Paul Bloom è Professore di Psicologia e Scienze Cognitive all’Università di Yale in Connecticut. Ha pubblicato vari libri tra cui Buoni si nasce, La scienza del piacere e Il bambino di Cartesio, per citare alcuni titoli in italiano; l’ultimo è The Sweet Spot, non ancora tradotto da noi. Con lui parleremo in particolare del suo libro Contro l’empatia in Italia edito da Liberilibri.
Paul, ti dici “Contro l’empatia”, ma essere contro l’empatia è un po’ come essere contro i cuccioli. Hai forse qualcosa contro i cuccioli?
No, non sono contrario ai cuccioli! Inizio il mio libro dicendo che il mio è un punto di vista controcorrente. Cerco di limitarmi a una o due posizioni controverse, ma sono decisamente a favore dei cuccioli.
All’inizio della tua carriera non ti occupavi di empatia, ma del linguaggio e della vita sociale dei bambini. Cosa puoi dirci sulla moralità infantile, la materia che ti ha fatto conoscere al grande pubblico?
Mi interesso di molte cose, ma uno degli argomenti a lungo ricorrenti nel mio lavoro è la psicologia morale, ovvero la scienza che studia le nostre credenze relative a bene e male, giusto e sbagliato. Una delle mie linee di ricerca si è concentrata sulla psicologia dei bambini piccoli e sulla loro capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Ho collaborato con J. Kiley Hamlin e Karen Wynn esaminando cosa sanno i bambini, e abbiamo fatto alcune scoperte interessanti. Abbiamo visto che anche i bambini sanno che aiutare una persona è bene e nuocerle è male, e preferiscono i buoni ai cattivi. Nel mio libro Buoni si nasce sostengo che un rudimentale senso del bene e del male sia innato. Sottolineo rudimentale perché invece molta dell’immoralità esistente, come i mali della schiavitù, del sessismo e del razzismo, è un prodotto culturale. Ma una certa capacità morale è parte della nostra natura, così come penso accada con il linguaggio.
E come sei arrivato dalla vita morale dei bambini all’empatia? C’è un collegamento fra le due cose?
Ero molto interessato alla questione psicologica di come giudichiamo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e da dove vengono le nostre intuizioni morali. Da lì, mi ha colpito sempre più l’interrogativo su quanto siano affidabili le nostre intuizioni morali, le sensazioni “di pancia”. Sentiamo compassione per una persona, empatia per un’altra, oppure rabbia, odio, vergogna, colpa: ma quanto sono affidabili come indicazioni morali? Ho cominciato a confrontarmi con queste domande e sono finito a concentrarmi sull’empatia, che la maggior parte della gente ritiene una cosa buona. Se avessi potuto sostenere il contrario, forse le persone avrebbero preso sul serio l’idea che le nostre emozioni morali non sono così affidabili come crediamo, e che dovremmo pensare alla moralità in modo diverso.
Nel libro parli di empatia: puoi darne una definizione, anche in relazione ad altri concetti come la compassione o la simpatia? Usiamo i termini indifferentemente, ma forse non sono intercambiabili.
L’unica parte spiacevole nella stesura del mio libro è stata iniziare nella maniera più noiosa possibile definendo i termini che uso, che però è un passaggio importante. Alcuni pensano che “empatia” significhi semplicemente “gentilezza”, “amore” o “compassione”, cose che vanno benissimo, ma non sono ciò che intendo. Un altro senso in cui si intende l’empatia è sapere cosa passa nella testa di un’altra persona, vedere il mondo come lo vede l’altro; non sono contrario neanche a quello, credo che sia uno strumento importante nella vita e che possa essere usato con fini buoni o cattivi. Il senso di “empatia” che qui mi interessa, e nei confronti del quale sono critico, è quello di mettersi nei panni di un’altra persona e provare ciò che prova. Per come la vedo io, è un elemento essenziale nella vita, che può dare piacere e creare relazioni fra le persone, ma è un pessimo modo di prendere decisioni morali.
Nell’etimologia stessa della parola è presente il concetto di provare le emozioni di un’altra persona: en-páthos. È questo il tipo di empatia al quale sei contrario?
No, non intendo questo. Una delle gioie di avere bambini, ad esempio, è vedere il mondo con i loro occhi: provare di nuovo come ci si sente la prima volta che si mangia un gelato, o che si guardano i fuochi d’artificio. E in molte occasioni, dallo sport al sesso all’amore, provare ciò che prova l’altra persona può essere meraviglioso. Ciò a cui sono contrario è l’uso di quel sentimento come guida per distinguere il giusto dallo sbagliato, o per decidere chi aiutare e chi no. Sono contrario all’empatia come guida morale, insomma, e il titolo del mio libro è una versione abbreviata di questo concetto.
Anche alcuni dei tuoi critici menzionano i bambini, però, proprio per dire che quando ti mostri contrario all’empatia manchi il bersaglio: sostengono infatti che l’empatia è un’emozione, e che quando un bambino piange impaurito, ad esempio, per empatizzare con lui non c’è bisogno di provare la sua paura. Hai forse trascurato l’idea che l’empatia sia un’emozione?
Non metto in dubbio che l’empatia sia un’emozione e che sia naturale, ma non ho mai capito perché questo dovrebbe significare che sia per forza qualcosa di bello. Anche la violenza sessuale o l’odio sono naturali! Non per questo sono buoni (o almeno, se pensiamo che per certi versi lo siano, avranno una loro funzione). Nell’esempio del bambino è importante fare una distinzione. Certo che dobbiamo curarci delle persone: se un bambino soffre e posso aiutarlo è giusto che lo faccia; il punto, però, è che mettermi nei suoi panni e provare ciò che prova non è un efficace sistema per farlo. L’empatia è spaventosamente di parte. Molto probabilmente proverò empatia per mio figlio, o per un interlocutore che ha il mio stesso aspetto e come me è un professore, perché mi ci posso immedesimare; ma come la mettiamo con qualcuno che ha un aspetto diverso dal mio, un colore della pelle diverso, una lingua diversa? Sia il buon senso, sia parecchi studi scientifici mostrano che l’empatia si spegne. È quindi un sentimento molto di parte che porta a decisioni faziose e, secondo me, anche immorali.
Quindi l’empatia è dannosa per la nostra capacità di giudizio, ma nella nostra società la usiamo lo stesso. Prendiamo ad esempio l’empatia usata come strumento commerciale nella pubblicità: è questo uno degli aspetti di cui sei critico, lo sfruttamento degli aspetti “facili” dell’empatia per indurre le persone a fare qualcosa?
Tutti pensano che la propria parte politica o la propria prospettiva siano empatiche, mentre quelle degli avversari no. In realtà l’empatia viene impiegata da persone di tutti i tipi, a volte per fini virtuosi, altre in modi orrendi. Spesso viene usata per sfruttare le persone: ti faccio provare empatia affinché tu compri il mio prodotto, anche se il mio prodotto non ti fa bene. Cosa ancora più grave, viene spesso usata come sprone alla guerra e al genocidio. Ogni movimento contro un gruppo di persone, come gli immigrati o le minoranze, funziona così, che si prendano esempi dall’Europa, dagli USA o altrove. Nella storia degli Stati Uniti troviamo parecchi precedenti: si punta l’attenzione sulla sofferenza di questi o quelli, sulla storia di una donna violentata, su un padre a cui hanno ucciso il figlio, e così facendo si attiva l’empatia delle persone, per poi incitarle a farla pagare ai responsabili. Pensiamo che i nostri nemici non abbiano empatia, ma non è così: ce l’hanno anche loro, solo indirizzata altrove.
È anche vero che molte persone intelligenti, famose e potenti ritengono che l’empatia sia un’ottima cosa. Per esempio, Facebook qualche anno fa ha introdotto nuove icone per esprimere empatia; Zuckerberg ha sostenuto che l’empatia è la strada per una maggiore comprensione della pace, e persino Obama ha affermato che l’empatia è il cuore del suo codice morale. Si sbagliano?
Dirò due cose in loro difesa. La prima è che in qualche caso hanno ragione: se scrivi su Facebook che ti è successa una cosa tremenda, e io ti dico che mi dispiace per te e so come ti senti, vero o meno che sia non è sbagliato provare empatia per un amico. In secondo luogo, le persone attribuiscono un significato diverso all’empatia, usandola come sinonimo di comprensione e bontà.
Tra l’altro è interessante notare come Barack Obama nelle sue politiche non fosse molto empatico; spesso doveva prendere decisioni dure per il bene futuro come dire di no, togliere fondi e rinegoziare cose. Un bravo leader deve voler migliorare il mondo, ma senza essere il tipo di leader che, quando qualcuno chiede disperatamente aiuto, promette subito di usare tutti i fondi a disposizione per venire in soccorso. Non è così che si fanno le politiche di lungo periodo, non è compassione, non è neanche il comportamento che dovremmo adottare coi nostri figli.
Ne parlo proprio nel mio libro: i miei momenti peggiori come genitore non sono mai stati quando non mi importava dei miei figli (mi è sempre importato di loro), ma piuttosto quando la prendevo troppo a cuore e non riuscivo a essere più duro, per esempio dicendo loro di fare i compiti, perché lì per lì mi lasciavo coinvolgere troppo dalle loro emozioni. Insomma, la risposta breve è che spesso le persone quando parlano di empatia intendono comprensione e gentilezza, e a quelle non sono contrario; se invece vogliono davvero dire empatia, direi che dovrebbero ripensarci.
Infatti inviti le persone a riconsiderare l’empatia, così come da te definita, e sostieni che essa può anche condurre alla violenza. Tuttavia, lo Zeitgeist è che nella maggior parte dei casi la violenza sia dovuta proprio alla mancanza di empatia. Puoi spiegare il motivo di questa differenza di pensiero?
Grazie per averne parlato, hai proprio ragione: lo Zeitgeist è questo. Proprio adesso è in corso un altro conflitto in Medio Oriente. Se chiedi a un israeliano come sono i palestinesi, ti dirà che non sentono le sofferenze altrui, che Hamas non ha alcuna empatia; se chiedi la stessa cosa a un palestinese o a un membro di Hamas, risponderà che i mostri senza empatia sono gli israeliani. Non ha ragione nessuno dei due. La maggior parte delle volte i nostri nemici e le persone che riteniamo orribili in realtà non sono né mostri, né psicopatici senza sentimenti: hanno empatia e provano sentimenti profondi, solo che li rivolgono nei confronti di persone diverse da quelle con cui empatizziamo noi. Per esempio, non è vero che i suprematisti bianchi degli Stati Uniti non provino niente, anzi hanno una fortissima empatia verso le loro famiglie, i loro amici e le persone che ritengono vulnerabili. Se non lo capiamo, se non ci rendiamo conto che i nostri avversari non sono mostri, allora non capiamo il mondo. Il fatto che anche le persone malvagie provano empatia, aggiungo, significa che non dovremmo parlare troppo sbrigativamente del grande potere dell’empatia.
Quindi dici che anche un membro del Ku Klux Klan o un terrorista spietato di fatto prova empatia?
Secondo me, se sottoponessimo un membro del KKK a test psicologici emergerebbe che è capace dello stesso calore, ricchezza di sentimenti e capacità di mettersi nei panni altrui quanto lo siamo tu ed io. Il fatto è che un membro del Ku Klux Klan ha profondamente a cuore le persone bianche e prova fortissima empatia per loro. L’empatia funziona così, non ci rende più cosmopoliti o più equi, casomai il contrario; basandoci su di essa tendiamo a chiuderci su un gruppo di persone, su chi è simile a noi. Anzi, se ci importa delle persone con un aspetto diverso dal nostro, che hanno un’opinione diversa dalla nostra o che addirittura ci odiano, quella non è empatia ma qualcos’altro. Il sottotitolo dell’edizione in inglese del mio libro parla di “compassione razionale”, che è una specie di alternativa all’empatia: abbiamo a cuore il nostro prossimo, da cui la compassione, e usiamo la nostra razionalità come guida per prendere decisioni a riguardo.
È interessante che tu dica così, perché nell’edizione italiana del tuo libro il punto sulla compassione razionale è stato tradotto come “Una difesa della razionalità”, perdendo la sfumatura che intendevi comunicare. Che cosa sono quindi l’altruismo efficace e la compassione razionale di cui parli nel sottotitolo?
L’altruismo efficace è un movimento basato sulla compassione razionale e del quale ho un’opinione molto favorevole. La compassione razionale si compone di due elementi, uno dei quali compare nel sottotitolo italiano del libro: e cioè che se vuoi fare del bene dovresti prima capire quali azioni apporterebbero un beneficio maggiore. Forse suona come un’ovvietà: se dono dei soldi a un ente benefico, è ovvio che mi importa che quell’ente renda il mondo migliore. Eppure, è sorprendente vedere come le persone spesso diano un sacco di soldi agli enti benefici senza preoccuparsi dell’effettiva utilità della cosa, solo perché questo le fa sentire meglio. L’altruismo efficiente invece dice di smetterla con questo comportamento e di andare a vedere piuttosto quali cause fanno maggiormente del bene: ecco la razionalità. Tuttavia, sarebbe giusto notare, come disse anche David Hume, che la razionalità da sola non è sufficiente; per quale motivo una persona completamente razionale dovrebbe compiere buone azioni? Perciò occorre anche che ci importi delle cose, e questa è la compassione.
Nel tuo libro insisti su questo punto e sostieni in proposito che le neuroscienze possono essere utili a distinguere un sentimento dall’altro; forse puoi riportare un esempio dei risultati in tal senso. Non pensi però che la localizzazione nel cervello sia un concetto un po’ debole e semplicistico quando si ha a che fare con il comportamento umano?
Certo, e tu da neuroscienziato lo sai meglio di me, ma nel libro ho provato a fare un po’ di distinzioni che mi sembrano importanti. Avrei potuto scriverlo senza mai usare la parola “empatia” e dire invece che esistono modi diversi di agire: uno è cercare di provare le stesse emozioni che provano gli altri e fare di questo la propria guida; un altro è preoccuparsi delle persone e ragionare su quale sia la decisione migliore da prendere. Un critico avrebbe potuto contestare questa distinzione dicendo che le due cose sono uguali; perciò, ho dedicato parte del libro a cercare di separarle.
In un capitolo tratto molto brevemente i dati che ci vengono dalle neuroscienze. Si è scoperto che quando le persone sottoposte a una scansione cerebrale (risonanza magnetica funzionale, NdE) provano empatia si attiva una parte del cervello, mentre quando provano compassione si attiva una parte diversa. Fai bene a chiederti quanto possiamo affidarci a questi risultati, in effetti sono parecchio approssimativi. Tuttavia, penso che ci siano prove molto migliori a supporto. Ad esempio, esistono persone che ottengono un punteggio molto alto in empatia e cercano proprio di immedesimarsi negli altri, e altre che ottengono un punteggio molto alto in compassione, cioè hanno veramente a cuore gli altri. Viene fuori che le persone a cui interessa davvero fanno maggiormente del bene, il che suggerisce una distinzione fra i due atteggiamenti. Concordo comunque nel dire che non bisogna trattare le neuroscienze con troppa superficialità; ritengo che molti psicologi abbiano troppa fretta nell’usare i dati delle neuroscienze in maniera irresponsabile.
Direi di soffermarci qui e aggiungere qualcosa al discorso sulle neuroscienze. Conosci il produttivo filone di ricerca sui neuroni specchio, scoperti in Italia dal team coordinato da Giacomo Rizzolatti: cellule del cervello che si attivano non solo quando una persona esegue un’azione, ma anche quando osserva un altro eseguire la stessa azione. Fra gli altri, il neuroscienziato e divulgatore Ramachandran ha affermato che questo processo è alla base dell’empatia. Sei d’accordo?
Sono al corrente di questa affermazione. C’è anche chi si spinge oltre sostenendo che i neuroni specchio siano alla base di tutto, un po’ come la scoperta del DNA. Non per mancare di rispetto a Rizzolatti, ma conosco molti altri neuroscienziati che sono molto più scettici in proposito; c’è persino una controversia sul fatto che il cervello umano contenga neuroni specchio nello stesso senso degli altri animali. Ma ammettiamo pure che i neuroni specchio siano il modo in cui funziona l’empatia, per me non fa differenza e non dubito che l’empatia esista, comunque funzioni. Rimane il problema se sia o no una buona cosa nel momento in cui prendiamo decisioni morali. Se si tratta di neuroni specchio, allora si attiveranno di più per qualcuno che ci assomiglia, a cui vogliamo bene.
Sono stati condotti studi di neuroscienze, uno dei quali in Italia, che avevano come partecipanti degli uomini tifosi di calcio a cui veniva mostrata una persona che soffriva. Quando la persona era descritta come un tifoso della stessa squadra del soggetto, si otteneva una risposta neurale empatica, cioè il soggetto provava il dolore dell’altro; per contro, quando l’altro era descritto come tifoso di una squadra avversaria l’empatia spariva, rimpiazzata dal piacere per la sofferenza altrui. Questo esperimento illustra bene la natura campanilista del fenomeno.
Sì, conosco quello studio: da un punto di vista scientifico ero davvero entusiasta dei dati raccolti, ma poi pensandoci bene mi sono detto che se un tifoso juventino provasse un po’ di dolore, non sarei troppo sconvolto! Se dunque gli umani per via dell’empatia non sono ben equipaggiati per prendere decisioni, potrebbe andare meglio ad altri esseri come le intelligenze artificiali? Prendiamo ad esempio la protagonista dell’ultimo libro di Ishiguro, Klara (una ginoide), un personaggio meraviglioso che non sa molto: sarebbe più brava degli umani nel processo decisionale, visto che è priva di empatia?
Penso di sì. Ovviamente non voglio essere troppo superficiale nel dirlo, dato che c’è molto del nostro processo decisionale morale su cui probabilmente facciamo affidamento ma che non comprendiamo, e che quindi non saremmo in grado di programmare in una macchina; propendo comunque per il sì perché mi posso immaginare un computer o un robot che prenda decisioni morali senza essere parziale come lo siamo noi. Mi limiterò a un esempio che mi sembra piuttosto evidente. Non sorprenderà sapere che ci sono molti modi in cui le persone possono manifestare i propri pregiudizi razziali, o sessisti, o basati sull’aspetto fisico (ci sono molte prove che mostrano come ci importi di più delle persone che consideriamo attraenti, rispetto a chi troviamo brutto), anche quando non vogliono averne. Potremmo quindi costruire un computer o un robot privo di tali pregiudizi. Sto leggendo il libro di Daniel Kahneman, Cass Sunstein e Olivier Sibony intitolato Rumore, nel quale si dice che i giudici di fronte allo stesso procedimento penale comminano pene estremamente variabili, oltre a essere condizionati da fattori di ogni sorta: dalla razza dell’imputato alla recente vittoria della squadra locale di football. Possiamo immaginare di programmare le macchine per fare meglio di così; è bello pensare a come potremmo creare macchine morali che siano migliori di noi.
Negli esempi che hai fornito durante questa conversazione si vede che tieni molto ai diritti umani e ai sentimenti. Ciononostante, forse ti sorprenderà sapere che dopo la pubblicazione italiana del tuo libro alcuni commentatori, specie sui giornali di destra, hanno interpretato le tue opinioni come una sorta di manifesto per la politica di destra, affermando ad esempio che non dovremmo essere tolleranti nei confronti degli immigrati perché bisogna essere contrari all’empatia. È questo che sostieni?
No, sono davvero sorpreso di sentirlo. Non voglio accusare nessuno di disonestà, mi limito a presumere che non abbiano letto il libro. L’immigrazione, al contrario, è proprio uno di quei casi in cui tanto odio e tanti sentimenti anti-immigrati sono mossi dall’empatia verso chi è più vicino a noi. Chiedi a qualcuno per quale motivo non gli importi degli immigrati e li voglia cacciare dal paese, e ti risponderà che lo fa perché tiene molto alla propria famiglia e alle persone che ama, mentre non vuole provare empatia per quegli altri. Da una prospettiva di compassione, invece, la domanda da farsi è se lasciare entrare queste persone e trattarle benevolmente renda il mondo migliore o peggiore. Ora, in tutta onestà il mio libro non è nemmeno di sinistra, e penso che le persone di qualsiasi parte politica farebbero meglio a liberarsi dall’empatia; ma dire che è un libro di destra è proprio sbagliato. Vorrei averlo saputo allora, avrei scritto una replica.
Continui a distinguere la moralità e altri tipi di sentimenti, sia razionali che non, dall’empatia in quanto tale. Un’altra questione che volevo toccare è che la moralità cambia nel tempo, a seconda del periodo storico: abbiamo una morale diversa rispetto a venti o cent’anni fa. L’empatia invece rimane sempre la stessa. È un altro modo per separare le due cose?
Penso di sì. Il progresso morale nel corso della storia è un argomento che mi interessa molto. Alcuni, come Peter Singer e Steven Pinker, sostengono che col passare del tempo siamo diventati più morali. In un certo senso credo che abbiano ragione, se consideriamo i diritti riconosciuti alle donne, alle minoranze sessuali o a quelle razziali; centinaia di anni fa la gente pensava che la schiavitù andasse bene, ora sono in pochi a pensarla così. Secondo me ciò mostra che non si tratta solo di sensazioni istintive come l’empatia, la gratitudine, l’odio, perché quelle ci sono sempre; no, c’è qualcos’altro. Per certi versi, e qui voglio essere cauto, potremmo fare un’analogia tra il progresso morale e il progresso scientifico o intellettuale: sono questioni anche queste su cui riflettiamo attentamente, traiamo conclusioni, vediamo che talvolta certe tradizioni fanno più male che bene. Quindi penso che sia così, il progresso morale e in generale la moralità sono segno che non siamo vincolati dalle nostre emozioni.
Torniamo ai personaggi di finzione. Molte delle persone che ci seguono sono fan di Star Trek; nella serie originale c’è un episodio, “The Empath” (“Il diritto di sopravvivere” N.d.T.), in cui una donna muta sente il dolore altrui, al punto da potersene fare carico e liberare così gli altri. A noi spettatori dispiace per l’Empatica e pensiamo che il suo personaggio sia uno dei buoni. È così?
Credo che sia una brava persona, di certo ha buone intenzioni, ma come dici tu è vulnerabile. Da quando ho scritto il libro, ho ricevuto e-mail da empatici in carne e ossa, come una dottoressa che lavorava in medicina d’urgenza che ha dovuto lasciare il suo lavoro perché sentiva troppo la sofferenza delle persone con cui lavorava. Conosco operatori di pronto intervento che tengono molto a quello che fanno, ma ne rimangono troppo turbati perché la loro empatia si mette in mezzo.
Altre persone mi dicono di avere un basso livello di empatia, ma di preoccuparsi lo stesso degli altri e di voler aiutare il prossimo; per esempio possono aiutare la famiglia di un bambino che soffre di una malattia terminale, perché anche se tengono a loro non provano l’angoscia dei genitori e non ne restano turbati. Per tornare a Star Trek, penso che dovremmo essere un po’ più come Spock e Data. Sia Spock che Data sono personaggi compassionevoli, gentili e buoni, ma non si fanno coinvolgere troppo dai sentimenti e mantengono perciò l’obiettività necessaria.
Penso che Spock sia un buon esempio del tuo approccio alla compassione razionale. Volevo tornare sulla politica, dato che nelle tue idee è importante. Un famoso personaggio storico quale fu Karl Marx disse che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Se abbiamo intenzioni buone ma irrazionali, siamo avviati a non fare il bene?
È una domanda profonda. Prendiamo la beneficenza: molte persone danno denaro a enti di beneficenza, quantità enormi di denaro. Però salta fuori che o è uno spreco, oppure che il motivo dietro la donazione è strano; per dire, io adesso sono all’università di Yale che avrà miliardi di dollari, e conosco persone che danno enormi somme a Yale invece di aiutare, che so, i bambini affamati nel mondo. Credo comunque che la maggior parte della gente voglia rendere il mondo un posto migliore, non limitarsi a vivere da egoista. Le buone intenzioni da sole non bastano, però, se non ci si impegna a vedere se il risultato delle nostre azioni aiuterà davvero il mondo; anzi possono essere peggio che inutili. Senza le buone intenzioni non si farebbe nulla, ma non sono sufficienti.
Vero, ricordo la storia di quelle persone che, mosse da buone intenzioni, donarono migliaia di scarpe ai bambini dei paesi sub-sahariani. Il risultato fu di rovinare intere famiglie perché i calzolai non potevano più lavorare, le persone che raccoglievano i materiali neppure, e così via; quindi le buone intenzioni portarono a un pessimo risultato.
Diversi economisti hanno scritto in merito agli aiuti ai paesi meno fortunati: più e più volte, quando questi aiuti erano semplicemente guidati dalle buone intenzioni, hanno finito col peggiorare le cose, proprio come nell’esempio che hai citato in cui furono distrutte le attività locali.
Sarebbe meglio allora seguire il consiglio di Atticus Finch, il personaggio de Il Buio Oltre la Siepe di Harper Lee, secondo cui dovremmo trattare le persone esattamente come vorremmo essere trattati noi? Sarebbe un quadro di riferimento migliore, piuttosto che agire per sentirci bene?
Il consiglio di Atticus Finch è magnifico, avrei voluto saperlo quando ho scritto il libro. Dovremmo renderci conto che ciò che ci fa sentire bene non è per forza buono, e che i nostri sentimenti possono essere fuorvianti. Ad esempio, spesso le persone donano a più enti di beneficenza, un po’ a questo un po’ a quello, ricavandone ogni volta una piccola dose di piacere; oppure trovano che sia bello donare ai propri vicini, anche se sono benestanti, perché i vicini possono ringraziarli. Dovremmo capire che le nostre sensazioni istintive su queste cose sono spesso sbagliate.
Tornando al tuo discorso sull’ingroup, non ne siamo influenzati anche noi che amiamo la scienza? Proveremmo più empatia o saremmo meglio disposti nei confronti di persone come noi piuttosto che nei confronti di chi esita sui vaccini, per esempio?
Sì, penso che qui si vadano a toccare altri temi, ma ogni gruppo corre il rischio dell’arroganza. Persone di scienza, intellettuali progressisti come noi non fanno affatto eccezione. Spesso proviamo un enorme disprezzo verso i sostenitori di Trump, per fare un esempio dal mio punto di vista, o verso le persone che non vogliono essere vaccinate, o verso chi nega l’evoluzione, e rinunciamo a comprenderle; è un’empatia in un altro senso. Questo disprezzo ci fa sentire bene, ci piace trovarci insieme e ridere di chi non è intelligente come noi, ma penso che sia un’abitudine in cui non si dovrebbe indulgere; dovremmo cercare di vedere il buono nelle persone.
In conclusione, il messaggio da portare a casa è dunque che “dispiacersi per” è una funzione razionale, mentre “dispiacersi con” rende vulnerabili all’irrazionalità?
Direi che, per essere brave persone e rendere il mondo un posto migliore, dovremmo avere a cuore gli altri, dispiacerci per loro e interessarci a loro anche se non ci assomigliano; passare meno tempo a domandarci cosa si provi nei loro panni, e più tempo a chiederci cosa possiamo fare per migliorare il mondo. Questo ci porterà in direzioni sorprendentemente diverse. Credo che siano persone come gli altruisti efficaci che hai menzionato prima a rendere il mondo un posto migliore. Spesso anch’io non ne sono all’altezza, ma ammiro molto coloro che dicono di voler pensare a cosa serva davvero per aiutare gli altri, senza lasciarsi incastrare da ciò che li fa sentire bene o che fa fare loro bella figura. Direi che è un buon punto per concludere.
Paul, ti dici “Contro l’empatia”, ma essere contro l’empatia è un po’ come essere contro i cuccioli. Hai forse qualcosa contro i cuccioli?
No, non sono contrario ai cuccioli! Inizio il mio libro dicendo che il mio è un punto di vista controcorrente. Cerco di limitarmi a una o due posizioni controverse, ma sono decisamente a favore dei cuccioli.
All’inizio della tua carriera non ti occupavi di empatia, ma del linguaggio e della vita sociale dei bambini. Cosa puoi dirci sulla moralità infantile, la materia che ti ha fatto conoscere al grande pubblico?
Mi interesso di molte cose, ma uno degli argomenti a lungo ricorrenti nel mio lavoro è la psicologia morale, ovvero la scienza che studia le nostre credenze relative a bene e male, giusto e sbagliato. Una delle mie linee di ricerca si è concentrata sulla psicologia dei bambini piccoli e sulla loro capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Ho collaborato con J. Kiley Hamlin e Karen Wynn esaminando cosa sanno i bambini, e abbiamo fatto alcune scoperte interessanti. Abbiamo visto che anche i bambini sanno che aiutare una persona è bene e nuocerle è male, e preferiscono i buoni ai cattivi. Nel mio libro Buoni si nasce sostengo che un rudimentale senso del bene e del male sia innato. Sottolineo rudimentale perché invece molta dell’immoralità esistente, come i mali della schiavitù, del sessismo e del razzismo, è un prodotto culturale. Ma una certa capacità morale è parte della nostra natura, così come penso accada con il linguaggio.
E come sei arrivato dalla vita morale dei bambini all’empatia? C’è un collegamento fra le due cose?
Ero molto interessato alla questione psicologica di come giudichiamo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e da dove vengono le nostre intuizioni morali. Da lì, mi ha colpito sempre più l’interrogativo su quanto siano affidabili le nostre intuizioni morali, le sensazioni “di pancia”. Sentiamo compassione per una persona, empatia per un’altra, oppure rabbia, odio, vergogna, colpa: ma quanto sono affidabili come indicazioni morali? Ho cominciato a confrontarmi con queste domande e sono finito a concentrarmi sull’empatia, che la maggior parte della gente ritiene una cosa buona. Se avessi potuto sostenere il contrario, forse le persone avrebbero preso sul serio l’idea che le nostre emozioni morali non sono così affidabili come crediamo, e che dovremmo pensare alla moralità in modo diverso.
Nel libro parli di empatia: puoi darne una definizione, anche in relazione ad altri concetti come la compassione o la simpatia? Usiamo i termini indifferentemente, ma forse non sono intercambiabili.
L’unica parte spiacevole nella stesura del mio libro è stata iniziare nella maniera più noiosa possibile definendo i termini che uso, che però è un passaggio importante. Alcuni pensano che “empatia” significhi semplicemente “gentilezza”, “amore” o “compassione”, cose che vanno benissimo, ma non sono ciò che intendo. Un altro senso in cui si intende l’empatia è sapere cosa passa nella testa di un’altra persona, vedere il mondo come lo vede l’altro; non sono contrario neanche a quello, credo che sia uno strumento importante nella vita e che possa essere usato con fini buoni o cattivi. Il senso di “empatia” che qui mi interessa, e nei confronti del quale sono critico, è quello di mettersi nei panni di un’altra persona e provare ciò che prova. Per come la vedo io, è un elemento essenziale nella vita, che può dare piacere e creare relazioni fra le persone, ma è un pessimo modo di prendere decisioni morali.
Nell’etimologia stessa della parola è presente il concetto di provare le emozioni di un’altra persona: en-páthos. È questo il tipo di empatia al quale sei contrario?
No, non intendo questo. Una delle gioie di avere bambini, ad esempio, è vedere il mondo con i loro occhi: provare di nuovo come ci si sente la prima volta che si mangia un gelato, o che si guardano i fuochi d’artificio. E in molte occasioni, dallo sport al sesso all’amore, provare ciò che prova l’altra persona può essere meraviglioso. Ciò a cui sono contrario è l’uso di quel sentimento come guida per distinguere il giusto dallo sbagliato, o per decidere chi aiutare e chi no. Sono contrario all’empatia come guida morale, insomma, e il titolo del mio libro è una versione abbreviata di questo concetto.
Anche alcuni dei tuoi critici menzionano i bambini, però, proprio per dire che quando ti mostri contrario all’empatia manchi il bersaglio: sostengono infatti che l’empatia è un’emozione, e che quando un bambino piange impaurito, ad esempio, per empatizzare con lui non c’è bisogno di provare la sua paura. Hai forse trascurato l’idea che l’empatia sia un’emozione?
Non metto in dubbio che l’empatia sia un’emozione e che sia naturale, ma non ho mai capito perché questo dovrebbe significare che sia per forza qualcosa di bello. Anche la violenza sessuale o l’odio sono naturali! Non per questo sono buoni (o almeno, se pensiamo che per certi versi lo siano, avranno una loro funzione). Nell’esempio del bambino è importante fare una distinzione. Certo che dobbiamo curarci delle persone: se un bambino soffre e posso aiutarlo è giusto che lo faccia; il punto, però, è che mettermi nei suoi panni e provare ciò che prova non è un efficace sistema per farlo. L’empatia è spaventosamente di parte. Molto probabilmente proverò empatia per mio figlio, o per un interlocutore che ha il mio stesso aspetto e come me è un professore, perché mi ci posso immedesimare; ma come la mettiamo con qualcuno che ha un aspetto diverso dal mio, un colore della pelle diverso, una lingua diversa? Sia il buon senso, sia parecchi studi scientifici mostrano che l’empatia si spegne. È quindi un sentimento molto di parte che porta a decisioni faziose e, secondo me, anche immorali.
Quindi l’empatia è dannosa per la nostra capacità di giudizio, ma nella nostra società la usiamo lo stesso. Prendiamo ad esempio l’empatia usata come strumento commerciale nella pubblicità: è questo uno degli aspetti di cui sei critico, lo sfruttamento degli aspetti “facili” dell’empatia per indurre le persone a fare qualcosa?
Tutti pensano che la propria parte politica o la propria prospettiva siano empatiche, mentre quelle degli avversari no. In realtà l’empatia viene impiegata da persone di tutti i tipi, a volte per fini virtuosi, altre in modi orrendi. Spesso viene usata per sfruttare le persone: ti faccio provare empatia affinché tu compri il mio prodotto, anche se il mio prodotto non ti fa bene. Cosa ancora più grave, viene spesso usata come sprone alla guerra e al genocidio. Ogni movimento contro un gruppo di persone, come gli immigrati o le minoranze, funziona così, che si prendano esempi dall’Europa, dagli USA o altrove. Nella storia degli Stati Uniti troviamo parecchi precedenti: si punta l’attenzione sulla sofferenza di questi o quelli, sulla storia di una donna violentata, su un padre a cui hanno ucciso il figlio, e così facendo si attiva l’empatia delle persone, per poi incitarle a farla pagare ai responsabili. Pensiamo che i nostri nemici non abbiano empatia, ma non è così: ce l’hanno anche loro, solo indirizzata altrove.
È anche vero che molte persone intelligenti, famose e potenti ritengono che l’empatia sia un’ottima cosa. Per esempio, Facebook qualche anno fa ha introdotto nuove icone per esprimere empatia; Zuckerberg ha sostenuto che l’empatia è la strada per una maggiore comprensione della pace, e persino Obama ha affermato che l’empatia è il cuore del suo codice morale. Si sbagliano?
Dirò due cose in loro difesa. La prima è che in qualche caso hanno ragione: se scrivi su Facebook che ti è successa una cosa tremenda, e io ti dico che mi dispiace per te e so come ti senti, vero o meno che sia non è sbagliato provare empatia per un amico. In secondo luogo, le persone attribuiscono un significato diverso all’empatia, usandola come sinonimo di comprensione e bontà.
Tra l’altro è interessante notare come Barack Obama nelle sue politiche non fosse molto empatico; spesso doveva prendere decisioni dure per il bene futuro come dire di no, togliere fondi e rinegoziare cose. Un bravo leader deve voler migliorare il mondo, ma senza essere il tipo di leader che, quando qualcuno chiede disperatamente aiuto, promette subito di usare tutti i fondi a disposizione per venire in soccorso. Non è così che si fanno le politiche di lungo periodo, non è compassione, non è neanche il comportamento che dovremmo adottare coi nostri figli.
Ne parlo proprio nel mio libro: i miei momenti peggiori come genitore non sono mai stati quando non mi importava dei miei figli (mi è sempre importato di loro), ma piuttosto quando la prendevo troppo a cuore e non riuscivo a essere più duro, per esempio dicendo loro di fare i compiti, perché lì per lì mi lasciavo coinvolgere troppo dalle loro emozioni. Insomma, la risposta breve è che spesso le persone quando parlano di empatia intendono comprensione e gentilezza, e a quelle non sono contrario; se invece vogliono davvero dire empatia, direi che dovrebbero ripensarci.
Infatti inviti le persone a riconsiderare l’empatia, così come da te definita, e sostieni che essa può anche condurre alla violenza. Tuttavia, lo Zeitgeist è che nella maggior parte dei casi la violenza sia dovuta proprio alla mancanza di empatia. Puoi spiegare il motivo di questa differenza di pensiero?
Grazie per averne parlato, hai proprio ragione: lo Zeitgeist è questo. Proprio adesso è in corso un altro conflitto in Medio Oriente. Se chiedi a un israeliano come sono i palestinesi, ti dirà che non sentono le sofferenze altrui, che Hamas non ha alcuna empatia; se chiedi la stessa cosa a un palestinese o a un membro di Hamas, risponderà che i mostri senza empatia sono gli israeliani. Non ha ragione nessuno dei due. La maggior parte delle volte i nostri nemici e le persone che riteniamo orribili in realtà non sono né mostri, né psicopatici senza sentimenti: hanno empatia e provano sentimenti profondi, solo che li rivolgono nei confronti di persone diverse da quelle con cui empatizziamo noi. Per esempio, non è vero che i suprematisti bianchi degli Stati Uniti non provino niente, anzi hanno una fortissima empatia verso le loro famiglie, i loro amici e le persone che ritengono vulnerabili. Se non lo capiamo, se non ci rendiamo conto che i nostri avversari non sono mostri, allora non capiamo il mondo. Il fatto che anche le persone malvagie provano empatia, aggiungo, significa che non dovremmo parlare troppo sbrigativamente del grande potere dell’empatia.
Quindi dici che anche un membro del Ku Klux Klan o un terrorista spietato di fatto prova empatia?
Secondo me, se sottoponessimo un membro del KKK a test psicologici emergerebbe che è capace dello stesso calore, ricchezza di sentimenti e capacità di mettersi nei panni altrui quanto lo siamo tu ed io. Il fatto è che un membro del Ku Klux Klan ha profondamente a cuore le persone bianche e prova fortissima empatia per loro. L’empatia funziona così, non ci rende più cosmopoliti o più equi, casomai il contrario; basandoci su di essa tendiamo a chiuderci su un gruppo di persone, su chi è simile a noi. Anzi, se ci importa delle persone con un aspetto diverso dal nostro, che hanno un’opinione diversa dalla nostra o che addirittura ci odiano, quella non è empatia ma qualcos’altro. Il sottotitolo dell’edizione in inglese del mio libro parla di “compassione razionale”, che è una specie di alternativa all’empatia: abbiamo a cuore il nostro prossimo, da cui la compassione, e usiamo la nostra razionalità come guida per prendere decisioni a riguardo.
È interessante che tu dica così, perché nell’edizione italiana del tuo libro il punto sulla compassione razionale è stato tradotto come “Una difesa della razionalità”, perdendo la sfumatura che intendevi comunicare. Che cosa sono quindi l’altruismo efficace e la compassione razionale di cui parli nel sottotitolo?
L’altruismo efficace è un movimento basato sulla compassione razionale e del quale ho un’opinione molto favorevole. La compassione razionale si compone di due elementi, uno dei quali compare nel sottotitolo italiano del libro: e cioè che se vuoi fare del bene dovresti prima capire quali azioni apporterebbero un beneficio maggiore. Forse suona come un’ovvietà: se dono dei soldi a un ente benefico, è ovvio che mi importa che quell’ente renda il mondo migliore. Eppure, è sorprendente vedere come le persone spesso diano un sacco di soldi agli enti benefici senza preoccuparsi dell’effettiva utilità della cosa, solo perché questo le fa sentire meglio. L’altruismo efficiente invece dice di smetterla con questo comportamento e di andare a vedere piuttosto quali cause fanno maggiormente del bene: ecco la razionalità. Tuttavia, sarebbe giusto notare, come disse anche David Hume, che la razionalità da sola non è sufficiente; per quale motivo una persona completamente razionale dovrebbe compiere buone azioni? Perciò occorre anche che ci importi delle cose, e questa è la compassione.
Nel tuo libro insisti su questo punto e sostieni in proposito che le neuroscienze possono essere utili a distinguere un sentimento dall’altro; forse puoi riportare un esempio dei risultati in tal senso. Non pensi però che la localizzazione nel cervello sia un concetto un po’ debole e semplicistico quando si ha a che fare con il comportamento umano?
Certo, e tu da neuroscienziato lo sai meglio di me, ma nel libro ho provato a fare un po’ di distinzioni che mi sembrano importanti. Avrei potuto scriverlo senza mai usare la parola “empatia” e dire invece che esistono modi diversi di agire: uno è cercare di provare le stesse emozioni che provano gli altri e fare di questo la propria guida; un altro è preoccuparsi delle persone e ragionare su quale sia la decisione migliore da prendere. Un critico avrebbe potuto contestare questa distinzione dicendo che le due cose sono uguali; perciò, ho dedicato parte del libro a cercare di separarle.
In un capitolo tratto molto brevemente i dati che ci vengono dalle neuroscienze. Si è scoperto che quando le persone sottoposte a una scansione cerebrale (risonanza magnetica funzionale, NdE) provano empatia si attiva una parte del cervello, mentre quando provano compassione si attiva una parte diversa. Fai bene a chiederti quanto possiamo affidarci a questi risultati, in effetti sono parecchio approssimativi. Tuttavia, penso che ci siano prove molto migliori a supporto. Ad esempio, esistono persone che ottengono un punteggio molto alto in empatia e cercano proprio di immedesimarsi negli altri, e altre che ottengono un punteggio molto alto in compassione, cioè hanno veramente a cuore gli altri. Viene fuori che le persone a cui interessa davvero fanno maggiormente del bene, il che suggerisce una distinzione fra i due atteggiamenti. Concordo comunque nel dire che non bisogna trattare le neuroscienze con troppa superficialità; ritengo che molti psicologi abbiano troppa fretta nell’usare i dati delle neuroscienze in maniera irresponsabile.
Direi di soffermarci qui e aggiungere qualcosa al discorso sulle neuroscienze. Conosci il produttivo filone di ricerca sui neuroni specchio, scoperti in Italia dal team coordinato da Giacomo Rizzolatti: cellule del cervello che si attivano non solo quando una persona esegue un’azione, ma anche quando osserva un altro eseguire la stessa azione. Fra gli altri, il neuroscienziato e divulgatore Ramachandran ha affermato che questo processo è alla base dell’empatia. Sei d’accordo?
Sono al corrente di questa affermazione. C’è anche chi si spinge oltre sostenendo che i neuroni specchio siano alla base di tutto, un po’ come la scoperta del DNA. Non per mancare di rispetto a Rizzolatti, ma conosco molti altri neuroscienziati che sono molto più scettici in proposito; c’è persino una controversia sul fatto che il cervello umano contenga neuroni specchio nello stesso senso degli altri animali. Ma ammettiamo pure che i neuroni specchio siano il modo in cui funziona l’empatia, per me non fa differenza e non dubito che l’empatia esista, comunque funzioni. Rimane il problema se sia o no una buona cosa nel momento in cui prendiamo decisioni morali. Se si tratta di neuroni specchio, allora si attiveranno di più per qualcuno che ci assomiglia, a cui vogliamo bene.
Sono stati condotti studi di neuroscienze, uno dei quali in Italia, che avevano come partecipanti degli uomini tifosi di calcio a cui veniva mostrata una persona che soffriva. Quando la persona era descritta come un tifoso della stessa squadra del soggetto, si otteneva una risposta neurale empatica, cioè il soggetto provava il dolore dell’altro; per contro, quando l’altro era descritto come tifoso di una squadra avversaria l’empatia spariva, rimpiazzata dal piacere per la sofferenza altrui. Questo esperimento illustra bene la natura campanilista del fenomeno.
Sì, conosco quello studio: da un punto di vista scientifico ero davvero entusiasta dei dati raccolti, ma poi pensandoci bene mi sono detto che se un tifoso juventino provasse un po’ di dolore, non sarei troppo sconvolto! Se dunque gli umani per via dell’empatia non sono ben equipaggiati per prendere decisioni, potrebbe andare meglio ad altri esseri come le intelligenze artificiali? Prendiamo ad esempio la protagonista dell’ultimo libro di Ishiguro, Klara (una ginoide), un personaggio meraviglioso che non sa molto: sarebbe più brava degli umani nel processo decisionale, visto che è priva di empatia?
Penso di sì. Ovviamente non voglio essere troppo superficiale nel dirlo, dato che c’è molto del nostro processo decisionale morale su cui probabilmente facciamo affidamento ma che non comprendiamo, e che quindi non saremmo in grado di programmare in una macchina; propendo comunque per il sì perché mi posso immaginare un computer o un robot che prenda decisioni morali senza essere parziale come lo siamo noi. Mi limiterò a un esempio che mi sembra piuttosto evidente. Non sorprenderà sapere che ci sono molti modi in cui le persone possono manifestare i propri pregiudizi razziali, o sessisti, o basati sull’aspetto fisico (ci sono molte prove che mostrano come ci importi di più delle persone che consideriamo attraenti, rispetto a chi troviamo brutto), anche quando non vogliono averne. Potremmo quindi costruire un computer o un robot privo di tali pregiudizi. Sto leggendo il libro di Daniel Kahneman, Cass Sunstein e Olivier Sibony intitolato Rumore, nel quale si dice che i giudici di fronte allo stesso procedimento penale comminano pene estremamente variabili, oltre a essere condizionati da fattori di ogni sorta: dalla razza dell’imputato alla recente vittoria della squadra locale di football. Possiamo immaginare di programmare le macchine per fare meglio di così; è bello pensare a come potremmo creare macchine morali che siano migliori di noi.
Negli esempi che hai fornito durante questa conversazione si vede che tieni molto ai diritti umani e ai sentimenti. Ciononostante, forse ti sorprenderà sapere che dopo la pubblicazione italiana del tuo libro alcuni commentatori, specie sui giornali di destra, hanno interpretato le tue opinioni come una sorta di manifesto per la politica di destra, affermando ad esempio che non dovremmo essere tolleranti nei confronti degli immigrati perché bisogna essere contrari all’empatia. È questo che sostieni?
No, sono davvero sorpreso di sentirlo. Non voglio accusare nessuno di disonestà, mi limito a presumere che non abbiano letto il libro. L’immigrazione, al contrario, è proprio uno di quei casi in cui tanto odio e tanti sentimenti anti-immigrati sono mossi dall’empatia verso chi è più vicino a noi. Chiedi a qualcuno per quale motivo non gli importi degli immigrati e li voglia cacciare dal paese, e ti risponderà che lo fa perché tiene molto alla propria famiglia e alle persone che ama, mentre non vuole provare empatia per quegli altri. Da una prospettiva di compassione, invece, la domanda da farsi è se lasciare entrare queste persone e trattarle benevolmente renda il mondo migliore o peggiore. Ora, in tutta onestà il mio libro non è nemmeno di sinistra, e penso che le persone di qualsiasi parte politica farebbero meglio a liberarsi dall’empatia; ma dire che è un libro di destra è proprio sbagliato. Vorrei averlo saputo allora, avrei scritto una replica.
Continui a distinguere la moralità e altri tipi di sentimenti, sia razionali che non, dall’empatia in quanto tale. Un’altra questione che volevo toccare è che la moralità cambia nel tempo, a seconda del periodo storico: abbiamo una morale diversa rispetto a venti o cent’anni fa. L’empatia invece rimane sempre la stessa. È un altro modo per separare le due cose?
Penso di sì. Il progresso morale nel corso della storia è un argomento che mi interessa molto. Alcuni, come Peter Singer e Steven Pinker, sostengono che col passare del tempo siamo diventati più morali. In un certo senso credo che abbiano ragione, se consideriamo i diritti riconosciuti alle donne, alle minoranze sessuali o a quelle razziali; centinaia di anni fa la gente pensava che la schiavitù andasse bene, ora sono in pochi a pensarla così. Secondo me ciò mostra che non si tratta solo di sensazioni istintive come l’empatia, la gratitudine, l’odio, perché quelle ci sono sempre; no, c’è qualcos’altro. Per certi versi, e qui voglio essere cauto, potremmo fare un’analogia tra il progresso morale e il progresso scientifico o intellettuale: sono questioni anche queste su cui riflettiamo attentamente, traiamo conclusioni, vediamo che talvolta certe tradizioni fanno più male che bene. Quindi penso che sia così, il progresso morale e in generale la moralità sono segno che non siamo vincolati dalle nostre emozioni.
Torniamo ai personaggi di finzione. Molte delle persone che ci seguono sono fan di Star Trek; nella serie originale c’è un episodio, “The Empath” (“Il diritto di sopravvivere” N.d.T.), in cui una donna muta sente il dolore altrui, al punto da potersene fare carico e liberare così gli altri. A noi spettatori dispiace per l’Empatica e pensiamo che il suo personaggio sia uno dei buoni. È così?
Credo che sia una brava persona, di certo ha buone intenzioni, ma come dici tu è vulnerabile. Da quando ho scritto il libro, ho ricevuto e-mail da empatici in carne e ossa, come una dottoressa che lavorava in medicina d’urgenza che ha dovuto lasciare il suo lavoro perché sentiva troppo la sofferenza delle persone con cui lavorava. Conosco operatori di pronto intervento che tengono molto a quello che fanno, ma ne rimangono troppo turbati perché la loro empatia si mette in mezzo.
Altre persone mi dicono di avere un basso livello di empatia, ma di preoccuparsi lo stesso degli altri e di voler aiutare il prossimo; per esempio possono aiutare la famiglia di un bambino che soffre di una malattia terminale, perché anche se tengono a loro non provano l’angoscia dei genitori e non ne restano turbati. Per tornare a Star Trek, penso che dovremmo essere un po’ più come Spock e Data. Sia Spock che Data sono personaggi compassionevoli, gentili e buoni, ma non si fanno coinvolgere troppo dai sentimenti e mantengono perciò l’obiettività necessaria.
Penso che Spock sia un buon esempio del tuo approccio alla compassione razionale. Volevo tornare sulla politica, dato che nelle tue idee è importante. Un famoso personaggio storico quale fu Karl Marx disse che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Se abbiamo intenzioni buone ma irrazionali, siamo avviati a non fare il bene?
È una domanda profonda. Prendiamo la beneficenza: molte persone danno denaro a enti di beneficenza, quantità enormi di denaro. Però salta fuori che o è uno spreco, oppure che il motivo dietro la donazione è strano; per dire, io adesso sono all’università di Yale che avrà miliardi di dollari, e conosco persone che danno enormi somme a Yale invece di aiutare, che so, i bambini affamati nel mondo. Credo comunque che la maggior parte della gente voglia rendere il mondo un posto migliore, non limitarsi a vivere da egoista. Le buone intenzioni da sole non bastano, però, se non ci si impegna a vedere se il risultato delle nostre azioni aiuterà davvero il mondo; anzi possono essere peggio che inutili. Senza le buone intenzioni non si farebbe nulla, ma non sono sufficienti.
Vero, ricordo la storia di quelle persone che, mosse da buone intenzioni, donarono migliaia di scarpe ai bambini dei paesi sub-sahariani. Il risultato fu di rovinare intere famiglie perché i calzolai non potevano più lavorare, le persone che raccoglievano i materiali neppure, e così via; quindi le buone intenzioni portarono a un pessimo risultato.
Diversi economisti hanno scritto in merito agli aiuti ai paesi meno fortunati: più e più volte, quando questi aiuti erano semplicemente guidati dalle buone intenzioni, hanno finito col peggiorare le cose, proprio come nell’esempio che hai citato in cui furono distrutte le attività locali.
Sarebbe meglio allora seguire il consiglio di Atticus Finch, il personaggio de Il Buio Oltre la Siepe di Harper Lee, secondo cui dovremmo trattare le persone esattamente come vorremmo essere trattati noi? Sarebbe un quadro di riferimento migliore, piuttosto che agire per sentirci bene?
Il consiglio di Atticus Finch è magnifico, avrei voluto saperlo quando ho scritto il libro. Dovremmo renderci conto che ciò che ci fa sentire bene non è per forza buono, e che i nostri sentimenti possono essere fuorvianti. Ad esempio, spesso le persone donano a più enti di beneficenza, un po’ a questo un po’ a quello, ricavandone ogni volta una piccola dose di piacere; oppure trovano che sia bello donare ai propri vicini, anche se sono benestanti, perché i vicini possono ringraziarli. Dovremmo capire che le nostre sensazioni istintive su queste cose sono spesso sbagliate.
Tornando al tuo discorso sull’ingroup, non ne siamo influenzati anche noi che amiamo la scienza? Proveremmo più empatia o saremmo meglio disposti nei confronti di persone come noi piuttosto che nei confronti di chi esita sui vaccini, per esempio?
Sì, penso che qui si vadano a toccare altri temi, ma ogni gruppo corre il rischio dell’arroganza. Persone di scienza, intellettuali progressisti come noi non fanno affatto eccezione. Spesso proviamo un enorme disprezzo verso i sostenitori di Trump, per fare un esempio dal mio punto di vista, o verso le persone che non vogliono essere vaccinate, o verso chi nega l’evoluzione, e rinunciamo a comprenderle; è un’empatia in un altro senso. Questo disprezzo ci fa sentire bene, ci piace trovarci insieme e ridere di chi non è intelligente come noi, ma penso che sia un’abitudine in cui non si dovrebbe indulgere; dovremmo cercare di vedere il buono nelle persone.
In conclusione, il messaggio da portare a casa è dunque che “dispiacersi per” è una funzione razionale, mentre “dispiacersi con” rende vulnerabili all’irrazionalità?
Direi che, per essere brave persone e rendere il mondo un posto migliore, dovremmo avere a cuore gli altri, dispiacerci per loro e interessarci a loro anche se non ci assomigliano; passare meno tempo a domandarci cosa si provi nei loro panni, e più tempo a chiederci cosa possiamo fare per migliorare il mondo. Questo ci porterà in direzioni sorprendentemente diverse. Credo che siano persone come gli altruisti efficaci che hai menzionato prima a rendere il mondo un posto migliore. Spesso anch’io non ne sono all’altezza, ma ammiro molto coloro che dicono di voler pensare a cosa serva davvero per aiutare gli altri, senza lasciarsi incastrare da ciò che li fa sentire bene o che fa fare loro bella figura. Direi che è un buon punto per concludere.