Nel settembre 1997 la rivista Lancet pubblicò un articolo che presentava una “meta-analisi” condotta su farmaci omeopatici. Nonostante gli stessi autori dell'articolo si dichiarassero molto cauti sui loro risultati, abbastanza deludenti, i sostenitori dell'omeopatia hanno naturalmente sfruttato la “risonanza” pubblicitaria che una pubblicazione su una rivista così prestigiosa può fornire, travisando completamente le informazioni fornite dall'articolo e contribuendo a creare ulteriore confusione attorno all'omeopatia. Giancarlo Lancini in questo articolo cerca anzitutto di spiegarci il concetto di “meta-analisi” e successivamente propone le sue argomentazioni in riferimento alla pubblicazione di Lancet.
Negli ultimi mesi è stato frequentemente citato dai sostenitori dell'omeopatia (e più frequentemente dai venditori di prodotti omeopatici) uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista “Lancet” (Vol 350, 20 Settembre 1997, pp. 834-843).
In questo articolo, con una operazione detta di “meta-analisi”, vengono valutati statisticamente i risultati di 89 studi clinici nei quali l'effetto di trattamenti omeopatici è stato confrontato con quello di un placebo, cioè di una sostanza priva di qualsiasi effetto terapeutico. La conclusione degli autori dell'analisi è che esiste una differenza statisticamente significativa a favore del trattamento omeopatico sufficiente a giustificare ulteriori indagini cliniche.
Un breve resoconto di questo studio è stato pubblicato sul numero 16 di “Scienza & Paranormale” da Marta Erba, che ha riportato alcune fondate critiche di noti studiosi sulla metodologia adottata e sulle conclusioni raggiunte dagli autori dell'articolo.
La critica principale è che una meta-analisi, cioè la valutazione statistica complessiva dei risultati di una serie di esperimenti clinici, ha senso solo se gli esperimenti sono omogenei, cioè riguardano l'efficacia di un determinato farmaco nel trattamento di una determinata patologia. Non ha alcun senso fare la media tra risultati ottenuti con cinquanta diversi prodotti provati su una settantina di diverse malattie distribuite in ventiquattro categorie cliniche. Vuol dire infatti paragonare i risultati ottenuti con il prodotto A che sembra avere una qualche efficacia sulla febbre da fieno con quelli del farmaco B che non dimostra alcuna efficacia sui dolori del parto e concludere che statisticamente i due prodotti producono un certo effetto clinico.
Altre volte, come ricorda Roberto Satolli in un articolo su “Sapere” (Agosto 1995) la rivista “Lancet” è stata criticata per aver pubblicato articoli sull'omeopatia non rigorosi dal punto di vista scientifico. Anche in questo caso, sotto un'apparente seriosità ed estremo rigore si intravede un atteggiamento tendenzioso degli autori. Si può notare ad esempio che il pricipale autore dello studio è il dottor Wayne B. Jonas, un sostenitore dell'omeopatia per ragioni professionali in quanto direttore dell'Office of Alternative Medicine del National Institute of Health. E' interessante notare che ultimamente, utilizzando gli stessi metodi l'OAM ha convalidato un'altra pratica controversa che è l'agopuntura.
Tuttavia l'articolo è per certi aspetti molto interessante. Innanzitutto per la grande massa di dati raccolti e per la ricca bibliografia ed inoltre per alcuni commenti ed osservazioni. Mi hanno colpito in particolare le frasi iniziali del paragrafo “Discussion” : The results of our meta-analysis are not compatible with the hypothesis that the clinical effects of homeopathy are completely due to placebo. But there is insufficient evidence from these studies that any single type of homeopathic treatment is clearly effective in any one clinical condition. (I risultati della nostra meta-analisi non sono compatibili con l'ipotesi che gli effetti clinici dell'omeopatia siano completamente dovuti all'effetto placebo. Ma vi è insufficiente evidenza da questi studi che ognuno dei singoli tipi di trattamento omeopatico sia chiaramente efficace in ogni singola condizione clinica).
Per quanto riguarda la prima affermazione ho già accennato alle motivate critiche su questa applicazione dell'analisi statistica. Non approfondisco ulteriormente l'argomento perché, in questa sede, non mi interessa la discussione teorica sull'omeopatia come approccio ideologico alla medicina.
Mi interessa invece, e ritengo dovrebbe interessare sia i medici che le Autorità Sanitarie e soprattutto i pazienti, il significato della seconda frase: al di là del linguaggio alquanto fumoso si afferma che non è stata dimostrata l'efficacia clinica di qualsiasi singolo trattamento omeopatico su qualsiasi singola condizione clinica. Se si tiene conto del fatto che questa affermazione è basata sull'esame di tutti gli studi clinici pubblicati, in gran parte organizzati da medici omeopati e dichiaratamente eseguiti per convalidare la teoria omeopatica, e che si tratta in parecchi casi di studi condotti con discreto rigore su un rilevante numero di pazienti, non si può sfuggire alla conclusione che nessun rimedio omeopatico finora studiato è utilizzabile come farmaco.
Per spiegare l'apparente contraddizione tra i risultati che indicano in diversi casi una differenza statistica tra placebo e trattamento omeopatico e negli stessi casi l'assenza di efficacia clinica è necessario analizzare i singoli lavori originali utilizzati nella meta-analisi. Facilitato dalla ampia bibliografia citata nell'articolo ho potuto rintracciare diversi articoli originali (purtroppo non tutti, in quanto molti sono pubblicati in oscuri giornali difficilmente accessibili come Ber J. Res. Hom, Allg. Homopath. Ztg., o sono semplicemente tesi di laurea). Come ci si poteva aspettare, la ragione dell'apparente contraddizione sta nel fatto che anche nei casi in cui l'analisi statistica dava delle differenze ritenute significative, queste differenze erano poco importanti dal punto di vista terapeutico, perché relative ad aspetti marginali della malattia oppure perché riscontrate su una piccola percentuale dei pazienti. D'altra parte è noto che talvolta si riscontrano differenze anche quando si confrontano tra di loro due forme placebo. E' stato visto ad esempio che un placebo in una capsula verde viene percepito più efficace come sedativo dello stesso in una capsula gialla. Faccio qualche esempio.
In uno studio, valutato nella meta-analisi come uno dei più rigorosi e favorevoli all'omeopatia, il dottor Reilly di Glasgow (Lancet, 341, pp. 1601-06, 1994) ha paragonato l'effetto di un allergene diluito 1:99 per trenta volte (diluizione finale circa 1:1060) con quello del placebo su 28 soggetti sofferenti di asma allergico. Tra i vari parametri presi in considerazione, la valutazione soggettiva semiquantitativa del proprio benessere dei pazienti risultava in media favorevole al trattamento omeopatico, e la differenza era statisticamente significativa. Solo in uno di tre parametri misurati quantitativamente riguardanti la capacità respiratoria, la differenza tra pazienti trattati e controlli era statisticamente significativa. Nessuna differenza rilevante in altri parametri misurati. La trionfalistica conclusione del dr. Reilly (abbiamo dimostrato che l'omeopatia differisce dal placebo in un modo inspiegabile ma riproducibile) è stata duramente contestata dal dr. Rothwell di Edimburgo (Lancet 345, 28 Gennaio 1995) che ha messo in rilievo diverse debolezze dell'esperimento, come il piccolo numero di pazienti, diversi dei quali non hanno completato i test, e il fatto che solo due parametri su undici misurati avessero dato differenze significative. Ma più importante dal mio punto di vista è l'osservazione che se si esaminano, invece che le medie, i dati dei singoli pazienti, la maggior differenza riscontrata, cioè l'auto valutazione del benessere, era essenzialmente dovuta ad un peggioramento delle condizioni di quattro pazienti con placebo ed a un sensibile miglioramento di un singolo soggetto trattato. In pratica questo trattamento omeopatico aveva dimostrato di migliorare chiaramente questo parametro in un solo paziente su dodici trattati. E' evidente che non può essere giudicato clinicamente efficace. A questa obiezione ha risposto il dr. Enrico Felisi (Sapere, Agosto 1995, p 35) sostenendo che l'intento dichiarato del dr. Reilly non era quello di provare l'efficacia clinica del trattamento, ma solo di provare che l'omeopatia ha effetti diversi dal placebo. Benissimo, purché un medico omeopata poi non prescriva questo trattamento ai pazienti di asma allergica invece di un noto ed efficace broncodilatatore.
Altro esempio: J. Ferley e collaboratori (British Journal Clinical Pharmacology 27 pp.329-335, 1989) hanno studiato l'effetto di un farmaco omeopatico in commercio sui sintomi dell'influenza, in confronto con placebo. L'esperimento clinico era ampio, in quanto coinvolgeva quasi cinquecento pazienti ed una ventina di medici. Il parametro determinato era la durata della malattia, misurata in giorni di febbre. Gli autori concludono che il trattamento omeopatico appariva superiore al placebo in quanto dopo 48 ore 39 pazienti erano senza febbre nel gruppo dei trattati, contro 24 nel gruppo del placebo. La differenza è al limite della significatività statistica, ma se si considera che in pratica su 237 pazienti a cui era stato somministrato il trattamento solo 15 (39 - 24) in più dei controlli erano guariti, non si può giudicare il dato entusiasmante. La scarsa o nulla efficacia del trattamento è ancora più evidente se si considera la frequenza di guarigione nei giorni successivi. Al quarto giorno circa il 50% sia dei pazienti che avevano ricevuto il trattamento omeopatico sia di quelli che avevano ricevuto il placebo era ancora febbrile, e quasi esattamente lo stesso numero di trattati e di controlli (il 25%) lo era ancora al sesto giorno.
Un altro aspetto rilevante è quello della riproducibilità dei risultati. Un farmaco può essere considerato valido terapeuticamente solo se dimostra una certa costanza nei risultati di esperimenti clinici ripetuti. Dall'esame dei lavori pubblicati appare esattamente il contrario. Per esempio quattro studi (tre dei quali valutati di qualità mediocre dagli autori della meta-analisi) avevano dato risultati variabili, ma tendenzialmente favorevoli al trattamento omeopatico, nel decorso post-operatorio degli interventi all'ileo. Il parametro misurato era il tempo intercorso tra l'intervento e la ripresa delle funzioni intestinali ed il trattamento era essenzialmente a base di oppio a diverse diluizioni omeopatiche. Per dirimere la questione il Ministro degli Affari Sociali francese istituì una commissione mista di medici omeopati e convenzionali per organizzare un esperimento molto rigoroso, condotto su trecento pazienti. Il risultato (Lancet, 5 Marzo 1988, pp.528-529) dimostrò molto chiaramente che non vi era alcuna differenza tra placebo e trattamento con oppio o oppio più rafano naturalmente diluiti secondo i canoni omeopatici.
Continuare negli esempi diventerebbe noioso. Cito solo un altro lavoro perché mi permette di introdurre un argomento diverso. Il dott. M.Shipley di Londra, in collaborazione con medici di due ospedali omeopatici inglesi ha condotto un rigoroso esperimento clinico sui dolori dell'osteoartrite confrontando l'effetto del Rhus tox. 6X (un rimedio frequentemente prescritto costituito dalla tossina del Rhus toxicodendron diluita un milione di volte) con quelli del placebo e di un noto farmaco, il fenoprofen (Lancet, 1 Gennaio 1983 pp. 97-98). Nessuna differenza è stata riscontrata tra placebo e trattamento omeopatico, mentre il farmaco è risultato chiaramente efficace nella riduzione del dolore. Questo caso è l'unico tra quelli citati nella meta-analisi, in cui il trattamento omeopatico è confrontato, oltre che con il placebo, anche con un farmaco della medicina convenzionale. Sottolineo questo punto perché oggi nei paesi civili affinché un nuovo farmaco venga accettato per la pratica clinica, deve dimostrare non solo di essere diverso dal placebo ma di essere almeno equivalente, in termini di efficacia e tollerabilità, ai farmaci già in uso (nei Paesi più severi in realtà non basta l'equivalenza ma deve essere dimostrato un qualche vantaggio). La dimostrazione di equivalenza non è stata nemmeno tentata, con l'eccezione suddetta, con nessuno dei trattamenti omeopatici esaminati, perché avrebbe evidentemente dato risultati disastrosi.
Come abbiamo visto all'inizio, gli autori della meta-analisi si rendono conto entro certi limiti di questa debolezza. Una delle frasi conclusive dell'articolo è particolarmente interessante: “Our study has no major implications for clinical practice because we found little evidence of effectiveness of any single homeopathic approach on any single clinical condition” (Il nostro studio non ha grandi implicazioni per la pratica clinica perché abbiamo trovato scarsa evidenza di efficacia di ogni singolo approccio omeopatico su ogni singola condizione clinica).
Non sono d'accordo! Questo studio, invece, ha notevoli implicazioni per la pratica clinica. Riconoscendo la mancanza di efficacia di tutti i trattamenti omeopatici esaminati, viene fornita una chiarissima indicazione ai medici sia omeopati che tradizionali: questi trattamenti non devono essere prescritti se non si vuole ingannare, invece che curare, il paziente.
Negli ultimi mesi è stato frequentemente citato dai sostenitori dell'omeopatia (e più frequentemente dai venditori di prodotti omeopatici) uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista “Lancet” (Vol 350, 20 Settembre 1997, pp. 834-843).
In questo articolo, con una operazione detta di “meta-analisi”, vengono valutati statisticamente i risultati di 89 studi clinici nei quali l'effetto di trattamenti omeopatici è stato confrontato con quello di un placebo, cioè di una sostanza priva di qualsiasi effetto terapeutico. La conclusione degli autori dell'analisi è che esiste una differenza statisticamente significativa a favore del trattamento omeopatico sufficiente a giustificare ulteriori indagini cliniche.
Un breve resoconto di questo studio è stato pubblicato sul numero 16 di “Scienza & Paranormale” da Marta Erba, che ha riportato alcune fondate critiche di noti studiosi sulla metodologia adottata e sulle conclusioni raggiunte dagli autori dell'articolo.
La critica principale è che una meta-analisi, cioè la valutazione statistica complessiva dei risultati di una serie di esperimenti clinici, ha senso solo se gli esperimenti sono omogenei, cioè riguardano l'efficacia di un determinato farmaco nel trattamento di una determinata patologia. Non ha alcun senso fare la media tra risultati ottenuti con cinquanta diversi prodotti provati su una settantina di diverse malattie distribuite in ventiquattro categorie cliniche. Vuol dire infatti paragonare i risultati ottenuti con il prodotto A che sembra avere una qualche efficacia sulla febbre da fieno con quelli del farmaco B che non dimostra alcuna efficacia sui dolori del parto e concludere che statisticamente i due prodotti producono un certo effetto clinico.
Altre volte, come ricorda Roberto Satolli in un articolo su “Sapere” (Agosto 1995) la rivista “Lancet” è stata criticata per aver pubblicato articoli sull'omeopatia non rigorosi dal punto di vista scientifico. Anche in questo caso, sotto un'apparente seriosità ed estremo rigore si intravede un atteggiamento tendenzioso degli autori. Si può notare ad esempio che il pricipale autore dello studio è il dottor Wayne B. Jonas, un sostenitore dell'omeopatia per ragioni professionali in quanto direttore dell'Office of Alternative Medicine del National Institute of Health. E' interessante notare che ultimamente, utilizzando gli stessi metodi l'OAM ha convalidato un'altra pratica controversa che è l'agopuntura.
Tuttavia l'articolo è per certi aspetti molto interessante. Innanzitutto per la grande massa di dati raccolti e per la ricca bibliografia ed inoltre per alcuni commenti ed osservazioni. Mi hanno colpito in particolare le frasi iniziali del paragrafo “Discussion” : The results of our meta-analysis are not compatible with the hypothesis that the clinical effects of homeopathy are completely due to placebo. But there is insufficient evidence from these studies that any single type of homeopathic treatment is clearly effective in any one clinical condition. (I risultati della nostra meta-analisi non sono compatibili con l'ipotesi che gli effetti clinici dell'omeopatia siano completamente dovuti all'effetto placebo. Ma vi è insufficiente evidenza da questi studi che ognuno dei singoli tipi di trattamento omeopatico sia chiaramente efficace in ogni singola condizione clinica).
Per quanto riguarda la prima affermazione ho già accennato alle motivate critiche su questa applicazione dell'analisi statistica. Non approfondisco ulteriormente l'argomento perché, in questa sede, non mi interessa la discussione teorica sull'omeopatia come approccio ideologico alla medicina.
Mi interessa invece, e ritengo dovrebbe interessare sia i medici che le Autorità Sanitarie e soprattutto i pazienti, il significato della seconda frase: al di là del linguaggio alquanto fumoso si afferma che non è stata dimostrata l'efficacia clinica di qualsiasi singolo trattamento omeopatico su qualsiasi singola condizione clinica. Se si tiene conto del fatto che questa affermazione è basata sull'esame di tutti gli studi clinici pubblicati, in gran parte organizzati da medici omeopati e dichiaratamente eseguiti per convalidare la teoria omeopatica, e che si tratta in parecchi casi di studi condotti con discreto rigore su un rilevante numero di pazienti, non si può sfuggire alla conclusione che nessun rimedio omeopatico finora studiato è utilizzabile come farmaco.
Per spiegare l'apparente contraddizione tra i risultati che indicano in diversi casi una differenza statistica tra placebo e trattamento omeopatico e negli stessi casi l'assenza di efficacia clinica è necessario analizzare i singoli lavori originali utilizzati nella meta-analisi. Facilitato dalla ampia bibliografia citata nell'articolo ho potuto rintracciare diversi articoli originali (purtroppo non tutti, in quanto molti sono pubblicati in oscuri giornali difficilmente accessibili come Ber J. Res. Hom, Allg. Homopath. Ztg., o sono semplicemente tesi di laurea). Come ci si poteva aspettare, la ragione dell'apparente contraddizione sta nel fatto che anche nei casi in cui l'analisi statistica dava delle differenze ritenute significative, queste differenze erano poco importanti dal punto di vista terapeutico, perché relative ad aspetti marginali della malattia oppure perché riscontrate su una piccola percentuale dei pazienti. D'altra parte è noto che talvolta si riscontrano differenze anche quando si confrontano tra di loro due forme placebo. E' stato visto ad esempio che un placebo in una capsula verde viene percepito più efficace come sedativo dello stesso in una capsula gialla. Faccio qualche esempio.
In uno studio, valutato nella meta-analisi come uno dei più rigorosi e favorevoli all'omeopatia, il dottor Reilly di Glasgow (Lancet, 341, pp. 1601-06, 1994) ha paragonato l'effetto di un allergene diluito 1:99 per trenta volte (diluizione finale circa 1:1060) con quello del placebo su 28 soggetti sofferenti di asma allergico. Tra i vari parametri presi in considerazione, la valutazione soggettiva semiquantitativa del proprio benessere dei pazienti risultava in media favorevole al trattamento omeopatico, e la differenza era statisticamente significativa. Solo in uno di tre parametri misurati quantitativamente riguardanti la capacità respiratoria, la differenza tra pazienti trattati e controlli era statisticamente significativa. Nessuna differenza rilevante in altri parametri misurati. La trionfalistica conclusione del dr. Reilly (abbiamo dimostrato che l'omeopatia differisce dal placebo in un modo inspiegabile ma riproducibile) è stata duramente contestata dal dr. Rothwell di Edimburgo (Lancet 345, 28 Gennaio 1995) che ha messo in rilievo diverse debolezze dell'esperimento, come il piccolo numero di pazienti, diversi dei quali non hanno completato i test, e il fatto che solo due parametri su undici misurati avessero dato differenze significative. Ma più importante dal mio punto di vista è l'osservazione che se si esaminano, invece che le medie, i dati dei singoli pazienti, la maggior differenza riscontrata, cioè l'auto valutazione del benessere, era essenzialmente dovuta ad un peggioramento delle condizioni di quattro pazienti con placebo ed a un sensibile miglioramento di un singolo soggetto trattato. In pratica questo trattamento omeopatico aveva dimostrato di migliorare chiaramente questo parametro in un solo paziente su dodici trattati. E' evidente che non può essere giudicato clinicamente efficace. A questa obiezione ha risposto il dr. Enrico Felisi (Sapere, Agosto 1995, p 35) sostenendo che l'intento dichiarato del dr. Reilly non era quello di provare l'efficacia clinica del trattamento, ma solo di provare che l'omeopatia ha effetti diversi dal placebo. Benissimo, purché un medico omeopata poi non prescriva questo trattamento ai pazienti di asma allergica invece di un noto ed efficace broncodilatatore.
Altro esempio: J. Ferley e collaboratori (British Journal Clinical Pharmacology 27 pp.329-335, 1989) hanno studiato l'effetto di un farmaco omeopatico in commercio sui sintomi dell'influenza, in confronto con placebo. L'esperimento clinico era ampio, in quanto coinvolgeva quasi cinquecento pazienti ed una ventina di medici. Il parametro determinato era la durata della malattia, misurata in giorni di febbre. Gli autori concludono che il trattamento omeopatico appariva superiore al placebo in quanto dopo 48 ore 39 pazienti erano senza febbre nel gruppo dei trattati, contro 24 nel gruppo del placebo. La differenza è al limite della significatività statistica, ma se si considera che in pratica su 237 pazienti a cui era stato somministrato il trattamento solo 15 (39 - 24) in più dei controlli erano guariti, non si può giudicare il dato entusiasmante. La scarsa o nulla efficacia del trattamento è ancora più evidente se si considera la frequenza di guarigione nei giorni successivi. Al quarto giorno circa il 50% sia dei pazienti che avevano ricevuto il trattamento omeopatico sia di quelli che avevano ricevuto il placebo era ancora febbrile, e quasi esattamente lo stesso numero di trattati e di controlli (il 25%) lo era ancora al sesto giorno.
Un altro aspetto rilevante è quello della riproducibilità dei risultati. Un farmaco può essere considerato valido terapeuticamente solo se dimostra una certa costanza nei risultati di esperimenti clinici ripetuti. Dall'esame dei lavori pubblicati appare esattamente il contrario. Per esempio quattro studi (tre dei quali valutati di qualità mediocre dagli autori della meta-analisi) avevano dato risultati variabili, ma tendenzialmente favorevoli al trattamento omeopatico, nel decorso post-operatorio degli interventi all'ileo. Il parametro misurato era il tempo intercorso tra l'intervento e la ripresa delle funzioni intestinali ed il trattamento era essenzialmente a base di oppio a diverse diluizioni omeopatiche. Per dirimere la questione il Ministro degli Affari Sociali francese istituì una commissione mista di medici omeopati e convenzionali per organizzare un esperimento molto rigoroso, condotto su trecento pazienti. Il risultato (Lancet, 5 Marzo 1988, pp.528-529) dimostrò molto chiaramente che non vi era alcuna differenza tra placebo e trattamento con oppio o oppio più rafano naturalmente diluiti secondo i canoni omeopatici.
Continuare negli esempi diventerebbe noioso. Cito solo un altro lavoro perché mi permette di introdurre un argomento diverso. Il dott. M.Shipley di Londra, in collaborazione con medici di due ospedali omeopatici inglesi ha condotto un rigoroso esperimento clinico sui dolori dell'osteoartrite confrontando l'effetto del Rhus tox. 6X (un rimedio frequentemente prescritto costituito dalla tossina del Rhus toxicodendron diluita un milione di volte) con quelli del placebo e di un noto farmaco, il fenoprofen (Lancet, 1 Gennaio 1983 pp. 97-98). Nessuna differenza è stata riscontrata tra placebo e trattamento omeopatico, mentre il farmaco è risultato chiaramente efficace nella riduzione del dolore. Questo caso è l'unico tra quelli citati nella meta-analisi, in cui il trattamento omeopatico è confrontato, oltre che con il placebo, anche con un farmaco della medicina convenzionale. Sottolineo questo punto perché oggi nei paesi civili affinché un nuovo farmaco venga accettato per la pratica clinica, deve dimostrare non solo di essere diverso dal placebo ma di essere almeno equivalente, in termini di efficacia e tollerabilità, ai farmaci già in uso (nei Paesi più severi in realtà non basta l'equivalenza ma deve essere dimostrato un qualche vantaggio). La dimostrazione di equivalenza non è stata nemmeno tentata, con l'eccezione suddetta, con nessuno dei trattamenti omeopatici esaminati, perché avrebbe evidentemente dato risultati disastrosi.
Come abbiamo visto all'inizio, gli autori della meta-analisi si rendono conto entro certi limiti di questa debolezza. Una delle frasi conclusive dell'articolo è particolarmente interessante: “Our study has no major implications for clinical practice because we found little evidence of effectiveness of any single homeopathic approach on any single clinical condition” (Il nostro studio non ha grandi implicazioni per la pratica clinica perché abbiamo trovato scarsa evidenza di efficacia di ogni singolo approccio omeopatico su ogni singola condizione clinica).
Non sono d'accordo! Questo studio, invece, ha notevoli implicazioni per la pratica clinica. Riconoscendo la mancanza di efficacia di tutti i trattamenti omeopatici esaminati, viene fornita una chiarissima indicazione ai medici sia omeopati che tradizionali: questi trattamenti non devono essere prescritti se non si vuole ingannare, invece che curare, il paziente.