Placebo e nocebo: l’effetto siamo noi

Intervista a Fabrizio Benedetti

  • In Articoli
  • 16-09-2024
  • di Rossana Garavaglia
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Nel lessico quotidiano, il vocabolo “placebo” rimanda di solito alla sperimentazione clinica dei farmaci. Soprattutto durante la pandemia di COVID-19, può essere capitato di leggere come vengono sperimentati i farmaci/vaccini e di sentir dire che una delle procedure del metodo sperimentale più robusta per definire se un prodotto sia efficace o meno è il confronto con un placebo, cioè una sostanza inerte dal punto di vista dell’interazione diretta con i sistemi biologici. Ancora nel contesto pandemico, abbiamo sentito parlare spesso degli effetti collaterali dei vaccini, sui quali ha molto puntato la disinformazione, tanto che molti hanno espresso esitazione o una franca preoccupazione, sfociata a volte nel rifiuto della vaccinazione.

Indipendentemente dalla pandemia, è da anni invalsa la tecnica di marketing che, per spingere all’acquisto, sottolinea la naturalità dei prodotti contrapposta alla chimica. Si vorrebbe cioè far passare la falsa credenza che ciò che è naturale abbia intrinseche caratteristiche di salubrità e sicurezza, mentre ciò che è chimico sia al contrario dannoso e pericoloso per il nostro benessere e la nostra salute. Il tentativo, spesso riuscito, è quindi di sollecitare una predisposizione positiva dell’acquirente verso ciò che è naturale e negativa verso ciò che è considerato chimico: si ricorda qui che la natura è chimica e molti veleni potentissimi sono naturali.

Per comprendere meglio le sfumature e le conseguenze dell’effetto placebo e del suo opposto, l’effetto nocebo, abbiamo intervistato il professor Fabrizio Benedetti, pioniere degli studi in questo ambito, i cui lavori hanno contribuito alla comprensione di come le aspettative e il contesto sociale possano influenzare le nostre risposte fisiologiche.

Quali sono i meccanismi neuropsicologici ed evolutivi che spiegano perché, e come, noi esseri umani rispondiamo positivamente o negativamente a sostanze inerti dal punto di vista farmacologico?

In realtà noi non rispondiamo alle sostanze inerti – questo è un equivoco comunissimo che confonde le idee – ma rispondiamo al credere che quelle sostanze siano vere e producano effetti. Fa una bella differenza. In altre parole, quello che conta non è la sostanza inerte per sé, ma piuttosto lo stato psicologico con cui viene assunta. Se io credo di ricevere un potente farmaco (ma in realtà ricevo dell’acqua fresca), le mie aspettative di beneficio sono alte, la mia ansia diminuisce, la mia speranza di guarigione aumenta.

Oggi abbiamo cominciato a comprendere che questo stato psicologico attiva dei meccanismi cerebrali che possono realmente produrre un beneficio. Dal punto di vista evolutivo, questi meccanismi sono nati nei primati non umani, dove è possibile osservare dei comportamenti di “consolazione”, per esempio abbracciare un membro dello stesso gruppo sociale che è rimasto ferito.

Nella specie umana, questi comportamenti sono poi sfociati nella figura dello sciamano, il quale abbraccia, accarezza e si prende cura di colui che soffre. E dallo sciamano siamo arrivati al medico moderno. In conclusione, i fattori psicologici e sociali giocano un ruolo cruciale nella percezione di un sintomo e nel decorso di una malattia.

Gli atteggiamenti del nostro terapeuta modellano la nostra propensione a credere a una narrazione?

Certamente sì. Maggiore è l’atteggiamento empatico di colui che cura, maggiore l’effetto psicologico positivo su colui che soffre. Vale anche il contrario, cioè un atteggiamento negativo di colui che cura impatta negativamente su colui che soffre. Allo stesso modo, aspettative negative sugli effetti collaterali o la sfiducia verso la medicina, si accompagnano a un peggioramento, per esempio l’aggravarsi un sintomo. In questi casi si parla di effetto nocebo, che va in direzione opposta rispetto al placebo. Potremmo riassumere tutto ciò con l’espressione inglese What you expect, you get, che tradotta in italiano suona un po’ meno bene: «Quello che ti aspetti, lo percepirai».

Qual è la risposta neuropsicologica ai rituali e al contesto?

L’effetto placebo è un po’ tutto quello di cui si è detto sopra, cioè una risposta positiva dovuta al credere, allo sperare, all’avere fiducia, all’aspettarsi un beneficio. Durante una risposta placebo sono in gioco molti elementi, come la relazione tra il medico e il paziente, le aspettative e le necessità del paziente, la personalità e lo stato psicologico del paziente, la gravità e il disagio dei sintomi, il tipo di istruzioni verbali, le caratteristiche della preparazione e l’ambiente circostante. L’importanza dell’interazione mente-corpo nell’effetto placebo è a tal punto rilevante che esso è stato definito come un cambiamento nel corpo, o nell’unità corpo-mente, che si verifica a seguito del significato simbolico che si attribuisce a un evento o oggetto nell’ambiente di guarigione.

In questa ottica, i placebo, lungi dall’essere sostanze inerti, sono costituiti da diverse parole e rituali terapeutici, così come da differenti elementi simbolici che, a loro volta, possono influenzare il cervello del paziente; quindi, sono soggetti a indagine neuroscientifica classica. I neuroscienziati usano la risposta placebo come un modello per comprendere come funziona il nostro cervello e, infatti, sta emergendo come un eccellente approccio per capire diverse funzioni cerebrali superiori, come l’aspettativa e la ricompensa.

Quali sono, e come agiscono, i meccanismi neuropsicologici che disegnano e sostengono il rapporto medico-paziente?

Come ho detto prima, il rapporto medico-paziente dovrebbe potenziare le aspettative, la fiducia e le speranze del paziente o, in altre parole, dovrebbe potenziare lo stato psicologico positivo del paziente. Dal punto di vista strettamente neuroscientifico, ciò che è emerso negli ultimi anni è il concetto che un’interazione medico-paziente positiva attiva gli stessi meccanismi dei farmaci. Anzi, sarebbe meglio invertire la frase: sono i farmaci che attivano gli stessi meccanismi di un’interazione positiva, poiché l’interazione sociale è nata prima dei farmaci nel corso dell’evoluzione. Poi, la specie umana è intelligente e ha creato delle molecole (i farmaci) che agiscono su meccanismi che sono già presenti nel nostro cervello. La morfina è un esempio classico in questo senso (il nostro cervello possiede i recettori a cui si lega la morfina).

Le narrazioni trasmesse da influencer, professionisti della salute, politici a favore dell’omeopatia e a sfavore della medicina hanno una correlazione con la sfiducia nella medicina e nei medici?

Assolutamente sì. Le persone credono in queste figure professionali e non c’è, quindi, da stupirsi dell’influenza che hanno.

La fiducia persa nella medicina viene riposta nelle pratiche alternative: quali sono i circuiti cerebrali attivati dalla fiducia e come si possono elicitare?

Il punto è proprio questo. La medicina a volte non è in grado di dare risposte a coloro che soffrono, quindi, quasi automaticamente, la fiducia, la speranza e le aspettative vengono riposte nelle pratiche alternative. E questo spesso avviene anche per coloro che lavorano nell’ambito medico-scientifico e che non credono nelle pratiche alternative. Ci sono casi famosi di scettici delle pratiche alternative che nel momento del bisogno (cancro in fase terminale in cui la medicina ufficiale si ferma) hanno provato qualcosa di pseudoscientifico dicendo a sé stessi “Non si sa mai”. Il desiderio e la speranza di sopravvivenza è talmente forte che porta a rivolgersi a pratiche irrazionali. Per quanto riguarda i meccanismi cerebrali della fiducia, beh, ce ne sono diversi. Per esempio, maggiori sono la sfiducia e le emozioni negative, maggiore è l’attività dell’amigdala[1], un nucleo del cervello. L’ormone ossitocina[2] può bloccare l’attività dell’amigdala, quindi le emozioni negative, potenziando, di conseguenza, la fiducia.

Queste conoscenze possono essere sfruttate anche da chi vende narrazioni pseudoscientifiche, questo è il lato oscuro di cui lei parla nei suoi articoli? Esistono antidoti?

Sì, purtroppo queste conoscenze sono spesso sfruttate da ciarlatani che vendono narrazioni pseudoscientifiche. È il lato oscuro della fiducia, delle speranze e delle aspettative dei pazienti nei confronti di coloro che promettono miracoli. L’antidoto migliore è l’educazione e la comunicazione, così come fate voi del Cicap. Tuttavia, io sono abbastanza pessimista in questo senso. La specie umana ha bisogno di credere e sperare, soprattutto quando tutto sembra essere perduto, quindi l’irrazionalità è sempre esistita e sempre esisterà.

Bibliografia

  • Benedetti, F., 2021. Placebo effects: Understanding the other side of medical care (3° ed.), Oxford University Press
  • Benedetti, F., 2022. Effetti placebo. Il lato nascosto delle cure mediche, Giovanni Fioriti Editore
  • Benedetti, F., 2019. “The Dangerous Side of Placebo Research: Is Hard Science Boosting Pseudoscience?”, in Clinical Pharmacology & Therapy, vol 106, n. 6
  • Benedetti, F., 2013. “Placebo and the New Physiology of the Doctor-Patient Relationship”, in Physiological Reviews, vo. 93, n.3

Note

1) L’amigdala è una piccola struttura a forma di mandorla situata in profondità nel cervello umano. Essa svolge un ruolo cruciale nelle nostre emozioni e comportamenti. Le sue funzioni principali riguardano la gestione delle emozioni, la memorizzazione degli eventi emotivamente significativi e le risposte automatiche agli stimoli emotivi (per esempio, il battito cardiaco). Quando il nostro cervello rileva un potenziale pericolo, l’informazione viene inviata all’amigdala che confronta la situazione presente con le esperienze passate. L’amigdala, a sua volta, può attivare altre parti del cervello e del corpo per prepararsi a rispondere al pericolo. In altre parole, l’amigdala ci aiuta a vivere e a navigare nel mondo delle emozioni. Anche se spesso è associata alla paura, il suo ruolo è molto più ampio e coinvolge una varietà di emozioni e comportamenti.
2) L’ossitocina è un ormone ed è spesso soprannominato “l’ormone dell’amore” o “l’ormone dell’abbraccio” per i suoi effetti su emozioni e comportamenti sociali. La molecola promuove i legami affettivi, ha un ruolo cruciale durante il parto (stimolo delle contrazioni uterine e, dopo il parto, espulsione del latte dal capezzolo) e riduce le reazioni da stress e l’ansia. L’ossitocina è prodotta nell’ipotalamo, una piccola regione alla base del cervello, e viene rilasciata nel sangue dalla ghiandola pituitaria. Funziona come un messaggero chimico, influenzando varie parti del corpo e del cervello per produrre i suoi effetti.

Fabrizio Benedetti è professore di neurofisiologia all’Università di Torino, professore di medicina alla Innovative Clinical Training, Trials & Healthcare Initiative di Zermatt (Svizzera) e senior advisor presso la Harvard University di Cambridge (USA). Membro dell’Academy of Europe, è autore di Placebo Effects (2020) che ha ricevuto il Medical Book Award della British Medical Association. Per Mondadori ha scritto i libri divulgativi La speranza è un farmaco (2018) e Il cacciatore di ricordi (2021).


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