
4) Schweiger, A. & Parducci, A. Nocebo: The psychologic induction of pain. Pavlov. J. Biol. Sci. Off. J. Pavlov. 16, 140–143 (1981).
5) Flaten, M. A., Simonsen, T. & Olsen, H. Drug-related information generates placebo and nocebo responses that modify the drug response. Psychosom. Med. 61, 250–255 (1999).
6) Colloca, L., Lopiano, L., Lanotte, M. & Benedetti, F. Overt versus covert treatment for pain, anxiety, and Parkinson’s disease. Lancet Neurology 3, 679–684 (2004).
7) Tinnermann, A., Geuter, S., Sprenger, C., Finsterbusch, J. & Büchel, C. Interactions between brain and spinal cord mediate value effects in nocebo hyperalgesia. Science (80-. ). 358, 105–108 (2017).
8) Colloca, L., Petrovic, P., Wager, T. D., Ingvar, M. & Benedetti, F. How the number of learning trials affects placebo and nocebo responses. Pain 151, 430–439 (2010).
9) Kong, J. et al. A functional magnetic resonance imaging study on the neural mechanisms of hyperalgesic nocebo effect. J. Neurosci. 28, 13354–13362 (2008).
10) Scott, D. J. et al. Placebo and Nocebo Effects Are Defined by Opposite Opioid and Dopaminergic Responses. Arch. Gen. Psychiatry 65, 220 (2008).
11) Benedetti, F., Amanzio, M., Vighetti, S. & Asteggiano, G. The Biochemical and Neuroendocrine Bases of the Hyperalgesic Nocebo Effect. J. Neurosci. 26, 12014–12022 (2006).
12) Carlino, E., Frisaldi, E. & Benedetti, F. Pain and the context. Nat. Rev. Rheumatol. 10, 348–355 (2014).
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