Intervista a Paolo Vecchia, presidente dell'European Bioelectromagnetics

I campi elettromagnetici suscitano molte paure e sospetti. Sono ingiustificati?

  • In Articoli
  • 22-03-2002
  • di Emiliano Farinella
Il Prof. Paolo Vecchia è a capo della Sezione per le Radiazioni Non Ionizzanti dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) di Roma. Ha condotto attività di ricerca scientifica in diversi settori del bioelettromagnetismo ed è stato membro di numerose commissioni e gruppi di lavoro per lo sviluppo di programmi sanitari e standard di protezione. Il Prof. Vecchia ha insegnato "Principi di protezione contro le radiazioni non ionizzanti" presso la scuola di specializzazione post-laurea di Fisica Sanitaria dell’Università di Roma "La Sapienza".
Attualmente è presidente dell’EBEA, (European Bioelectromagnetics Association). Membro del Comitato Scientifico Consultivo del progetto internazionale CEM (Campi Elettromagnetici) dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), membro dell’ICNIRP (International Commission on Non Ionizing Radiation Protection) e del Comitato di coordinamento del progetto europeo COST281 “Potential Health Implications from Mobile Communication Systems”.


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Perché, secondo lei, la percezione del rischio legato ai campi EM è così alta?

I sociologi hanno studiato a fondo i meccanismi alla base della percezione del rischio, identificando una serie di fattori che accentuano questa percezione; ad esempio, si possono citare la scarsa familiarità con l’agente in questione, la difficoltà di comprensione dei processi biologici coinvolti, il fatto che i danni temuti riguardino i bambini piuttosto che gli adulti. Purtroppo, la maggior parte di questi fattori gioca un ruolo importante nel caso dei campi elettromagnetici. Per questi ultimi bisogna anzi aggiungere alla lista “classica” alcuni elementi peculiari, come l’impercettibilità dei campi, la confusione con le radiazioni ionizzanti (i campi elettromagnetici vengono spesso chiamati “radiazioni non ionizzanti”) e, non ultimo, l’alone di magia o superstizione che sin dall’antichità avvolge tutto quello che è “magnetico”. Infine, non si può tacere il ruolo di un’informazione troppo spesso parziale, distorta e allarmistica. Si deve tenere presente a questo proposito che l’informazione non è veicolata solo attraverso articoli giornalistici e trasmissioni radiotelevisive; esistono messaggi “indiretti”, generalmente più rapidi ed efficaci. La rimozione di un’antenna per telefonia cellulare dal tetto di una scuola, nonostante l’edificio costituisca la zona di minima esposizione, viene inevitabilmente interpretata come un implicito riconoscimento di pericolosità. Anche le normative di precauzione, se non giustificate (o giustificabili) dal punto di vista logico e scientifico creano lo stesso effetto. L’esempio del decreto italiano per i campi a radiofrequenza (il DM 381 del 1998) che ha esasperato, anziché sedarle, le preoccupazioni e le contestazioni dei cittadini, è significativo a questo riguardo.

Quali studi sperimentali ha effettuato sul fenomeno “elettrosmog”?

Eviterei il termine “elettrosmog”, che è totalmente estraneo al linguaggio scientifico ed è fuorviante per il cittadino comune. Da un lato, dà una connotazione negativa al problema prima ancora di affrontarlo, dall’altro induce a considerare alla stessa stregua tutte le sorgenti e tutti i tipi di campi elettromagnetici (a bassa o ad alta frequenza) , contrariamente ad ogni logica e ad ogni conoscenza scientifica. Se comunque con questo termine si intendono gli aspetti sociali, piuttosto che quelli strettamente scientifici, del problema, direi che i contributi più importanti delle mie ricerche sono state le valutazioni quantitative dell’eventuale impatto sanitario dei campi generati dagli elettrodotti, nell’ipotesi che questi abbiano effettivamente un ruolo nella cancerogenesi. Inoltre, mi piace ricordare la mia partecipazione ad un gruppo di lavoro della Comunità Europea sul tema della “ipersensibilità” ai campi elettromagnetici e dei disturbi soggettivi a questa attribuiti. Mentre non abbiamo trovato convincenti prove dell’ipersensibilità, abbiamo potuto stabilire che i disturbi soggettivi sono, almeno in parte, di origine psicosomatica e probabilmente imputabili a quella distorta percezione del rischio di cui abbiamo già parlato. Accanto a questi, ho condotto, assieme al mio gruppo di ricerca ed in collaborazione con altre strutture, studi biologici, epidemiologici e dosimetrici.

Che risultati ha raggiunto?

Per quanto riguarda gli studi di laboratorio ed epidemiologici, i risultati sono stati prevalentemente negativi, nel senso che non hanno indicato effetti sanitari di rilievo, anche se abbiamo osservato alcuni effetti biologici di un certo interesse. Le stime di rischio ci hanno portato a concludere, già diversi anni fa, che nel caso in cui i campi magnetici a frequenza di rete fossero effettivamente cancerogeni, l’intera rete degli elettrodotti italiani sarebbe responsabile di qualche unità di casi di leucemia infantile, sui circa 470 che si manifestano ogni anno nel nostro paese. Queste stime, del tutto coerenti con quelle di altri paesi (Gran Bretagna, Svezia, Olanda) sono state corrette verso il basso in seguito alle più recenti analisi dei dati epidemiologici: oggi stimiamo in circa un caso incidente ogni 2 anni il carico aggiuntivo di leucemia infantile ipoteticamente attribuibile alle linee ad alta tensione.

Quali conseguenze personali ha avuto per questi studi? Di cosa è stato accusato, e cosa è cambiato nella sua vita professionale?

Più che per i miei studi personali, ho pagato un prezzo carissimo per essermi sforzato, per anni, di riportare le valutazioni e gli orientamenti della comunità scientifica e delle massime organizzazioni internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità, Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ionizzanti, Commissione Europea). Sono stato accusato di falso ideologico e di collusione con l’industria; ho subito indagini giudiziarie e amministrative che mi hanno profondamente segnato, anche se si sono concluse non solo con il mio proscioglimento ma con il più ampio apprezzamento per il mio lavoro. Anche le conseguenze sulla mia attività professionale sono state notevoli: nulla è cambiato nel mio modo di intendere la ricerca, la protezione, la dignità e l’onestà professionale, ma molto è cambiato nella mia collocazione. Oggi sono pienamente inserito nella comunità internazionale, ho un ruolo in tutte le organizzazioni che ho già citato ed ho l’onore di presiedere l’Associazione Europea di Bioelettromagnetismo; per contro, sono stato per anni completamente isolato in Italia. Nemo propheta in patria…

Gli effetti di impianti di distribuzione di energia elettrica ad alta tensione sono osservabili da alcuni decenni. Che evidenze ci sono di impatto sulla salute pubblica?

Non c’è, e non ci può essere, alcun impatto visibile sulla salute pubblica. L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ha nel giugno scorso classificato i campi magnetici a frequenza industriale (cioè quelli generati dagli elettrodotti, ma anche dai circuiti interni alle nostre case e dagli elettrodomestici) come “possibilmente cancerogeni”, cioè la categoria più bassa tra quelle utilizzate per indicare agenti per i quali esistono dati scientifici a favore della cancerogenesi. Come ho già detto, se questa ipotesi fosse vera i casi di leucemia infantile (l’unica patologia suggerita dagli studi epidemiologici) attribuibili agli elettrodotti sarebbero meno di uno all’anno, cioè molto meno delle normali fluttuazioni statistiche dei dati di incidenza.

Quali casi problematici e atipici si presentano nella statistica?

Le segnalazioni di aumenti, anche notevoli, nel numero di casi di tumore in vicinanza di linee ad alta tensione (ma anche di altre sorgenti, come antenne radiotelevisive e stazioni radiobase per telefonia cellulare) sono numerose, e trovano larga eco nei mezzi di informazione. Generalmente, però, se si effettua una verifica rigorosa sulla base dei dati statistici si scopre che il numero dei casi non si discosta da quello atteso. Il complesso delle indagini epidemiologiche mostra comunque un dato singolare, anche se non è esatto definirlo “anomalo”. Un’analisi dei dati aggregati dei maggiori studi del tipo caso-controllo ha dimostrato che nel 94,2% dei casi, relativi a bambini esposti a campi magnetici inferiori a un determinato valore (0,4 microtesla) non si presentavano aumenti apprezzabili di rischio di leucemia infantile, ma che nelle piccola minoranza di soggetti esposti al di sopra di questo valore il rischio è praticamente raddoppiato.

Come si possono spiegare?

La spiegazione degli aumenti di casi segnalati ma non confermati è probabilmente nella “attenzione selettiva”, cioè il fenomeno per cui casi di tumore che si sarebbero verificati comunque e sarebbero stati considerati (statisticamente) normali in altre circostanze, vengono notati molto di più ed attribuiti ai campi elettromagnetici se c’è una preoccupazione per questi ultimi. Per quello che riguarda la statistica su base mondiale, gli autori dell’analisi citata sopra dichiarano testualmente che “la causa dell’aumento di casi di leucemia osservato non è nota”, ma fanno presente che alcune distorsioni nel protocollo d’indagine potrebbero spiegare almeno in parte i risultati.

Se si decidesse di abbandonare il sistema di trasporto dell’energia elettrica su tralicci, che alternative si potrebbero avanzare?

Le soluzioni tecniche sono molteplici e diverse per i diversi tipi di elettrodotti. Per le linee di distribuzione a bassa e media tensione (decine di chilovolt) è possibile l’interramento dei cavi, ma anche l’adozione di linee compatte o di linee aeree in cavo, due soluzioni che permettono un ravvicinamento dei conduttori ed una riduzione dei campi elettrici e magnetici per effetto della compensazione delle fasi. A queste diverse alternative corrispondono costi diversi, non solo in termini monetari ma anche urbanistici, di vincoli sul territorio, paesaggistici ecc. Per le linee ad alta tensione (particolarmente quelle a 380 kV) i problemi di fattibilità tecnica ed i costi economici rendono a tutt’oggi improponibile qualunque alternativa. Sono allo studio nuove tecnologie che potrebbero cambiare la prospettiva, in un futuro che comunque non si prevede molto vicino.

Che costi avrebbero, in termini di vite umane e di spesa economica, i lavori necessari a convertire il sistema di distribuzione dell’energia elettrica?

Calcoli effettuati dall’ENEL e certificati da una società di revisione straniera indicano in una cifra variabile tra 36.000 e 50.000 miliardi di lire la spesa necessaria per ridurre le esposizioni nelle aree adibite a lunghe permanenze al di sotto del valore di 0,5 mT, che è stato ipotizzato come “livello di attenzione” in una bozza di decreto a suo tempo presentato ufficialmente alla stampa ed alle commissioni parlamentari dal Sottosegretario all’ambiente del passato governo. Un’eventuale riduzione al di sotto di 0,2 mT (ammesso che sia tecnicamente possibile) comporterebbe costi pressoché doppi. Il costo in termini di vite umane non è al momento quantificabile; questo sarebbe infatti dovuto agli incidenti sul lavoro, di cui non ho competenza ma sui quali credo manchino statistiche riferibili alle tecnologie in questione.

Cosa cambierebbe nella manutenzione con questo nuovo sistema di distribuzione? Si posso fare delle ipotesi su come muterebbe la sicurezza degli operatori deputati alla manutenzione? Come si spiegano questi cambiamenti?

Anche questi aspetti esulano dalle mie competenze professionali. Credo però che sarebbe difficile per chiunque fare previsioni senza avere idea di quali tecnologie si vogliano o si possano adottare. È comunque evidente che, prima di varare provvedimenti che impongano modifiche sostanziali della rete elettrica, si dovrebbero effettuare analisi approfondite e trasparenti delle diverse opzioni, valutandone tutti gli aspetti, compreso quello della sicurezza dei lavoratori.

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