Circa 50 anni dopo la morte di Samuel Hahnemann (1943), riconosciuto "inventore" dell'omeopatia, nasceva Fritz Donner. Laureatosi in medicina, Donner seguiva le orme del padre medico e omeopata, praticando egli stesso con convinzione le terapie omeopatiche, viste dalla Germania di Hitler con grande favore. In buona fede ma acuto osservatore, come si leggerà nell'articolo opportunamente riportato su questa rivista, Donner non tardava a riscontrare una vistosa discrepanza tra le premesse teoriche dell'omeopatia e i risultati clinici. Con l'onestà intellettuale che consente alle persone in buona fede di cambiare motivatamente opinione, Donner raccoglieva la sua esperienza negativa in una relazione che solo 50 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale è stata pubblicata senza grande clamore. Leggendone i contenuti, sono rimasto colpito da alcune analogie tra questa e la storia di Edzard Ernst, medico anch'egli germanico nato a Wiesbaden nel 1948. Ernst inizia la sua carriera all'ospedale omeopatico di Monaco e pratica personalmente l'omeopatia e altre terapie alternative. Diventa poi Cattedratico di Medicina Riabilitativa all'Università di Vienna che lascerà, per dirigere nel 1993 il Dipartimento di Medicina Complementare all'Università di Exeter, in Inghilterra, dove successivamente diventerà Direttore della Peninsula Medical School nel 2002. L'esperienza clinica personalmente raccolta e l'attenta analisi dei lavori e delle pubblicazioni degli omeopati impongono a Ernst di assumere precise posizioni al riguardo. La più emblematica è quella contenuta in una lettera urgente alla Royal Pharmaceutic Society affinché i venditori di preparati omeopatici avvertano che non c'è evidenza che i loro rimedi abbiano alcun effetto specifico sugli esseri umani. E aggiunge ciò che riporto alla lettera: «Lasciamo pure che la gente faccia quello che crede, ma diciamo loro però la verità circa ciò che stanno acquistando. Questi trattamenti sono biologicamente non plausibili e i test clinici circa la loro efficacia hanno dimostrato che essi non fanno proprio nulla nell'uomo» (su quest'ultima affermazione non sono d'accordo perché viene sottovalutata l'importanza non certo marginale dell'effetto placebo).
Il percorso professionale fatto dal dott. Donner mi fa inoltre ricordare l'editoriale pubblicato dalla rivista Lancet nel 2005 titolato "La fine dell'omeopatia", a commento di una revisione di numerosi studi attuati con trattamenti sia convenzionali che omeopatici, che concludevano per la natura placebica delle terapie omeopatiche. L'editoriale deplorava con forza «il fatto che il dibattito [sulla efficacia dell'omeopatia] continui ancora a dispetto di 150 anni di riscontri sfavorevoli», sostenendo pure che ai giorni nostri «i dottori dovrebbero essere leali e onesti con i loro pazienti circa la non efficacia [specifica] della omeopatia». Nonostante ciò, la querelle "serve/non serve" continua illogicamente, e non senza danni, grazie ad una promozione dell'omeopatia sui media così martellante da soverchiare ogni informazione scientifica corretta. Non a caso, su un numero del 2008 di JAMA, il giornale dell'associazione dei medici americani, la dottoressa Eugenia Chan scrive: «In definitiva, una cresciuta attenzione e un rigoroso approfondimento delle prove [di una terapia] sarà di beneficio per i pazienti e per le loro famiglie. Il tempo per la cattiva scienza, sia essa medicina convenzionale o non convenzionale, è scaduto."
Per concludere, quando l'omeopatia nasceva, la medicina convenzionale era più pericolosa che benefica e il tentativo di un approccio "alternativo" meno aggressivo e meno a rischio di effetti collaterali poteva forse avere una giustificazione. Oggi però esistono criteri di valutazione di efficacia e sicurezza di un trattamento, anche se ulteriormente migliorabili, che già hanno fatto progredire enormemente l'efficacia delle cure e hanno sempre meglio definito i fattori causali e i meccanismi con cui le malattie si sviluppano. Da questi progressi non può prescindere né la medicina alternativa, né la medicina scientifica, che certo non difetta anch'essa di qualche scheletro nell'armadio. Come recitava una lapidaria messa a punto sul New England Journal of Medicine di qualche anno fa, non esistono due medicine ma una soltanto, quella che si basa sulle prove e non su asserzioni e su eventi aneddotici, anche se enfatizzati da testimonial famosi ma tutt'altro che esperti di biologia e medicina, come il già ricordato Hitler o l'ineffabile Principe Carlo d'Inghilterra notoriamente impegnato in ben altri campi.
Giorgio Dobrilla
Prof. AC di Metodologia Clinica, Università di Parma