Nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, il diavolo si lamenta con Ivan dei suoi reumatismi, e afferma: «Essendo disperato, ho scritto al conte Mattei a Milano. Lui mi ha mandato un libro e delle gocce. Dio lo benedica». Il nobiluomo menzionato altri non era che Cesare Mattei (1809-1896), inventore di una pratica medica assai popolare nel XIX secolo e artefice di uno dei più curiosi edifici dell’intera Emilia.
Mattei era nato a Bologna da una famiglia benestante: il nonno e il padre avevano fatto fortuna grazie a un negozio in città e a oculati investimenti terrieri. Dopo gli studi classici, provò a intraprendere la carriera politica e nel 1837 fu tra i fondatori della Cassa di Risparmio di Bologna. Diventò conte grazie a una donazione. Alla morte del padre, avvenuta quando Cesare aveva appena 18 anni, lui e il fratello avevano ereditato il canale di Magnavacca, nei pressi di Comacchio. Ma la zona del Ferrarese, dopo la Restaurazione dei sovrani pre-napoleonici, era sotto il dominio austriaco, e così i due decisero di disfarsene donando il terreno allo Stato pontificio. Per ringraziarli, nel 1847, papa Pio IX concesse il titolo di conti ai fratelli Mattei e ai loro discendenti.
Appena sette anni prima, però, si era compiuta la tragedia destinata a cambiare la vita di Cesare: la morte della madre, dopo un lungo calvario, a causa di un tumore al seno. Dal lutto, Mattei ricavò una profonda sfiducia per la medicina e il desiderio di ottenere una cura efficace per tutte le malattie. Tra il 1840 e il 1849 studiò, viaggiò e approfondì i principi dell’omeopatia sviluppata a inizio Ottocento da Samuel Hahnemann. Nel 1848 abbandonò la politica, dimettendosi dagli incarichi ottenuti (era deputato per il collegio di Budrio). Preferì dedicare la vita alla “nuova scienza” che aveva iniziato a sviluppare - l’elettromeopatia - e alla costruzione di un edificio dove produrre i suoi preparati: Rocchetta Mattei, una specie di castello nel territorio di Grizzana, nel Bolognese. La prima pietra fu posta il 5 novembre 1850 e il conte andò ad abitarvi dal 1859, anche se continuò a rimaneggiare l’edificio fino alla morte.
Visitare la Rocchetta oggi è un’esperienza straniante. Edificata sulle rovine dell’antica rocca di Savignano, è una costruzione eclettica, con sale in stile medievale e altre alla moda moresca, in cui si alternano iscrizioni in latino, statue di ippogrifi, stemmi e vetrate, secondo una logica difficile da intuire. Vi trovarono posto lo studio-ambulatorio del conte, una cappella che riproduceva la moschea di Cordova e la “sala della visione”: quella in cui Cesare Mattei aveva avuto un sogno premonitore del futuro glorioso della sua “nuova scienza”. Enigmatiche iscrizioni in latino presentano l’elettromeopatia come il frutto di un’illuminazione divina, a beneficio dell’intera umanità.
In cosa consisteva questa “nuova scienza”? Dirlo oggi non è facile: Mattei mantenne sempre il segreto sulla modalità di fabbricazione dei suoi preparati. L’efficacia, a suo dire, si basava su una presunta “elettricità vegetale”, unita ai principi dell’omeopatia (la teoria dei simili e le diluizioni). La malattia era interpretata come un disordine dell’organismo, che i granuli riequilibravano. Su questa base, Mattei aveva individuato diversi rimedi (inizialmente 24), tutti di origine erboristica (salvia, pino, ginepro, sambuco e altri) e li aveva catalogati in otto categorie: antiscrofolosi, anticancerosi, antiangioitici, febbrifughi, pettorali, antilinfatici, vermifughi, antivenerei. Nel vademecum distribuito insieme alle sue medicine spiegava: «Il corpo vive di sangue e di linfa; che sono i soli agenti che, mescolati in differenti maniere, danno forme diverse a tutto l’essere fisico dell’uomo. Se la linfa è viziata produce una malattia linfatica. Se è viziato il sangue genera una malattia angioitica [così chiamava le patologie ematiche, NdA]. Nelle grandi infermità è viziato il sangue e la linfa a un tempo…»
Ma alla cura “interna”, quella dei granuli, Mattei ne abbinava una “esterna”, costituita da “fluidi elettrici” somministrati tramite bagni e impacchi, che avevano la funzione di amplificarne l’effetto. Sulla base delle teorie del barone Karl Reichenbach (1788-1869), Mattei attribuiva la guarigione al ripristino dell’equilibrio elettrico del corpo. Questi “liquidi elettrici”, distribuiti in boccettine, erano distinti in misteriose elettricità rosse (++), azzurre (+), bianche (neutre), gialle (-) e verdi (--).
Mattei, come detto, distribuiva i suoi granuli con un vademecum che ne spiegava per filo e per segno la posologia: agli indigenti forniva cure gratis. Tuttavia, a chi gli scriveva per chiedere come preparare i rimedi, rispondeva: «Prima di dichiarare quali sieno [...] io pretendo che siano messi in galera quegli scienziati, pei quali venti anni di fatti portentosi non costituiscono scienza». E poi: «Io riempio il mondo di prodigi; ecco la mia risposta a tutti!»
Gli scritti di Mattei traboccano di livore verso i medici che non riconoscevano la bontà delle sue cure; questi, dal canto loro, guardavano con scetticismo all’elettromeopatia, sia per l’alone di segretezza, sia perché la somministrazione di elettricità tramite semplici liquidi sembrava assurda, sia perché i suoi risultati non erano accertati da nessuno, se non dalle lettere entusiaste di cui il conte infarciva i suoi libretti (e che, suggerivano i maligni, erano frutto di un’accurata selezione).
Eppure, l’elettromeopatia ebbe successo. Nel 1881 i depositi riconosciuti e autorizzati, oltre quello principale di Bologna, erano 26. Nel 1884 arrivarono a 107, tra cui alcuni negli Stati Uniti, in Belgio e in Cina. Nel 1886-1887 l’ascesa della “cura Mattei” subì una prima battuta d’arresto: il nipote Luigi, a cui era stata affidata l’amministrazione dell’azienda, si lanciò in speculazioni finanziarie che portarono a pesanti debiti e a un’ipoteca sul castello. Il conte diseredò il nipote e affidò la gestione a Mario Venturoli (1858-1937), che finì addirittura per adottare nel 1888. Sotto la sua guida, l’elettromeopatia prosperò. La salute mentale del conte invece andava via via peggiorando, fino alla comparsa di deliri di persecuzione. Nel 1895 cacciò di casa Venturoli e lo diseredò, convinto che la moglie di questi volesse avvelenarlo per carpirgli i segreti dell’elettromeopatia. Morì l’anno seguente, a 87 anni. Dopo la sua scomparsa, Venturoli impugnò il testamento e riuscì a recuperare gran parte dell’eredità, castello incluso.
La produzione dei rimedi cessò nel 1968, e Rocchetta Mattei passò di proprietario in proprietario. Ora, restaurata, è un castello-museo dedicato alla storia del suo ideatore. Quanto ai “segreti” dell’elettromeopatia, ormai è difficile ricostruirli. Dopo la morte del conte un suo collaboratore e traduttore dei vademecum, Theodor Krauss (1864-1924), si convinse di aver intuito il metodo di preparazione dei rimedi e cominciò a produrli in maniera indipendente. Un altro discepolo di Mattei, il gesuita Augustus Müller (1841-1910), iniziò a fabbricarne mentre era missionario in India per dar sollievo ai malati di lebbra. Le ipotesi su cosa fossero davvero i “fluidi elettrici” sono diverse: c’è chi pensa fosse semplice acqua piovana, che il conte supponeva elettrizzata dai fulmini; chi acqua pompata dal torrente Limentra, grazie a uno dei primi mulini elettrici fatto installare dal conte; chi ricorda invece che sulla Torre della Visione erano installati quattro lunghi pennoni metallici, messi lì - nelle illusioni di Mattei - per incanalare qualche forma di energia e trasmetterla ai preparati.
Nel 2008, un’analisi chimica sui campioni di granuli non ha mostrato la presenza di alcun principio attivo: in ossequio ai principi dell’omeopatia, non contenevano nulla.
Mattei era nato a Bologna da una famiglia benestante: il nonno e il padre avevano fatto fortuna grazie a un negozio in città e a oculati investimenti terrieri. Dopo gli studi classici, provò a intraprendere la carriera politica e nel 1837 fu tra i fondatori della Cassa di Risparmio di Bologna. Diventò conte grazie a una donazione. Alla morte del padre, avvenuta quando Cesare aveva appena 18 anni, lui e il fratello avevano ereditato il canale di Magnavacca, nei pressi di Comacchio. Ma la zona del Ferrarese, dopo la Restaurazione dei sovrani pre-napoleonici, era sotto il dominio austriaco, e così i due decisero di disfarsene donando il terreno allo Stato pontificio. Per ringraziarli, nel 1847, papa Pio IX concesse il titolo di conti ai fratelli Mattei e ai loro discendenti.
Appena sette anni prima, però, si era compiuta la tragedia destinata a cambiare la vita di Cesare: la morte della madre, dopo un lungo calvario, a causa di un tumore al seno. Dal lutto, Mattei ricavò una profonda sfiducia per la medicina e il desiderio di ottenere una cura efficace per tutte le malattie. Tra il 1840 e il 1849 studiò, viaggiò e approfondì i principi dell’omeopatia sviluppata a inizio Ottocento da Samuel Hahnemann. Nel 1848 abbandonò la politica, dimettendosi dagli incarichi ottenuti (era deputato per il collegio di Budrio). Preferì dedicare la vita alla “nuova scienza” che aveva iniziato a sviluppare - l’elettromeopatia - e alla costruzione di un edificio dove produrre i suoi preparati: Rocchetta Mattei, una specie di castello nel territorio di Grizzana, nel Bolognese. La prima pietra fu posta il 5 novembre 1850 e il conte andò ad abitarvi dal 1859, anche se continuò a rimaneggiare l’edificio fino alla morte.
Visitare la Rocchetta oggi è un’esperienza straniante. Edificata sulle rovine dell’antica rocca di Savignano, è una costruzione eclettica, con sale in stile medievale e altre alla moda moresca, in cui si alternano iscrizioni in latino, statue di ippogrifi, stemmi e vetrate, secondo una logica difficile da intuire. Vi trovarono posto lo studio-ambulatorio del conte, una cappella che riproduceva la moschea di Cordova e la “sala della visione”: quella in cui Cesare Mattei aveva avuto un sogno premonitore del futuro glorioso della sua “nuova scienza”. Enigmatiche iscrizioni in latino presentano l’elettromeopatia come il frutto di un’illuminazione divina, a beneficio dell’intera umanità.
In cosa consisteva questa “nuova scienza”? Dirlo oggi non è facile: Mattei mantenne sempre il segreto sulla modalità di fabbricazione dei suoi preparati. L’efficacia, a suo dire, si basava su una presunta “elettricità vegetale”, unita ai principi dell’omeopatia (la teoria dei simili e le diluizioni). La malattia era interpretata come un disordine dell’organismo, che i granuli riequilibravano. Su questa base, Mattei aveva individuato diversi rimedi (inizialmente 24), tutti di origine erboristica (salvia, pino, ginepro, sambuco e altri) e li aveva catalogati in otto categorie: antiscrofolosi, anticancerosi, antiangioitici, febbrifughi, pettorali, antilinfatici, vermifughi, antivenerei. Nel vademecum distribuito insieme alle sue medicine spiegava: «Il corpo vive di sangue e di linfa; che sono i soli agenti che, mescolati in differenti maniere, danno forme diverse a tutto l’essere fisico dell’uomo. Se la linfa è viziata produce una malattia linfatica. Se è viziato il sangue genera una malattia angioitica [così chiamava le patologie ematiche, NdA]. Nelle grandi infermità è viziato il sangue e la linfa a un tempo…»
Ma alla cura “interna”, quella dei granuli, Mattei ne abbinava una “esterna”, costituita da “fluidi elettrici” somministrati tramite bagni e impacchi, che avevano la funzione di amplificarne l’effetto. Sulla base delle teorie del barone Karl Reichenbach (1788-1869), Mattei attribuiva la guarigione al ripristino dell’equilibrio elettrico del corpo. Questi “liquidi elettrici”, distribuiti in boccettine, erano distinti in misteriose elettricità rosse (++), azzurre (+), bianche (neutre), gialle (-) e verdi (--).
Mattei, come detto, distribuiva i suoi granuli con un vademecum che ne spiegava per filo e per segno la posologia: agli indigenti forniva cure gratis. Tuttavia, a chi gli scriveva per chiedere come preparare i rimedi, rispondeva: «Prima di dichiarare quali sieno [...] io pretendo che siano messi in galera quegli scienziati, pei quali venti anni di fatti portentosi non costituiscono scienza». E poi: «Io riempio il mondo di prodigi; ecco la mia risposta a tutti!»
Gli scritti di Mattei traboccano di livore verso i medici che non riconoscevano la bontà delle sue cure; questi, dal canto loro, guardavano con scetticismo all’elettromeopatia, sia per l’alone di segretezza, sia perché la somministrazione di elettricità tramite semplici liquidi sembrava assurda, sia perché i suoi risultati non erano accertati da nessuno, se non dalle lettere entusiaste di cui il conte infarciva i suoi libretti (e che, suggerivano i maligni, erano frutto di un’accurata selezione).
Eppure, l’elettromeopatia ebbe successo. Nel 1881 i depositi riconosciuti e autorizzati, oltre quello principale di Bologna, erano 26. Nel 1884 arrivarono a 107, tra cui alcuni negli Stati Uniti, in Belgio e in Cina. Nel 1886-1887 l’ascesa della “cura Mattei” subì una prima battuta d’arresto: il nipote Luigi, a cui era stata affidata l’amministrazione dell’azienda, si lanciò in speculazioni finanziarie che portarono a pesanti debiti e a un’ipoteca sul castello. Il conte diseredò il nipote e affidò la gestione a Mario Venturoli (1858-1937), che finì addirittura per adottare nel 1888. Sotto la sua guida, l’elettromeopatia prosperò. La salute mentale del conte invece andava via via peggiorando, fino alla comparsa di deliri di persecuzione. Nel 1895 cacciò di casa Venturoli e lo diseredò, convinto che la moglie di questi volesse avvelenarlo per carpirgli i segreti dell’elettromeopatia. Morì l’anno seguente, a 87 anni. Dopo la sua scomparsa, Venturoli impugnò il testamento e riuscì a recuperare gran parte dell’eredità, castello incluso.
La produzione dei rimedi cessò nel 1968, e Rocchetta Mattei passò di proprietario in proprietario. Ora, restaurata, è un castello-museo dedicato alla storia del suo ideatore. Quanto ai “segreti” dell’elettromeopatia, ormai è difficile ricostruirli. Dopo la morte del conte un suo collaboratore e traduttore dei vademecum, Theodor Krauss (1864-1924), si convinse di aver intuito il metodo di preparazione dei rimedi e cominciò a produrli in maniera indipendente. Un altro discepolo di Mattei, il gesuita Augustus Müller (1841-1910), iniziò a fabbricarne mentre era missionario in India per dar sollievo ai malati di lebbra. Le ipotesi su cosa fossero davvero i “fluidi elettrici” sono diverse: c’è chi pensa fosse semplice acqua piovana, che il conte supponeva elettrizzata dai fulmini; chi acqua pompata dal torrente Limentra, grazie a uno dei primi mulini elettrici fatto installare dal conte; chi ricorda invece che sulla Torre della Visione erano installati quattro lunghi pennoni metallici, messi lì - nelle illusioni di Mattei - per incanalare qualche forma di energia e trasmetterla ai preparati.
Nel 2008, un’analisi chimica sui campioni di granuli non ha mostrato la presenza di alcun principio attivo: in ossequio ai principi dell’omeopatia, non contenevano nulla.