Di giganti ed eruditi moderni

  • In Articoli
  • 11-12-2017
  • di Roberto Labanti
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Ciclopi, lestrigoni, giganti: questi gli strani personaggi che apparivano come figure realmente esistite in diverse opere scritte in Italia fra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo.

Sulla scorta della tradizione classica (in particolare autori come Omero e Plinio) e dell’autorità del testo biblico, alcuni eruditi di quel periodo si erano infatti convinti che i resti giganteschi scoperti durante scavi o conservati in qualche chiesa o in proto-musei fossero da attribuire a veri giganti, che dovevano avere abitato, in passato, isole come la Sicilia o la Sardegna. Questo finché, anche in Italia, furono definitivamente accolte le tesi di chi - in primis i naturalisti Hans Sloane (1660-1753) e le Baron Georges Cuvier (1769-1832) - invece attribuiva tali resti a elefanti e cetacei. Un’ipotesi che, peraltro, era già stata fatta qualche decennio prima dal gesuita Athanasius Kircher (1602-1680), professore al Collegio Romano, o da monsignor Giovanni Giustino Ciampini (1633-1698), i quali avevano parlato di elefanti, occupandosi rispettivamente della Sicilia o dei resti rinvenuti a Vitorchiano nel viterbese[1].

Materiale osteologico fossile interpretato secondo le conoscenze dell’epoca, «ossa giganti di vertebrati (solitamente cenozoici a partire da 65 milioni di anni fa, mammiferi NdA , trovati all’interno di sedimenti o in cavità carsiche», come in termini moderni scrivono i paleontologi Marco Romano (della Sapienza di Roma) e Marco Avanzini (del MUSE - Museo delle Scienze di Trento) in un lungo articolo, The skeletons of Cyclops and Lestrigons: misinterpretation of Quaternary vertebrates as remains of the mythological giants (in italiano: “Gli scheletri di Ciclopi e Lestrigoni: erronee interpretazioni di vertebrati quaternari come resti di mitologici giganti”), in via di pubblicazione su una rivista scientifica dedicata alla storia della vita attraverso i tempi geologici e la biologia degli organismi del passato, Historical Biology[2]. Un articolo che è proprio dedicato alla storia di questa curiosa idea nella nostra penisola.

Un’idea che, in realtà, precede il periodo preso in considerazione dagli autori, come dimostra un esempio trecentesco che avrà particolare fortuna nei secoli successivi. Per diversi anni, fino alla morte, Giovanni Boccaccio (1313-1375) lavorò a un’opera enciclopedica in quindici libri, la De genealogia deorum gentilium (“Della genealogia degli Dei gentili”) dedicata, come si evince dal titolo, alla mitologia classica. Stampata per la prima volta a Venezia nel 1472, nel 1547 il veneziano Giuseppe Betussi (c. 1512-c. 1573) la tradusse in volgare, rendendola così disponibile anche a coloro che non erano in grado di leggere il latino[3]. Nel quarto libro, al capitolo sessantotto, raccontando delle storie dei giganti, l’umanista fiorentino riportò una leggenda dell’epoca, quella del ritrovamento, in una grotta sulle montagne intorno a Trapani, in Sicilia, di un gigante: alcuni uomini impegnati in lavori avevano visto nella cavità (attualizzando un po’ la traduzione di Betussi) «un uomo di smisurata grandezza, lì seduto». Gli uomini spaventati «uscirono dalla spelonca senza mai fermare il corso» finché non giunsero al castello dove raccontarono quanto avevano veduto. Subito i cittadini, meravigliati, armatisi e accese delle torce, si recarono sul luogo della scoperta, accorgendosi, a quel punto, che il gigante non era vivo. Toccato, tutto andò in polvere, tranne qualche frammento sparso e tre denti di estrema grandezza che i trapanesi, legati assieme, appesero nella chiesa della Santissima Annunziata come testimonianza di quanto accaduto. Identificato il gigante con Erix, mitologico re di Erice ucciso da Ercole, questa è una delle storie di giganti che fu ripresa nei secoli successivi da diversi autori, a partire dal domenicano Tommaso Fazello (1498-1570) che, oltre ad averla letta in Boccaccio, l’avrebbe raccolta dalla viva tradizione orale “aristocratica” della cittadina del trapanese, nel suo De rebus Siculis decades duae (1558)[4]. Una storia così esemplare che, nel 1637, il summenzionato Kircher decise di recarsi in visita ad Erice, dove poté vedere quella che era descritta come la grotta del gigante: ai suoi occhi però questa non avrebbe potuto contenere resti delle dimensioni che erano state riportate.

Proprio Fazello, con le sue numerose testimonianze di ritrovamenti in Sicilia, che per lui erano la prova del fatto che i giganti (i ciclopi) avevano abitato l’isola prima dell’arrivo dei Sicani, è uno degli autori più antichi descritti nell’articolo di Romano e Avanzini: ma non è il solo. C’è, un secolo dopo, il giovane avvocato Vincenzo Auria (1625-1710), convinto che i Sicani si fossero scontrati con ciclopi e lestrigoni. C’è Scipione Mazzella (c. metà XVI sec. - primi anni XVII sec.) che invece raccontava, nel 1591, delle ossa mostrate dai cittadini di Pozzuoli, nel napoletano, ai visitatori stranieri. C’è Carlo Calà (1617-1683) che nel 1660, di seconda mano, riportò di un sogno sulla sepoltura di due giganti che aveva condotto alla scoperta di un tesoro a Paterno Calabro, nel cosentino. C’è l’ex gesuita Matteo Madao (1733-1800?) che alla fine del Settecento, citando una serie di autori precedenti, era invece convinto che la Sardegna fosse stata abitata dai giganti, responsabili dei nuraghi. E c’è tutta un’altra serie di autori su posizioni simili.

Abbiamo, infine, gli “scettici”: oltre ai già citati Kircher e Ciampini[5] ci sono, per esempio, Filippo Bonanni (1638-1725), altro gesuita del Collegio Romano, che riteneva che quelle supposte ossa fossero in realtà pietre che avevano solo la forma di resti scheletrici, oppure Niccolò Madrisio (1656-1729), che in un’opera del 1718, oltre ad attribuire anch’egli parte dei resti a elefanti, riportò la curiosa teoria che le ossa sepolte fossero in grado di continuare a crescere. E ci furono poi gli autori venuti dopo la traduzione in italiano nel 1734 del saggio di Sloane, fra i quali spicca il grande naturalista fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti (1712-1783), che identificò le ossa di giganti conservati nella sacrestia della chiesa di Montione (ad Arezzo) come resti di cetacei ed elefanti.

Come abbiamo visto in altre occasioni in questa rubrica, è però sempre complicato approcciarsi alla letteratura del passato quando si giunge da un diverso campo disciplinare (in questo caso la paleontologia, non la storia delle idee o della scienza). Sul suo blog, lo studioso statunitense di para-archeologia Jason Colavito ha segnalato (oltre ad una serie di problemi di editing cui la responsabilità ultima è della rivista) che gli autori sono incappati in una svista di sostanza (sfuggita alla peer review), che può essere interessante esaminare anche qui, a beneficio dei lettori di Query[6]: nell’articolo si cita più volte “Berosus” o “Beroso”, come fonte di autori cinque-settecenteschi oppure per descrivere, attraverso il testo di Mazzella, una tradizione vicino-orientale sui giganti in Libano. Ma quel Beroso non è il sacerdote ed astrologo dell’età ellenistica di cui ci rimangono solo importanti frammenti della Storia di Babilonia: al pari di tanti altri presunti testi di autori del passato era stato creato alla fine del Quattrocento da un umanista e frate domenicano di origini viterbesi, Giovanni Nanni (1437-1502, noto col nome umanistico di Annio) per una riscrittura della storia antica che aveva assunto la forma dei Commentaria fratris Joannis Annii Viterbiensis super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium. Quasi subito, altri dotti dell’epoca ne denunciarono la falsità, ma Annio continuò per lungo tempo ad essere citato. Invece di essere un testimone delle idee antiche sui giganti, Beroso, paradossalmente, lo è proprio per il periodo interessato dalla review di Romano e Avanzini.

Ma al di là di qualche imperfezione, che cosa si può dire dell’articolo? È un buon censimento della tradizione erudita dell’Italia dell’età moderna sul tema dei giganti. E, comunque, come nota Colavito, è un «dignitoso trattamento del soggetto, con materiale [...] oscuro non spesso disponibile in inglese». Da parte nostra possiamo aggiungere che la sezione relativa alle idee sui giganti in epoca antica o in area extra-europea (soprattutto basata su fonti ottocentesche) avrebbe potuto giovarsi delle più recenti ricerche nel campo della mitologia e della storia della letteratura, ad esempio per quanto riguarda il giudaismo. Poi, sarebbe stato interessante mettere insieme un corpus che recuperava anche le diverse fonti citate dagli autori considerati, per ricostruire meglio la storia dei diversi “fatti” utilizzati alle base delle interpretazioni erudite.

A questo proposito, un particolare curioso notato da Romano e Avanzini è che in diversi di questi racconti gli scheletri dei giganti si trasformavano in cenere - fatto salvo qualche osso che rimaneva integro e che quindi era mostrabile - quando erano toccati o esposti all’aria. Forse era spia di malafede degli scopritori (che così potevano attribuire a un gigante “intero” i fossili recuperati) o evidenza di tradizioni orali di tipo leggendario in cui cambiava il luogo ma non la struttura della narrazione. Ma pure, aggiungiamo noi, forse traccia di possibili stereotipi colti che gli eruditi utilizzavano per presentare storie frammentarie e dare loro un senso. Una questione che coloro che si occupano di folklore storico dovrebbero approfondire.

In definitiva, un buon punto di partenza che sarà molto utile per chi vorrà svolgere nuove ricerche in questo campo in cui si incrociano storia delle idee, storia della scienza, folklore e geografia mitica della nostra penisola.

Note

1) Un’idea che in quello stesso periodo circolò nella Penisola è quella che i resti fossero dovuti agli elefanti di Annibale: si veda la ricostruzione in Romano, M. & Palombo, M. R. 2017. When legend, history and science rhyme: Hannibal’s war elephants as an explanation to large vertebrate skeletons found in Italy. “Historical Biology” vol. 29, n. 8, pp. 1106-1124.
2) Romano, M. & Avanzini, M. 2017. The skeletons of Cyclops and Lestrigons: misinterpretation of Quaternary vertebrates as remains of the mythological giants. “Historical Biology”, in via di pubblicazione, doi: 10.1080/ 08912963.2017.1342640; dove non specificato diversamente, le fonti citate sono riprese da questo articolo.
3) Boccaccio, G. 1547. Della geneologia de gli dei di M. Giovanni Boccaccio Libri quindeci. Al segno del Pozzo, in Venetia, disponibile all’url https://tinyurl.com/ybjgxemt .
4) L’opera fu tradotta “dal Latino in lingua Toscana” qualche anno dopo: Fazello, T. 1573. Le due deche dell’historia di Sicilia. Appresso Domenico, & Gio. Battista Guerra, fratelli, in Venetia, disponibile all’url https://tinyurl.com/y8nvjs2w.
5) Gli autori paiono conoscere il saggio solo attraverso la citazione che ne fa Sloane: l’estratto della lettera al sacerdote e naturalista tedesco Hieronymus Ambrosius Langenmantel (1641-1718) apparve su “Miscellanea Curiosa, sive Ephemiridum Medico-Physicarum Germanicarum Academiae Naturae Curiosorum”, vol. 7, 1688, pp. 446-447, disponibile all'url https://tinyurl.com/ycvhphub
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