Nello scorso numero di questa rubrica abbiamo affrontato un problema di rilievo per la promozione del pensiero critico. Storicamente le associazioni come il CICAP perseguono l’obiettivo di migliorare quella che in letteratura è chiamata “intelligenza scientifica”. Essa comprende le capacità di ragionamento critico che permettono di trarre conclusioni valide dalle prove e quelle di elaborazione cognitiva che permettono di capire quando un problema richiede di applicare tale ragionamento, nonché la motivazione necessaria per svolgere questo faticoso compito (Stanovich 2011). Tuttavia, come abbiamo visto nell’articolo precedente, se le conoscenze scientifiche entrano in conflitto con la nostra identità culturale, per esempio nei casi del riscaldamento globale e dell’evoluzionismo, una adeguata intelligenza scientifica non basta a ricomporre le divisioni nell'opinione pubblica, anzi può essere addirittura controproducente. Allora come si possono affrontare questi conflitti?
Il problema è complesso e ancora lontano dall’essere risolto, ma ci sono due filoni di ricerca, pur molto diversi tra loro, che possono darci qualche indicazione utile.
Il primo riguarda la didattica dell’evoluzione, uno dei temi scientifici più difficili da comunicare a un pubblico diviso ideologicamente, come abbiamo visto nello scorso numero.
Ricerche empiriche mostrano che i bravi insegnanti possono far capire con successo la teoria moderna dell’evoluzione a studenti di vari orientamenti, compresi quelli fortemente religiosi, a condizione che l’obiettivo della lezione non sia spingere a credere nell’evoluzionismo. Bisogna invece mostrare come gli scienziati confrontano ipotesi alternative, quali conseguenze si attendono da ogni ipotesi e quali prove cercano per arrivare a una conclusione, in modo da stimolare negli studenti lo stesso modo di ragionare. È anche interessante notare che gli studenti che credono alla teoria dell’evoluzione e quelli che non ci credono sono altrettanto soggetti a credenze errate sull’evoluzionismo. Un insegnamento incentrato sui processi della conoscenza scientifica anziché sulle sue conclusioni è più adatto a correggere i pregiudizi ingenui sulla teoria dell’evoluzione per entrambe le categorie. (Bishop & Anderson 1990; Demastes, Settlage & Good 1995; Lawson & Worsnop 2006).
Sebbene non siano ancora disponibili studi analoghi relativi al cambiamento climatico, è plausibile che sia opportuno seguire anche in questo caso un approccio simile: non cercare di convincere gli studenti a credere ai danni del riscaldamento globale, ma illustrare i processi che la scienza segue per arrivare alle sue conclusioni.
In sintesi, l’obiettivo degli insegnanti e delle associazioni educative come il CICAP dovrebbe essere quello di aiutare gli studenti e il pubblico non tanto a credere alle teorie scientifiche, quanto a capire meglio come si sviluppano. Per raggiungere questo obiettivo è necessario spiegare chiaramente come sono stati ottenuti i risultati scientifici, mettere in evidenza le prove sperimentali e non trascurare la dimensione storica della scienza tra conquiste, errori e false partenze. E, soprattutto, tenere separati i metodi e i dati scientifici, che sono oggettivi e andrebbero condivisi da tutti, dai valori, che sono soggettivi e possono variare, nel pubblico come tra gli scienziati. Gli scienziati e i comunicatori non dovrebbero arrogarsi il diritto di decidere al posto del pubblico quando una decisione politica sia “buona” o “competente” e quindi dovrebbero evitare di argomentare a favore di una determinata scelta, ma lavorare invece per far sì che le conoscenze scientifiche relative a quella decisione vengano prese in considerazione quando si deve prendere una decisione politica.
Sembra ragionevole, ma è molto difficile da mettere in pratica. Siamo esseri umani e facciamo molta fatica a tenere separata la nostra visione del mondo dalle conoscenze che dobbiamo diffondere. Faccio due esempi di orientamento diverso per mostrare che il problema non riguarda una sola parte politica.
I procedimenti seguiti dall’agricoltura biodinamica sono lontani da quelli della ricerca scientifica. I comunicatori della scienza che la criticano, però, di solito non si limitano a illustrare questa differenza, ma arrivano spesso a chiedere ai sostenitori dell’agricoltura biodinamica di abbandonare un ambientalismo ingenuo e fondamentalista e di riconoscere che l’agricoltura industriale è l’unica strada per garantire il futuro del pianeta.
Dall’altra parte, i comunicatori della scienza che si occupano di riscaldamento globale spesso non si accontentano di spiegare come funziona la complessa scienza del clima, ma affermano che l’unica via di uscita è cambiare modello di sviluppo e si scontrano con chi fa resistenza a questa soluzione e magari propone in alternativa la ricerca di una soluzione tecnologica.
In entrambi i casi si confonde il piano delle affermazioni scientifiche empiricamente dimostrate con quello della visione del mondo, che non è altrettanto oggettivo, e si chiede all’interlocutore di rinunciare alla propria identità e di abbracciarne una in aperto conflitto con essa. È una pretesa irrealistica, perché l’identità culturale si costruisce nel corso di tutta la vita e non si cambia semplicemente sulla base di qualche studio scientifico: non lo fanno nemmeno coloro che lo pretenderebbero dagli altri.
Naturalmente non sto negando il diritto di impegnarsi a favore di una causa che si ritiene giusta e importante, ma sostengo che se si mescolano la comunicazione della scienza con l’attivismo a favore di una particolare visione politica (o anche solo di una particolare scelta politica riguardante un caso specifico) si confondono impropriamente piani differenti, che hanno un ben diverso fondamento empirico, e per di più, come indicano le ricerche citate, si compromette l’efficacia della comunicazione stessa.
Può essere più opportuno un approccio che rispetti le diverse identità culturali. Un esempio virtuoso è rappresentato dalla regione della Florida sudorientale, che nel 2011 ha avviato un piano di azione sul clima, approvato in maniera bipartisan da politici democratici, repubblicani e del Tea Party. Esso comprende iniziative per mitigare gli effetti del cambiamento climatico sulla regione (molto esposta ai danni dell’innalzamento del livello del mare e degli eventi climatici estremi) e per ridurre il contributo che la regione stessa fornisce al riscaldamento globale nel mondo.
Il piano è stato sviluppato attraverso decine di incontri e forum aperti, non limitati ai politici ma allargati a molti settori della società civile. Comprende 110 azioni concrete per proteggere le infrastrutture dall’aumento del livello del mare, dagli uragani e dalle alluvioni, per salvaguardare le fonti di acqua potabile per uso residenziale e agricolo, per migliorare i trasporti pubblici e per ridurre le emissioni di anidride carbonica legate all’edilizia e ai lavori pubblici. Gli abitanti della Florida sono riusciti a trovare un accordo su un tema che divide aspramente il resto degli Stati Uniti perché hanno impostato la discussione non sulla questione di principio «da che parte stai» ma sulla questione concreta «che cosa sappiamo su questo problema e che cosa possiamo fare per risolverlo» (Kahan 2015).
Un secondo filone di ricerca, che si è sviluppato da pochi anni, ha identificato un indicatore che sembra promettente per affrontare in modo costruttivo le guerre culturali: si tratta della “curiosità scientifica”, definita come la propensione a cercare e consultare informazioni scientifiche per piacere personale (da non confondere con la ricerca di informazioni scientifiche per raggiungere uno scopo specifico, come ottenere buoni voti a scuola).
Concettualmente, la curiosità scientifica ha proprietà opposte a quelle del ragionamento motivato, che nel precedente numero della rubrica abbiamo definito come la tendenza inconscia a selezionare e analizzare le argomentazioni e le informazioni in modo non imparziale, privilegiando quelle che confermano le nostre preferenze e convinzioni e mettendo in secondo piano quelle che le contrastano.
Mentre il ragionamento motivato comporta una riluttanza a esplorare le prove che potrebbero mettere in crisi la propria identità, la curiosità scientifica consiste in un desiderio dell’imprevisto, motivato dal piacere della sorpresa. Ci si aspetta quindi che sia correlata con una maggiore apertura mentale e una minore polarizzazione.
Ed è proprio quello che succede. Dai grafici di sinistra si vede che la percentuale di risposte corrette è direttamente proporzionale all’intelligenza scientifica solo quando il consenso scientifico è coerente con la propria identità culturale, mentre è inversamente proporzionale all’intelligenza scientifica quando c’è conflitto tra conclusioni scientifiche e identità culturale. Dai grafici di destra si vede invece che la percentuale di risposte corrette è sempre direttamente proporzionale alla curiosità scientifica, indipendentemente dalle posizioni politiche. In parole povere l’intelligenza scientifica non ci aiuta a superare i nostri pregiudizi ideologici, la curiosità scientifica sì.
Va inoltre notato che, a differenza dell’intelligenza scientifica, la curiosità scientifica non è praticamente correlata con l’orientamento politico e, forse sorprendentemente, sembra esserlo molto poco con l’intelligenza scientifica stessa, mentre è molto correlata con l’interesse per notizie scientifiche nuove e sorprendenti, anche quando sono in contrasto con le proprie convinzioni (Kahan 2017).
Mi sembra una buona notizia, perché vuol dire che indipendentemente dalle convinzioni politiche e dal livello di conoscenze scientifiche possiamo limitare la partigianeria, se riusciamo a mantenere (o a sviluppare) un buon livello di curiosità scientifica.
Gli studi su questo argomento sono iniziati da poco e dovranno essere consolidati da ulteriori ricerche. Non è ancora possibile dire se e come la comunicazione della scienza possa sfruttare la curiosità scientifica per ridurre la polarizzazione, né a maggior ragione se possa porsi l’obiettivo di aumentare la stessa curiosità scientifica nella popolazione.
E come singoli cittadini c’è qualcosa che possiamo fare per aumentare la nostra apertura mentale e ridurre i settarismi?
Come per ogni altro bias mentale, non bisogna aspettarsi miracoli, perché il ragionamento motivato dipende dall’evoluzione del nostro cervello e non smette di entrare in azione soltanto perché siamo consapevoli della sua esistenza[1]. Non possiamo eliminarlo, ma possiamo ricordarci che esiste e cercare di rimediare almeno in parte alle sue conseguenze.
A questo proposito la fondatrice del Center for Applied Rationality Julia Galef, che gestisce il podcast Rationally Speaking insieme a Massimo Pigliucci, suggerisce di abbandonare la mentalità del soldato per abbracciare quella dell’esploratore. Mentre il soldato è sicuro di avere ragione, è motivato dalla ricerca della vittoria e divide il mondo in alleati e nemici, l’esploratore cerca di capire in modo obiettivo la realtà, accetta la complessità e le sfumature, riconosce i propri limiti e cerca riscontri esterni (Galef 2021).
Possiamo anche cercare di rendere più sana la discussione pubblica, dando la priorità ai valori della curiosità e della capacità di cambiare idea rispetto a quelli della lealtà al proprio gruppo e della coerenza.
Tutto questo non cambierà magicamente il modo in cui funziona il nostro cervello, ma ci aiuterà a compensare qualcuna delle nostre convinzioni più ferree e ad avere un confronto più costruttivo con gli altri.
Il problema è complesso e ancora lontano dall’essere risolto, ma ci sono due filoni di ricerca, pur molto diversi tra loro, che possono darci qualche indicazione utile.
Il primo riguarda la didattica dell’evoluzione, uno dei temi scientifici più difficili da comunicare a un pubblico diviso ideologicamente, come abbiamo visto nello scorso numero.
Ricerche empiriche mostrano che i bravi insegnanti possono far capire con successo la teoria moderna dell’evoluzione a studenti di vari orientamenti, compresi quelli fortemente religiosi, a condizione che l’obiettivo della lezione non sia spingere a credere nell’evoluzionismo. Bisogna invece mostrare come gli scienziati confrontano ipotesi alternative, quali conseguenze si attendono da ogni ipotesi e quali prove cercano per arrivare a una conclusione, in modo da stimolare negli studenti lo stesso modo di ragionare. È anche interessante notare che gli studenti che credono alla teoria dell’evoluzione e quelli che non ci credono sono altrettanto soggetti a credenze errate sull’evoluzionismo. Un insegnamento incentrato sui processi della conoscenza scientifica anziché sulle sue conclusioni è più adatto a correggere i pregiudizi ingenui sulla teoria dell’evoluzione per entrambe le categorie. (Bishop & Anderson 1990; Demastes, Settlage & Good 1995; Lawson & Worsnop 2006).
Sebbene non siano ancora disponibili studi analoghi relativi al cambiamento climatico, è plausibile che sia opportuno seguire anche in questo caso un approccio simile: non cercare di convincere gli studenti a credere ai danni del riscaldamento globale, ma illustrare i processi che la scienza segue per arrivare alle sue conclusioni.
In sintesi, l’obiettivo degli insegnanti e delle associazioni educative come il CICAP dovrebbe essere quello di aiutare gli studenti e il pubblico non tanto a credere alle teorie scientifiche, quanto a capire meglio come si sviluppano. Per raggiungere questo obiettivo è necessario spiegare chiaramente come sono stati ottenuti i risultati scientifici, mettere in evidenza le prove sperimentali e non trascurare la dimensione storica della scienza tra conquiste, errori e false partenze. E, soprattutto, tenere separati i metodi e i dati scientifici, che sono oggettivi e andrebbero condivisi da tutti, dai valori, che sono soggettivi e possono variare, nel pubblico come tra gli scienziati. Gli scienziati e i comunicatori non dovrebbero arrogarsi il diritto di decidere al posto del pubblico quando una decisione politica sia “buona” o “competente” e quindi dovrebbero evitare di argomentare a favore di una determinata scelta, ma lavorare invece per far sì che le conoscenze scientifiche relative a quella decisione vengano prese in considerazione quando si deve prendere una decisione politica.
Sembra ragionevole, ma è molto difficile da mettere in pratica. Siamo esseri umani e facciamo molta fatica a tenere separata la nostra visione del mondo dalle conoscenze che dobbiamo diffondere. Faccio due esempi di orientamento diverso per mostrare che il problema non riguarda una sola parte politica.
I procedimenti seguiti dall’agricoltura biodinamica sono lontani da quelli della ricerca scientifica. I comunicatori della scienza che la criticano, però, di solito non si limitano a illustrare questa differenza, ma arrivano spesso a chiedere ai sostenitori dell’agricoltura biodinamica di abbandonare un ambientalismo ingenuo e fondamentalista e di riconoscere che l’agricoltura industriale è l’unica strada per garantire il futuro del pianeta.
Dall’altra parte, i comunicatori della scienza che si occupano di riscaldamento globale spesso non si accontentano di spiegare come funziona la complessa scienza del clima, ma affermano che l’unica via di uscita è cambiare modello di sviluppo e si scontrano con chi fa resistenza a questa soluzione e magari propone in alternativa la ricerca di una soluzione tecnologica.
In entrambi i casi si confonde il piano delle affermazioni scientifiche empiricamente dimostrate con quello della visione del mondo, che non è altrettanto oggettivo, e si chiede all’interlocutore di rinunciare alla propria identità e di abbracciarne una in aperto conflitto con essa. È una pretesa irrealistica, perché l’identità culturale si costruisce nel corso di tutta la vita e non si cambia semplicemente sulla base di qualche studio scientifico: non lo fanno nemmeno coloro che lo pretenderebbero dagli altri.
Naturalmente non sto negando il diritto di impegnarsi a favore di una causa che si ritiene giusta e importante, ma sostengo che se si mescolano la comunicazione della scienza con l’attivismo a favore di una particolare visione politica (o anche solo di una particolare scelta politica riguardante un caso specifico) si confondono impropriamente piani differenti, che hanno un ben diverso fondamento empirico, e per di più, come indicano le ricerche citate, si compromette l’efficacia della comunicazione stessa.
Può essere più opportuno un approccio che rispetti le diverse identità culturali. Un esempio virtuoso è rappresentato dalla regione della Florida sudorientale, che nel 2011 ha avviato un piano di azione sul clima, approvato in maniera bipartisan da politici democratici, repubblicani e del Tea Party. Esso comprende iniziative per mitigare gli effetti del cambiamento climatico sulla regione (molto esposta ai danni dell’innalzamento del livello del mare e degli eventi climatici estremi) e per ridurre il contributo che la regione stessa fornisce al riscaldamento globale nel mondo.
Il piano è stato sviluppato attraverso decine di incontri e forum aperti, non limitati ai politici ma allargati a molti settori della società civile. Comprende 110 azioni concrete per proteggere le infrastrutture dall’aumento del livello del mare, dagli uragani e dalle alluvioni, per salvaguardare le fonti di acqua potabile per uso residenziale e agricolo, per migliorare i trasporti pubblici e per ridurre le emissioni di anidride carbonica legate all’edilizia e ai lavori pubblici. Gli abitanti della Florida sono riusciti a trovare un accordo su un tema che divide aspramente il resto degli Stati Uniti perché hanno impostato la discussione non sulla questione di principio «da che parte stai» ma sulla questione concreta «che cosa sappiamo su questo problema e che cosa possiamo fare per risolverlo» (Kahan 2015).
Un secondo filone di ricerca, che si è sviluppato da pochi anni, ha identificato un indicatore che sembra promettente per affrontare in modo costruttivo le guerre culturali: si tratta della “curiosità scientifica”, definita come la propensione a cercare e consultare informazioni scientifiche per piacere personale (da non confondere con la ricerca di informazioni scientifiche per raggiungere uno scopo specifico, come ottenere buoni voti a scuola).
Concettualmente, la curiosità scientifica ha proprietà opposte a quelle del ragionamento motivato, che nel precedente numero della rubrica abbiamo definito come la tendenza inconscia a selezionare e analizzare le argomentazioni e le informazioni in modo non imparziale, privilegiando quelle che confermano le nostre preferenze e convinzioni e mettendo in secondo piano quelle che le contrastano.
Mentre il ragionamento motivato comporta una riluttanza a esplorare le prove che potrebbero mettere in crisi la propria identità, la curiosità scientifica consiste in un desiderio dell’imprevisto, motivato dal piacere della sorpresa. Ci si aspetta quindi che sia correlata con una maggiore apertura mentale e una minore polarizzazione.
Ed è proprio quello che succede. Dai grafici di sinistra si vede che la percentuale di risposte corrette è direttamente proporzionale all’intelligenza scientifica solo quando il consenso scientifico è coerente con la propria identità culturale, mentre è inversamente proporzionale all’intelligenza scientifica quando c’è conflitto tra conclusioni scientifiche e identità culturale. Dai grafici di destra si vede invece che la percentuale di risposte corrette è sempre direttamente proporzionale alla curiosità scientifica, indipendentemente dalle posizioni politiche. In parole povere l’intelligenza scientifica non ci aiuta a superare i nostri pregiudizi ideologici, la curiosità scientifica sì.
Va inoltre notato che, a differenza dell’intelligenza scientifica, la curiosità scientifica non è praticamente correlata con l’orientamento politico e, forse sorprendentemente, sembra esserlo molto poco con l’intelligenza scientifica stessa, mentre è molto correlata con l’interesse per notizie scientifiche nuove e sorprendenti, anche quando sono in contrasto con le proprie convinzioni (Kahan 2017).
Mi sembra una buona notizia, perché vuol dire che indipendentemente dalle convinzioni politiche e dal livello di conoscenze scientifiche possiamo limitare la partigianeria, se riusciamo a mantenere (o a sviluppare) un buon livello di curiosità scientifica.
Gli studi su questo argomento sono iniziati da poco e dovranno essere consolidati da ulteriori ricerche. Non è ancora possibile dire se e come la comunicazione della scienza possa sfruttare la curiosità scientifica per ridurre la polarizzazione, né a maggior ragione se possa porsi l’obiettivo di aumentare la stessa curiosità scientifica nella popolazione.
E come singoli cittadini c’è qualcosa che possiamo fare per aumentare la nostra apertura mentale e ridurre i settarismi?
Come per ogni altro bias mentale, non bisogna aspettarsi miracoli, perché il ragionamento motivato dipende dall’evoluzione del nostro cervello e non smette di entrare in azione soltanto perché siamo consapevoli della sua esistenza[1]. Non possiamo eliminarlo, ma possiamo ricordarci che esiste e cercare di rimediare almeno in parte alle sue conseguenze.
A questo proposito la fondatrice del Center for Applied Rationality Julia Galef, che gestisce il podcast Rationally Speaking insieme a Massimo Pigliucci, suggerisce di abbandonare la mentalità del soldato per abbracciare quella dell’esploratore. Mentre il soldato è sicuro di avere ragione, è motivato dalla ricerca della vittoria e divide il mondo in alleati e nemici, l’esploratore cerca di capire in modo obiettivo la realtà, accetta la complessità e le sfumature, riconosce i propri limiti e cerca riscontri esterni (Galef 2021).
Possiamo anche cercare di rendere più sana la discussione pubblica, dando la priorità ai valori della curiosità e della capacità di cambiare idea rispetto a quelli della lealtà al proprio gruppo e della coerenza.
Tutto questo non cambierà magicamente il modo in cui funziona il nostro cervello, ma ci aiuterà a compensare qualcuna delle nostre convinzioni più ferree e ad avere un confronto più costruttivo con gli altri.
Note
1) Cubelli, R. & Della Sala, S. (2019). Bias Cognitivi: la mente obliqua, in Query (39), pp. 6-7
Riferimenti bibliografici
- Bishop, B.A. & Anderson, C.W. 1990. Student conceptions of natural selection and its role in evolution. Journal of Research in Science Teaching 27, 415-427
- Cubelli, R. & Della Sala, S. (2019). Bias Cognitivi: la mente obliqua, in Query (39, pp. 6-7
- Demastes, S.S., Settlage, J. & Good, R., 1995. Students' conceptions of natural selection and its role in evolution: Cases of replication and comparison. Journal of Research in Science Teaching 32, 535-550
- Galef, J., The Scout Mindset: Why Some People See Things Clearly and Others Don't, Portfolio/Penguin, 2021.
- Kahan, D. 2015. Climate-Science Communication and the Measurement Problem. Advances in Political Psychology, 36, 1-43
- Kahan, D., Landrum, A., Carpenter, K., Helft, L., Jamieson, K., 2017. Science Curiosity and Political Information Processing, Political Psychology, 38 S1, 179-199
- Lawson, A.E. & Worsnop, W.A. 2006. Learning about evolution and rejecting a belief in special creation: Effects of reflective reasoning skill, prior knowledge, prior belief and religious commitment. Journal of Research in Science Teaching 29, 143-166.
- Stanovich, K.E. 2011. Rationality and the reflective mind. Oxford University Press, New York