Cocolitzli. Da coco che in náhuatl, la lingua uto-atzeca parlata ancora oggi nel Messico centrale, significa qualcosa come “infermità”. Così fu chiamata un’epidemia che imperversò nel paese mesoamericano nel 1545-1548 (e poi ancora, per rimanere in quel secolo, nel 1576-1577): chi ne era colpito era assalito da febbre alta, forti mal di testa, vertigini, dolori addominali e toracici, dissenteria, emorragie, seguite, in breve tempo, dalla morte. Gli storici della popolazione stimano che fra il 1519 e il 1600 la popolazione azteca dell’attuale Messico, dal 1521 vicereame della Spagna con il nome di Nueva España, sia passata da 15-30 milioni di persone a 2 milioni. Gli studi più recenti ipotizzano che il declino della popolazione nell’intero Nord America sia stato conseguenza di una serie di concause: epidemie (il cosiddetto “scambio colombiano”, con l’introduzione nelle terre appena scoperte di una serie di patogeni che erano fino ad allora sconosciuti ai popoli amerindi), malnutrizione, violenze, schiavitù e altri fattori[1]. Fra le epidemie, quella del 1545 è stata presumibilmente quella che ha fatto più vittime: che cosa l’abbia causata, però, rimane ancora oggi un mistero.
La cosa non deve sembrare più di tanto strana: prima di tutto, non siamo in grado di sapere, oggi, se alla categoria cocolitzli corrispondesse sempre la stessa patologia (in senso moderno), o se, invece, era un termine generico che serviva ad indicarne diverse. Poi, disponiamo di una serie di fonti storico-letterarie: interpretare i sintomi descritti per giungere all’identificazione con una malattia moderna è complesso e, a volte, avventato. Negli ultimi anni, però, la paleomicrobiologia, la paleopatologia e la bioarcheologia, attraverso lo studio diretto dei resti umani, ci hanno permesso di ottenere una mole di dati di cui prima non disponevamo. Ed è quello che sta succedendo anche in relazione al cocolitzli.
Åshild J. Vågene, Johannes Krause (del tedesco Max Planck Institute for the Science of Human History) e collaboratori hanno avuto modo di studiare una serie di resti umani provenienti da due aree cimiteriali di Teposcolula-Yucundaa, nella regione messicana dell’Oaxaca, indagate archeologicamente fra il 2004 e il 2010. Gli esami del carbonio-14 svolti in passato indicano che in una di queste le sepolture risalgono al periodo precedente al contatto, mentre l’altra è coeva all’epidemia del quinto decennio del XVI secolo. Gli studiosi hanno preso dei campioni dai denti di trentuno scheletri e hanno analizzato il DNA recuperato, confrontandolo, con una tecnica chiamata MALT, con quello dei batteri censiti nel database open access RefSeq del National Center for Biotechnology Information (NCBI) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/refseq/ . Secondo i risultati al momento resi disponibili attraverso un preprint pubblicato lo scorso febbraio su bioRxiv, in tre dei ventiquattro individui esaminati del secondo sito sono state individuate tracce significative di DNA di Salmonella enterica, in particolare simile a quello della subsp. enterica sierotipo Paratyphi C[2].
Agente batterico responsabile della maggior parte delle infezioni alimentari, il genere Salmonella è composto infatti da due diverse specie, S. enterica e S. bongari, divise a loro volta in sei sottospecie e oltre 2000 sierotipi. Il primo microrganismo è il diretto responsabile della febbre paratifoide, una patologia che negli ultimi decenni ha colpito più di cinquecentomila persone, soprattutto in Africa e Asia e ha provocato circa 30.000 decessi. Proprio quest’ultima, per Vågene e collaboratori, sarebbe «circolata fra la popolazione indigena durante l’epidemia di cocolitzli del 1545-1550» e gli autori propongono quindi che «abbia contribuito al declino della popolazione» durante questo evento.
Mistero chiarito, quindi? Forse no, o non ancora. Prima di tutto, nel momento in cui scriviamo, l’articolo è stato presentato ad una rivista del settore, ma non è ancora stato accettato. È quindi possibile che l’interazione con i referee e l’editor porti a modifiche anche sostanziali del testo che descrive i risultati. Poi, non tutti gli studiosi sembrano ritenere definitivi questi risultati. Ad esempio, María C. Ávila-Arcos, una paleogenetista dell’International Laboratory for Human Genome Research dell’Universidad Nacional Autónoma de México, su Twitter, si è detta «convinta che abbiano identificato DNA di S. enterica, ma non convinta che quella sia la causa del cocolitzli»[3]. A Ewen Callaway, che l’ha riportato su Nature, ha aggiunto che se il responsabile fosse stato invece un virus, come ritengono alcuni studiosi, la metodologia utilizzata da Vågene et al. non sarebbe stata in grado di individuarlo[4]: infatti le tecniche volte a rilevare materiale genetico virale nelle ossa si stanno affinando solo ora e per resti molto più recenti[5]. Quindi, forse, il mistero del cocolitzli continuerà a permanere, almeno finché non sarà possibile rinvenire il DNA della Salmonella in un maggior numero di resti coevi o non si svilupperanno nuove tecniche per rinvenire tracce di virus in ossa così antiche.
Nel mentre, però, da uno studio pubblicato a fine dicembre su Current Biology forse è nato un altro mistero, legato proprio ad un virus. Sempre in Messico, nel 1520, c’era stata una diversa epidemia che aveva portato a circa 8 milioni di decessi: in questo caso, il consenso è pressoché unanime, si sarebbe trattato del virus del vaiolo (VARV). Un recente articolo dei biologi Hendrik N. Poinar e Ana Duggan (della canadese McMaster University) e collaboratori (fra i quali lo specialista di mummie Dario Piombino-Mascati), pubblicato su Current Biology, però, indirettamente solleva dubbi sulla questione[6]. Il gruppo di ricercatori ha sequenziato il DNA di un ceppo antico di VARV recuperato dalla mummia di un bambino di sesso non identificato morto in Lituania fra il 1643 e il 1665. Sull’albero filogenetico, quel ceppo si è dimostrato basale rispetto a tutte le linee virali diffuse fino agli anni ‘70 del XX secolo.
Cosa c’entra il Messico del XVI secolo? Prima di questo studio, si pensava che il vaiolo fosse chiaramente identificabile in descrizioni di casi trasmesse da fonti mediche, storiche e letterarie risalenti all’antichità, anche se, in realtà, dalle sole descrizioni può essere difficile distinguere il vaiolo dalla varicella (malattia provocata dal varicella zoster virus, VZV) o dal morbillo (MeV, che però, come vedremo, ha una storia molto più recente rispetto al precedente). Secondo gli autori del nuovo studio, però, i dati di questa ricerca «mostrano chiaramente che le linee di VARV eradicate durante il ventesimo secolo sono esistite solo per circa 200 anni». Se davvero il vaiolo è stata la causa di eventi descritti nelle fonti antiche, allora, per questi studiosi, «questi casi più antichi furono dovuti a linee virali che non stavano più circolando al momento dell’eradicazione negli anni ‘70 [del secolo scorso]». In realtà, questo non significa che altre linee di vaiolo non potessero essere in circolazione nel Messico del XVI secolo: del resto, anche l’ultimo antenato comune delle varianti del MeV oggi in circolazione risale solo all’inizio del Ventesimo secolo, ma lo stesso studio che riporta questo dato ha stimato la divergenza di questo dal virus della peste bovina (RPV) all’undicesimo-dodicesimo secolo[7]. Il rapporto di VARV con virus similari in circolazione in altre specie animali è invece più oscuro, e non è possibile al momento indicare con certezza quando questi si siano differenziati. Si può aggiungere che, come poi ricordano Poinar e collaboratori, «altri hanno suggerito che ci sono poche prove convincenti di vaiolo epidemico o virulento (cioè con alta mortalità) in Europa prima del XVI secolo, vicino alla data da noi stimata per l’antenato di VARV [la metà del sedicesimo secolo]», qualche decennio dopo l’epidemia messicana.
Questi studi, presi insieme, ci dicono che forse non siamo ancora in grado di dire con precisione cosa successe, dal punto di vista della paleomicrobiologia, nell’America del 1500. Però, presumibilmente, siamo oggi più vicini a delle risposte. Forse inattese.
La cosa non deve sembrare più di tanto strana: prima di tutto, non siamo in grado di sapere, oggi, se alla categoria cocolitzli corrispondesse sempre la stessa patologia (in senso moderno), o se, invece, era un termine generico che serviva ad indicarne diverse. Poi, disponiamo di una serie di fonti storico-letterarie: interpretare i sintomi descritti per giungere all’identificazione con una malattia moderna è complesso e, a volte, avventato. Negli ultimi anni, però, la paleomicrobiologia, la paleopatologia e la bioarcheologia, attraverso lo studio diretto dei resti umani, ci hanno permesso di ottenere una mole di dati di cui prima non disponevamo. Ed è quello che sta succedendo anche in relazione al cocolitzli.
Åshild J. Vågene, Johannes Krause (del tedesco Max Planck Institute for the Science of Human History) e collaboratori hanno avuto modo di studiare una serie di resti umani provenienti da due aree cimiteriali di Teposcolula-Yucundaa, nella regione messicana dell’Oaxaca, indagate archeologicamente fra il 2004 e il 2010. Gli esami del carbonio-14 svolti in passato indicano che in una di queste le sepolture risalgono al periodo precedente al contatto, mentre l’altra è coeva all’epidemia del quinto decennio del XVI secolo. Gli studiosi hanno preso dei campioni dai denti di trentuno scheletri e hanno analizzato il DNA recuperato, confrontandolo, con una tecnica chiamata MALT, con quello dei batteri censiti nel database open access RefSeq del National Center for Biotechnology Information (NCBI) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/refseq/ . Secondo i risultati al momento resi disponibili attraverso un preprint pubblicato lo scorso febbraio su bioRxiv, in tre dei ventiquattro individui esaminati del secondo sito sono state individuate tracce significative di DNA di Salmonella enterica, in particolare simile a quello della subsp. enterica sierotipo Paratyphi C[2].
Agente batterico responsabile della maggior parte delle infezioni alimentari, il genere Salmonella è composto infatti da due diverse specie, S. enterica e S. bongari, divise a loro volta in sei sottospecie e oltre 2000 sierotipi. Il primo microrganismo è il diretto responsabile della febbre paratifoide, una patologia che negli ultimi decenni ha colpito più di cinquecentomila persone, soprattutto in Africa e Asia e ha provocato circa 30.000 decessi. Proprio quest’ultima, per Vågene e collaboratori, sarebbe «circolata fra la popolazione indigena durante l’epidemia di cocolitzli del 1545-1550» e gli autori propongono quindi che «abbia contribuito al declino della popolazione» durante questo evento.
Mistero chiarito, quindi? Forse no, o non ancora. Prima di tutto, nel momento in cui scriviamo, l’articolo è stato presentato ad una rivista del settore, ma non è ancora stato accettato. È quindi possibile che l’interazione con i referee e l’editor porti a modifiche anche sostanziali del testo che descrive i risultati. Poi, non tutti gli studiosi sembrano ritenere definitivi questi risultati. Ad esempio, María C. Ávila-Arcos, una paleogenetista dell’International Laboratory for Human Genome Research dell’Universidad Nacional Autónoma de México, su Twitter, si è detta «convinta che abbiano identificato DNA di S. enterica, ma non convinta che quella sia la causa del cocolitzli»[3]. A Ewen Callaway, che l’ha riportato su Nature, ha aggiunto che se il responsabile fosse stato invece un virus, come ritengono alcuni studiosi, la metodologia utilizzata da Vågene et al. non sarebbe stata in grado di individuarlo[4]: infatti le tecniche volte a rilevare materiale genetico virale nelle ossa si stanno affinando solo ora e per resti molto più recenti[5]. Quindi, forse, il mistero del cocolitzli continuerà a permanere, almeno finché non sarà possibile rinvenire il DNA della Salmonella in un maggior numero di resti coevi o non si svilupperanno nuove tecniche per rinvenire tracce di virus in ossa così antiche.
Nel mentre, però, da uno studio pubblicato a fine dicembre su Current Biology forse è nato un altro mistero, legato proprio ad un virus. Sempre in Messico, nel 1520, c’era stata una diversa epidemia che aveva portato a circa 8 milioni di decessi: in questo caso, il consenso è pressoché unanime, si sarebbe trattato del virus del vaiolo (VARV). Un recente articolo dei biologi Hendrik N. Poinar e Ana Duggan (della canadese McMaster University) e collaboratori (fra i quali lo specialista di mummie Dario Piombino-Mascati), pubblicato su Current Biology, però, indirettamente solleva dubbi sulla questione[6]. Il gruppo di ricercatori ha sequenziato il DNA di un ceppo antico di VARV recuperato dalla mummia di un bambino di sesso non identificato morto in Lituania fra il 1643 e il 1665. Sull’albero filogenetico, quel ceppo si è dimostrato basale rispetto a tutte le linee virali diffuse fino agli anni ‘70 del XX secolo.
Cosa c’entra il Messico del XVI secolo? Prima di questo studio, si pensava che il vaiolo fosse chiaramente identificabile in descrizioni di casi trasmesse da fonti mediche, storiche e letterarie risalenti all’antichità, anche se, in realtà, dalle sole descrizioni può essere difficile distinguere il vaiolo dalla varicella (malattia provocata dal varicella zoster virus, VZV) o dal morbillo (MeV, che però, come vedremo, ha una storia molto più recente rispetto al precedente). Secondo gli autori del nuovo studio, però, i dati di questa ricerca «mostrano chiaramente che le linee di VARV eradicate durante il ventesimo secolo sono esistite solo per circa 200 anni». Se davvero il vaiolo è stata la causa di eventi descritti nelle fonti antiche, allora, per questi studiosi, «questi casi più antichi furono dovuti a linee virali che non stavano più circolando al momento dell’eradicazione negli anni ‘70 [del secolo scorso]». In realtà, questo non significa che altre linee di vaiolo non potessero essere in circolazione nel Messico del XVI secolo: del resto, anche l’ultimo antenato comune delle varianti del MeV oggi in circolazione risale solo all’inizio del Ventesimo secolo, ma lo stesso studio che riporta questo dato ha stimato la divergenza di questo dal virus della peste bovina (RPV) all’undicesimo-dodicesimo secolo[7]. Il rapporto di VARV con virus similari in circolazione in altre specie animali è invece più oscuro, e non è possibile al momento indicare con certezza quando questi si siano differenziati. Si può aggiungere che, come poi ricordano Poinar e collaboratori, «altri hanno suggerito che ci sono poche prove convincenti di vaiolo epidemico o virulento (cioè con alta mortalità) in Europa prima del XVI secolo, vicino alla data da noi stimata per l’antenato di VARV [la metà del sedicesimo secolo]», qualche decennio dopo l’epidemia messicana.
Questi studi, presi insieme, ci dicono che forse non siamo ancora in grado di dire con precisione cosa successe, dal punto di vista della paleomicrobiologia, nell’America del 1500. Però, presumibilmente, siamo oggi più vicini a delle risposte. Forse inattese.
Note
1) Ziegler, M. 2016. Beyond Germs: Native Depopulation in North America. “Contagions”, 23 aprile 2016. Disponibile all’url https://tinyurl.com/l2ot8vc
2) Vågene, A. J. et al. 2017. Salmonella enterica genomes recovered from victims of a major 16th century epidemic in Mexico. “BioRxiv”. Disponibile all’url https://tinyurl.com/n89lwp9
4) Callaway, E. 2017. Collapse of Aztec society linked to catastrophic salmonella outbreak. Nature News, 542(7642), 404. Disponibile all’url: https://tinyurl.com/l59ek2o
5) Toppinen, M. et al. 2015. Bones hold the key to DNA virus history and epidemiology. Scientific reports, 5. Disponibile all’url https://tinyurl.com/m7g8oxz
6) Duggan, A. T. et al. 2016. 17th Century Variola Virus Reveals the Recent History of Smallpox. Current Biology, 26(24), 3407-3412. Disponibile all’url https://tinyurl.com/llowtck
7) Furuse, Y., Suzuki, A., & Oshitani, H. 2010. Origin of measles virus: divergence from rinderpest virus between the 11th and 12th centuries. Virology journal, 7(1), 52. Disponibile all’url https://tinyurl.com/kbv25k6 ; M. Ziegler ha messo in relazione l’articolo di Furuse et al. con quello di Duggan et al. in un interessante commento apparso su “Contagions” all’url https://tinyurl.com/kcxnn89