Colpa e innocenza nella realtà processuale

  • In Articoli
  • 13-01-2025
  • di Matthew J. Sharps, Kyle Villarama, Frankie Rios e Jana L. Price-Sharps
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© ivanmollov/iStock
In teoria, il sistema della giustizia penale deve essere imparziale. In teoria, le uniche considerazioni ammissibili all’interno del sistema dovrebbero derivare da una valutazione spassionata dei fatti in base alle prove. Questo approccio spassionato e logico - che deriva per molti versi dalla filosofia illuminista - viene spesso dato per scontato, almeno implicitamente. Tuttavia, il mondo della giustizia penale è pieno di anomalie, molte delle quali hanno radici nella psicologia umana piuttosto che nelle astrazioni della dottrina giuridica.

Molti casi importanti lo dimostrano. Negli Stati Uniti, per esempio, il processo penale del 2004 a Scott Peterson per l’omicidio della moglie incinta ha portato alla condanna dell’uomo benché non vi fosse alcun collegamento fisico diretto tra l’imputato e il crimine. L’omicidio multiplo dei figli di Marcus Wesson nella California centrale, sempre nel 2004, ha fornito collegamenti probatori diretti, ma alcuni collegamenti specifici sono stati trasmessi alla giuria in modo incompleto o impreciso; tuttavia, i giurati hanno condannato Wesson.

Queste anomalie rappresentano un problema perché i procedimenti delle indagini e dei processi penali dovrebbero essere basati, letteralmente, sull’indagine scettica. In linea con i principi più elementari che regolano le attività del Committee for Skeptical Inquiry [e del CICAP, N.d.T.], il contesto giudiziario dovrebbe basarsi solo su logica e prove. Eppure sia Wesson sia Peterson sono stati condannati, a quanto pare con una considerazione minima di quei fattori specifici. Con questo non intendiamo criticare le decisioni delle giurie in quei casi, né affermare che Wesson e Peterson sono stati condannati ingiustamente. Ma dal punto di vista del puro scetticismo scientifico, quelle condanne servono a dimostrare che i procedimenti giudiziari penali non sono necessariamente basati sulla logica e le prove o sulla necessaria e prevista indagine scettica. A livello implicito, naturalmente, questo lo capiamo tutti, ma a un livello più diretto ed esplicito, è chiaro che sono coinvolti altri fattori, e dobbiamo sapere quali sono.

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Influenze nebulose


Comprendere questi fattori è particolarmente importante nei casi in cui, nel corso del processo giudiziario, la colpevolezza e l’innocenza si confondono. Questo accade molto più spesso di quanto ci si possa aspettare. Individui palesemente colpevoli possono essere giudicati non colpevoli a causa di fattori “attenuanti”, che in alcuni casi sono chiaramente legittimi, ma in altri possono non avere alcuna relazione reale con il crimine in questione. Si osserva anche l’effetto opposto: spesso le vittime dei crimini sono considerate almeno parzialmente responsabili (“l’ha provocato lei”, “non avrebbe dovuto trovarsi lì a quell’ora della notte” e così via). È singolare che le vittime siano spesso incolpate, almeno in parte, dei crimini commessi contro di loro. E dato che in questi casi la vittima non ha infranto alcuna legge, mentre è stato il colpevole a farlo, non possiamo cercare la fonte di quelle idee nella legge o nella logica. Quali sono, dunque, le fonti di queste affermazioni, spesso così gravi?

È stato suggerito che la “colpevolizzazione della vittima” sia un’estensione della “ipotesi del mondo giusto”, il concetto secondo cui essenzialmente riceviamo ciò che ci meritiamo, il che implicherebbe la colpevolezza della vittima. Come ha spiegato Lerner[1], questo concetto è funzionalmente e fondamentalmente delirante, l’antitesi del risultato di una corretta indagine scettica. Eppure si applica spesso, con grave danno per le vittime di reati, ed è particolarmente diffuso nelle situazioni di abuso domestico.

Stephen Goldinger e colleghi[2] hanno poi dimostrato l’importanza dell’immaginazione - che è, per definizione, irrilevante rispetto ai fatti - nella valutazione giudiziaria degli abusi domestici e/o sessuali. L’importanza dell’immaginazione è stata dimostrata anche in uno studio tassonomico degli effetti cognitivi nella valutazione dei crimini violenti[3]. Gli errori dovuti all’immaginazione sono secondi per frequenza solo ai semplici errori sull’aspetto del sospettato; in merito a ciò che avevano visto, gli interrogati hanno semplicemente e inconsapevolmente inventato “fatti” che non avevano alcuna base nella realtà fisica. La fonte di quegli errori era nei poteri creativi della loro mente. Inoltre, altri importanti studi hanno dimostrato la rilevanza delle azioni e della storia personale delle vittime negli esiti di casi in cui il background della vittima era del tutto irrilevante per l’attribuzione della colpa.

Ipotesi del mondo giusto, immaginazione e background delle vittime: da un punto di vista empirico - che probabilmente è il fondamento più importante dell’indagine scettica - quali sono i fattori specifici che potrebbero portare a includere involontariamente queste nebulose influenze nei procedimenti giudiziari?

Le scienze cognitive concordano da molti anni sul fatto che una valutazione efficace e sufficientemente sofisticata di una determinata situazione implica un’accurata classificazione degli elementi e dei principi coinvolti. Nelle questioni di colpevolezza e innocenza possiamo classificare le influenze potenzialmente estranee in due grandi categorie: quelle relative al contesto della valutazione e quelle relative alle differenze individuali di chi la effettua. Naturalmente esistono molte possibili influenze all’interno di ciascuna categoria, ma quali sono le più probabili in questo caso? Quali influenze psicologiche sono state suggerite da precedenti ricerche empiriche come potenzialmente importanti perché forze psicologiche estranee provochino il deragliamento, decisamente non scettico, dalle valutazioni di logica e di evidenza?

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Un’influenza contestuale: la violenza


Entrambi i casi Peterson e Wesson sono stati orribili e hanno presentato ai giurati scenari terribili di morte violenta di bambini, nati e non. Nel 2014, uno studio ha dimostrato[4] che il livello relativo di orrore presente in un determinato caso influisce moltissimo nel modo in cui è valutato. Lo studio ha mostrato che gli intervistati avevano maggiori probabilità di emettere un verdetto di colpevolezza basandosi esclusivamente sulla violenza del crimine in questione; i sospettati dei casi più violenti avevano maggiori probabilità di essere giudicati colpevoli, anche senza alcuna prova aggiuntiva che ne indicasse la colpevolezza. È stato inoltre dimostrato che nei casi più violenti gli intervistati erano più propensi a trascurare difetti e lacune nelle prove. C’è un chiaro legame tra la valutazione cognitiva dei fatti in esame e lo stato emotivo che possono produrre quei fatti in un potenziale giurato: livelli più elevati di violenza determinano una valutazione più “gestaltica”, olistica, del caso in questione, implicando una riflessione meno “approfondita”, che invece dovrebbe legare l’elaborazione cognitiva dell’intervistato più saldamente ai fatti in esame e meno ai costrutti più nebulosi potenziati dalla violenza della situazione. In termini puramente cognitivi, quindi, vedremmo un potenziale collegamento con le questioni di colpevolezza e innocenza: attribuire delle responsabilità alla parte lesa sarebbe meno probabile in situazione di maggiore violenza, in cui si potrebbe ritenere che la vittima abbia ricevuto una punizione maggiore di quella che “meritava” secondo il concetto di mondo giusto.

Un’influenza individuale: la dissociazione


La dissociazione, come abbiamo discusso in precedenti articoli pubblicati su Skeptical Inquirer, non è assolutamente limitata a condizioni patologiche come il disturbo dissociativo dell’identità. Nella sua forma subclinica, può verificarsi in chiunque, in assenza di una psicopatologia identificabile. Perché dovremmo aspettarci che influenzi le considerazioni sulla colpevolezza e sull’innocenza? Anche la dissociazione subclinica produce effetti importanti sulla cognizione umana. Le persone dissociate possono sentirsi “strane” rispetto a sé stesse e al loro ambiente e avere percezioni anomale delle proprie esperienze e dello scorrere del tempo. Il mondo del dissociato può essere soggettivamente diffuso e in qualche modo irreale o forse surreale, e la dissociazione può ridurre l’analisi critica approfondita degli elementi su cui si baserebbe un’analisi adeguatamente scettica dei fatti di colpevolezza o innocenza di un caso.

La dissociazione in persone perfettamente “normali” può spostare le credenze e persino le percezioni al di là dei rigidi vincoli della logica e dell’evidenza. La dissociazione è direttamente associata a credenze paranormali non dimostrate (per esempio, negli UFO, in Bigfoot e nei fantasmi) ed è stata fortemente associata alle credenze nella fine del mondo “Maya” del 2012. Secondo un altro studio[5], i soggetti con una maggiore tendenza alla dissociazione tendevano non solo a credere in entità paranormali, ma anche a vederle, interpretando oggetti della realtà quotidiana come di natura paranormale. Per i dissociati, un adolescente in costume da scimmia diventava Bigfoot e le luci di atterraggio di un elicottero nel buio diventavano un UFO alieno. Le persone in dissociazione avevano anche maggiori probabilità di vedere oggetti e strutture inesistenti su una foto sfocata della Luna. La dissociazione è chiaramente coinvolta nell’offuscamento della realtà con concetti relativamente vaghi, gestaltici e non specifici, derivanti dalla vita interiore relativamente acritica degli individui coinvolti; pertanto, ci aspetteremmo che le tendenze dissociative dell’individuo, così come la violenza nel contesto di un determinato crimine, influenzino anche le questioni fondamentali di colpevolezza e innocenza.

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Struttura della ricerca


Abbiamo affrontato questi concetti in un contesto sperimentale. Centocinquanta soggetti adulti hanno letto uno di tre scenari di reato realistici e verificati sul campo, sviluppati con riferimento a casi criminali reali e con l’assistenza di esperti delle forze dell’ordine. Gli scenari erano identici, tranne che per i seguenti dettagli contestuali: il primo descriveva un semplice furto di un portafoglio; il secondo descriveva il furto del portafoglio ma con una grave aggressione fisica; il terzo descriveva il furto e l’aggressione con conseguente omicidio. A ciascun intervistato è stato quindi fornito uno dei tre livelli di violenza da considerare. La vittima e l’autore di ogni scenario sono stati descritti come maschi, senza fornire dati sulla razza. Agli intervistati è stato chiesto di valutare il grado di responsabilità dell’autore e della vittima del crimine in questione usando le scale Likert da 1 a 7. Hanno inoltre completato la Dissociative Experiences Scale-II (DES-II), una misura standard delle tendenze dissociative.

Risultati della ricerca: la violenza


La violenza dello scenario non ha influenzato l’attribuzione della colpa all’autore del reato, ma ha avuto un effetto significativo sull’attribuzione di responsabilità alla vittima; come indicato prima, la vittima è stata considerata significativamente più responsabile per il furto di una sua proprietà (un portafoglio) se non è stata aggredita o uccisa durante il furto, mentre non è emersa alcuna differenza nel minor livello di responsabilità, o di colpa, attribuito alla vittima di violenza, sia che fosse stata aggredita o uccisa. Nella loro valutazione del crimine, gli intervistati non hanno fatto distinzioni tra aggressione e omicidio; questo singolare risultato è coerente con studi precedenti4 in cui abbiamo osservato nei nostri soggetti elevati livelli di confusione nella valutazione di diversi livelli e tipi di violenza.

Gli studi suggeriscono che nella valutazione della violenza oggi la maggior parte degli adulti tende a uno stile cognitivo gestaltico e relativamente eterogeneo, una modalità di pensiero che può impedire l’analisi approfondita degli elementi su cui dovrebbe basarsi una disamina ragionata della natura e del livello di violenza in un determinato crimine.

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Risultati della ricerca: la dissociazione


Come anticipato, le tendenze dissociative sono risultate associate alla valutazione di colpa o innocenza, e questa relazione variava in base alle diverse condizioni di violenza. Le tendenze dissociative, misurate attraverso il DES-II, non prevedevano livelli più elevati di attribuzione di colpa alla vittima se era semplicemente derubata o addirittura aggredita. Tuttavia, la dissociazione era significativamente associata a una maggiore attribuzione di responsabilità della vittima se veniva uccisa (R2 = .146, F [2, 40] = 3.41, p <. 05, ?= .214). La dissociazione interagiva con il livello di violenza nell’influenzare il giudizio solo al livello più alto di violenza esaminato, l’omicidio; solo le persone che manifestavano livelli relativamente alti di tendenze dissociative vedevano la vittima come relativamente responsabile e biasimabile, se veniva uccisa. In presenza di furto o anche di lesioni gravi, la dissociazione non giocava alcun ruolo nell’attribuire la colpa alla vittima; dovevi essere dissociato per decidere che la vittima era colpevole del proprio omicidio.

Le tendenze dissociative sono associate anche a livelli più bassi di attribuzione della colpa al responsabile del crimine, indipendentemente dalla violenza (R2 = .045, F [1, 133] = 6.23, p < .05, ?= -.213). I più dissociati tendevano a vedere il colpevole come meno responsabile del crimine che aveva commesso, un risultato che potrebbe, con ulteriori ricerche, contribuire a spiegare molti casi in cui i colpevoli sono stati scagionati in opposizione diretta ai fatti dimostrati.

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Conclusioni e implicazioni


Quali sono le dinamiche cognitive in base alle quali i giurati condannano o prosciolgono i soggetti sospettati di aver commesso o meno determinati reati? I nostri risultati dimostrano che una variabile contestuale - il livello di violenza connesso a un determinato crimine - interagisce con una variabile personale - la relativa dissociazione subclinica del singolo potenziale giurato - per influenzare una questione legale fondamentale come l’attribuzione giudiziale della colpa, o del biasimo, alla vittima e all’autore di un crimine.

Le osservazioni di questo studio possono essere utili per chiarire le dinamiche cognitive di valutazioni giudiziarie fondamentali come la colpevolezza o l’innocenza, compreso il persistente e deleterio fenomeno della “colpevolizzazione della vittima”; si spera che questa ricerca abbia questo effetto. Naturalmente, altre dinamiche cognitive attendono ulteriori ricerche; ciò dovrebbe valere sia per le variabili contestuali sia per le caratteristiche personali e di differenza individuale nella determinazione dei risultati cognitivi nell’ambito della giustizia penale. Si spera che la presente ricerca si riveli utile anche per futuri studi in tal senso.

Tuttavia, c’è un altro punto importante. Questa ricerca evidenzia l’importanza cruciale di un approccio veramente scettico allo studio delle dinamiche del sistema giudiziario penale, soprattutto in un mondo di realtà legali e penali sempre più complesse. Nel mondo della giustizia penale, un settore di grande importanza sia per il benessere degli individui sia per quello della società in generale, l’indagine scettica non ha ancora raggiunto il suo potenziale.

Per esempio, è noto che la memoria dei testimoni oculari è altamente malleabile[6] ed è persino influenzata dal linguaggio usato in tribunale. Eppure, nella maggior parte delle sedi legali, la testimonianza oculare giurata è ancora trattata come veridica e inattaccabile.

I giudici ordinano ancora alle giurie di non tenere conto dei concetti appena introdotti nella loro memoria dal processo, anche se le realtà cognitive dei meccanismi della memoria possono renderlo di fatto impossibile, e persino elementi dei volti degli imputati possono produrre nei giurati risposte affettive profonde, di cui i giurati stessi sono completamente inconsapevoli.

Dobbiamo adottare un approccio empirico e scettico al sistema giudiziario penale. Dobbiamo fornire dati concreti e improntati allo scetticismo riguardo alle idee antichissime, ancora implicitamente in vigore, di un sistema di giuramento sancito da un Dio essenzialmente onnisciente, in cui, nel mondo moderno, molte persone considerano i giuramenti davanti a Dio con estrema leggerezza. Dobbiamo esaminare le questioni rilevanti da una prospettiva classificatoria: quali sono le influenze psicologiche che operano in una determinata sfera funzionale? Poi, dobbiamo esaminare la letteratura scientifica: quali sono le influenze che si sono dimostrate importanti in ambiti di ricerca correlati funzionalmente? Infine, dobbiamo esaminare ognuna di queste influenze in sperimentazioni solidamente progettate, solo all’interno delle quali è possibile confermare empiricamente la teoria di riferimento. Solo così un moderno sistema giudiziario laico, in continuo conflitto con i suoi antecedenti non laici, potrà fare progressi nel moderno regno della giustizia penale. Un sistema di analisi basato sull’indagine scettica è essenziale per qualsiasi sistema di giustizia moderno.

Il filosofo Socrate, imputato in pratica del reato di indagine scettica nell’antica Grecia, fu condannato dalla maggioranza dei giurati ateniesi. Le fonti antiche e moderne differiscono leggermente sui numeri, ma dopo la condanna, circa 80 dei giurati che prima avevano votato per la sua innocenza votarono poi per la pena di morte. Circa 80 giurati, il cui cervello era uguale a quello dei giurati di oggi, votarono a favore dell’esecuzione di un uomo per il crimine di cui prima lo avevano dichiarato innocente.

Un approccio fortemente scettico alle realtà legali e psicologiche del sistema giudiziario penale non solo è essenziale, ma è necessario da oltre 2400 anni.

L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Skeptical Inquirer, Volume 48, n. 1, 2024. Traduzione ed editing a cura della redazione di Query. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati

Note

1) Lerner, M.J. 1980. The Belief in a Just World: A Fundamental Delusion, Plenum Press
2) Goldinger, S.D., Kleider, H.M., Azuma, T. et al. 2003. “’Blaming the victim’ under memory load”, in Psychological Science, n. 14
3) Sharps, M.J., Janigian, J., Hess, A.B. et al. 2009. “Eyewitness memory in context: Toward a taxonomy of eyewitness error”, in Journal of Police and Criminal Psychology n. 24
4) Sharps, M.J.,Herrera, M.R. e Price-Sharps, J.L. 2014. “Situationally equivocal eyewitness evidence and the violence of crimes”, in Journal of Investigative Psychology and Offender Profiling, vol. 11 n. 1, gennaio
5) Sharps, M.J., Newborg, E., Van Arsdall, S. et al. 2010. “Paranormal encounters as eyewitness phenomena: Psychological determinants of atypical perceptual interpretations”, in Current Psychology vol. 29
6) Sharps, M.J., 2022. Processing under Pressure: Stress, Memory, and Decision-Making in Law Enforcement (3rd ed.). Park City, UT: Blue 360 Media

Matthew J. Sharps insegna psicologia alla California State University di Fresno. Ha pubblicato numerosi studi di scienza cognitiva e forense ed è stato consulente in materia di testimoni oculari in numerosi casi penali
Kyle Villarama, PhD, e Frankie Rios, sono ricercatori presso il Sierra Education and Research Institute di Fresno, California
Price-Sharps, PhD, è una psicologa specializzata nel trattamento dei traumi nelle situazioni di emergenza e in ambito forense. È membro di facoltà presso la Walden University e presso il dipartimento di psicologia della California State University di Fresno
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