La carovana del sultano
di Marco Aime
Einaudi, Torino, 2023
pp. 304, euro 28,00
Nel maggio dell’anno del Signore 1324, Annus Hegirae 724, un’immensa carovana giunse alle porte del Cairo. Proveniente dall’impero del Mali, era guidata dal suo sultano, Mansa (che significa “imperatore”) Musa, all’epoca trentacinquenne, impegnato nell’hajj, il pellegrinaggio rituale che almeno una volta nella vita ogni musulmano deve compiere alla Mecca. La carovana era partita almeno sette mesi prima dalla capitale del Mali, Niani, oggi un modesto villaggio della Guinea, con circa 15.000 uomini, un’intera nazione viaggiante che si estendeva per decine di chilometri. Migliaia di cammelli portavano i bagagli ma, soprattutto, un favoloso tesoro la cui fama avrebbe travalicato i secoli per giungere fino a noi: 80 o forse 1oo carichi, corrispondenti a 12-17 tonnellate d’oro, ossia circa un miliardo di euro al valore attuale. Che era solo una piccola parte della sua ricchezza: definito in un’analisi della rivista Forbes come l’uomo più ricco di tutti i tempi, Mansa Musa disponeva di un patrimonio calcolato in 400 miliardi di dollari correnti.
All’epoca, le notizie che provenivano dall’interno dell’Africa erano poche e frammentarie. L’Europa era stata infatuata, un secolo e mezzo prima, dalla fantastica lettera del Prete Gianni, che si proclamava Re dei Re e descriveva il suo immenso impero, dove scorrevano fiumi di smeraldi e zaffiri, e in cui viveva all’interno di un palazzo dalle pareti d’oro e dai pavimenti d’opale. Quando le descrizioni della spedizione di Mansa Musa giunsero all’altra sponda del Mediterraneo, di certo il ricordo di quella leggenda era ancora molto vivido. Cinquant’anni dopo, gli ebrei Abraham e Jehuda Cresques, padre e figlio, realizzarono a Palma di Maiorca una spettacolare mappa mundi per il principe Giovanni d’Aragona, rappresentando l’impero del Mali attraverso la figura di un sovrano dalla pelle nera, in posa imperiale, che giganteggia su tutta l’Africa occidentale: Kanku Musa, ossia figlio di Kanku, il nome della madre, secondo la genealogia matrilineare di quelle terre: «Questo re è il più ricco e il più nobile di tutte queste terre grazie all’abbondanza di oro che viene estratto dalle sue terre» recita il cartiglio.
Si può dire che in Europa ne sapessero allora più di quanto ne sappiamo noi oggi. Il leggendario pellegrinaggio di Mansa Musa è entrato a far parte di diritto dei miti di fondazione dell’Africa postcoloniale, rivendicazione di un’epoca in cui esistevano grandi e ricchi imperi, in contrasto con l’immagine tradizionale di clan e tribù sparsi per villaggi isolati. All’opposto, se si apre una qualsiasi storia dell’Africa pubblicata in Occidente, le vicende del continente precoloniale sono solitamente liquidate in poche pagine iniziali. Del grande impero del Mali, erede di quello del Ghana e a cui sarebbe succeduto il Songhai, che dominava su tutto il Sahel occidentale, fino alla conquista da parte del Marocco di al-Mansur, alla fine del Cinquecento, conosciamo giusto questi nomi, e l’eco leggendaria di Timbuctu, la più importante delle città di quella regione. Come ben ci spiega l’antropologo e africanista Marco Aime in La carovana del sultano, che racconta la straordinaria storia del pellegrinaggio di Mansa Musa, all’epoca grazie ai rapporti commerciali tra arabi ed ebrei una fitta rete di scambi collegava l’area a sud del Sahara con il Mediterraneo: si commerciava il sale ma anche l’oro, tant’è che quando l’oro portato al Cairo da Mansa Musa arrivò in parte in Europa produsse una clamorosa svalutazione. E poi, ovviamente, gli schiavi.
I racconti di Mansa Musa che sono arrivati fino a noi, raccolti da celebri cronisti come Ibn Khaldun, sono degni delle Mille e una notte: pesci enormi raccolti nel Mar Rosso, spedizioni navali verso i confini dell’oceano (al punto che ancora oggi c’è chi si è spinto a ipotizzare che gli africani fossero giunti in America, tesi che Aime respinge con numerose prove), palazzi fiabeschi. Ma oltre alle testimonianze scritte ci sono rimaste narrazioni orali, che a lungo hanno rappresentato l’unica storia possibile nel mondo africano e che hanno permesso a Mansa Musa di giungere fino a noi. Marco Aime ci presenta una storia di straordinaria modernità, con cui leggere in controluce l’Africa contemporanea e mettere in discussione la stessa idea di un’Africa “precoloniale”, che sarebbe come derubricare il secolo di Luigi XIV a “Europa prerivoluzionaria”. Un’epoca favolosa che ora grazie a questo libro ci viene restituita nella sua vivida storicità.