Niente ombre sul caso Kennedy

Con il rigore delle scienze forensi, l'assassinio del presidente Kennedy non sembra nascondere misteri irrisolti

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  • 26-08-2005
  • di Federico Ferrero
Chissà cosa penserebbe George Bannerman Dealey, fondatore del Dallas Morning News, della tragica fama legata al suo nome. Dealey Plaza: un nome che evoca un mattino di novembre, un corteo presidenziale che attraversa la città di Dallas, una folla terrorizzata dal risuonare degli spari, un grande leader politico ucciso.

John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, fu barbaramente assassinato il 22 novembre 1963 da Lee Harvey Oswald, un ragazzo violento e squilibrato che gli sparò contro tre fucilate, di cui una alla testa. Nell'agguato rimase gravemente ferito anche John Connally, allora governatore dello stato del Texas. Una tragedia che sconvolse il mondo intero.

Kennedy, popolarissimo, era arrivato nel sud degli States per un "giro" elettorale: le elezioni del 1964 erano alle porte e il Presidente tentava di sollevare consensi in una zona storicamente ostile ai Democratici con l'aiuto del suo vice, Lyndon B. Johnson, texano di idee democratiche.
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JFK e Jacqueline subito dopo l'arrivo all'aeroporto Love Field di Dallas.
Giunto a Fort Worth il 21 novembre, Kennedy pernottò e, il giorno successivo, percorse con l' Air Force One il tragitto che lo condusse all'aeroporto Love Field di Dallas. Aveva in programma un pranzo presso l'International Trade Mart, sede di importanti uffici commerciali, e per raggiungerlo era stata predisposta un'automobile da corteo, una Lincoln blu decapottabile priva della solita calotta di plastica in virtù della bella giornata di sole. Il Presidente sedette accanto alla moglie Jacqueline Bouvier nella limousine guidata dall'autista William Greer e sorvegliata dall'agente del Servizio segreto Roy Kellerman; accompagnato da Connally e consorte attraversò la città di Dallas passando per la sua arteria principale, Main Street. La gente del Sud gli aveva riservato una calorosa accoglienza, fatte salve alcune frange dell'estrema destra tradizionalmente ostili al suo progressismo. Giunto in periferia il corteo, salutato da oltre duecentomila spettatori, svoltò a destra in Houston Street e poi a sinistra in Elm Street, vicino al sottopassaggio che conduce all'autostrada e da questa al Trade Mart.

All'angolo tra la Houston e la Elm la Lincoln passò sotto un anonimo edificio di mattoni, il Texas School Book Depository. Erano le 12 e 29 minuti. Uno sparo risuonò nell'aria. Poco dopo un secondo. Il Presidente si portò le mani alla gola mentre il govenatore Connally urlò: "Mio Dio, qui ci ammazzano tutti!". Qualche attimo di esitazione e poi un terzo sparo, quello fatale. Colpito alla testa, il Presidente si accasciò sul sedile mentre la moglie Jacqueline, investita pure lei dal sangue e dalla materia cerebrale di JFK, fece per arrampicarsi sul cofano posteriore ma fu fermata dall'agente Clinton Hill, che saltò sul predellino della Lincoln mentre Kellerman ordinò all'autista di accelerare: "Presto, andiamocene, siamo sotto tiro!"

L'intera scena fu filmata da un sarto, Abraham Zapruder, che quel giorno decise di portarsi la cinepresa per riprendere il passaggio del Presidente. Il suo film, divenuto celeberrimo, è il perno attorno al quale ruotano tutte le investigazioni sul caso Kennedy.

L'auto di Kennedy arrivò in pochi minuti al Parkland Memorial Hospital e un'équipe di medici provò a salvargli la vita: i dottori Perry, Carrico, Midgett, Jones, Giesecke e parecchi paramedici si fecero in quattro per effettuare una tracheotomia (sfruttando il foro di proiettile alla gola) e per infondergli liquidi vitali nel sistema circolatorio. Niente da fare. La ferita alla testa aveva provocato una decerebrazione che non lasciò scampo. Pochi minuti dopo le 13 Malcolm Kilduff, il portavoce della Casa Bianca, informò che John Fitzgerald Kennedy era stato "ucciso con un colpo d'arma da fuoco alla testa".

La caccia all'assassino era già iniziata. Una caccia che si sarebbe potuta concludere dopo pochi minuti: il poliziotto Marrion Baker, motociclista della scorta, udì infatti il primo sparo e, scorgendo uno stormo di piccioni che si levavano in volo dal tetto del Deposito, si precipitò nell'edificio con la pistola in pugno. Accompagnato dal responsabile del personale Roy Truly, Baker prese a salire le scale quando, al secondo piano, si imbatté in Oswald. Gli chiese chi fosse, ma Oswald non rispose. Truly lo rassicurò: "Lo conosco, è un nostro impiegato" e, temporaneamente, lo salvò. Lee Oswald vide i due allontanarsi e decise di lasciare, senza permesso, il luogo di lavoro. Riuscì a uscire, nel pandemonio, dalla porta principale, poco prima che la polizia chiudesse l'accesso all'edificio. Mentre, al sesto piano, il luogotenente Carl Day e i suoi collaboratori, filmati da Tom Alyea (un cameraman della WFAA TV) ritrovavano un fucile modello Mannlicher Carcano, tre cartucce, un pacco e delle impronte digitali su alcuni scatoloni di libri accatastati vicino alla finestra da cui partirono i colpi, Oswald tornò alla sua camera affittata prendendo prima un autobus e poi un taxi. Entrò in casa e prelevò dalla stanza un giubbotto e la sua Smith&Wesson calibro 38. Poi uscì e si diresse, a piedi, in un quartiere periferico di Dallas, Oak Cliff, camminando senza meta, visibilmente spaventato. Un quarto d'ora dopo le 13 venne fermato da un agente di polizia in pattuglia, J. D. Tippit, insospettito dal suo atteggiamento. Oswald però, non appena Tippit gli si parò davanti dopo essere sceso dalla vettura, tirò fuori il revolver e fece fuoco tre volte. Accennò una fuga, poi esitò, tornò indietro e sparò a Tippit il colpo di grazia, alla testa.
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Il deposito dei libri della Texas School, in cui lavorava Lee Oswald e dal quale partirono i tre colpi contro Kennedy e sotto il particolare del quinto piano del Deposito da cui si affacciano due operai. Sopra di loro, la finestra del cecchino.

Poco dopo Oswald fu visto camminare in maniera furtiva, rifugiandosi negli androni dei negozi a ogni passaggio di una volante della polizia. Alla fine decise di infilarsi in un cinema, il Texas Theatre, a spettacolo iniziato e senza pagare il biglietto, approfittando della distrazione della cassiera, intenta a osservare il continuo passaggio di veicoli a sirene spiegate. Lo vide però Howard Brennan, un piazzista di scarpe il cui negozio era contiguo al Texas Tehatre. Brennan avvisò la cassiera e lei chiamò la polizia. Gli agenti arrivarono ed entrarono facendosi indicare Oswald da Brennan. Oswald reagì e, dopo aver sussurrato: "È finita", sferrò un pugno a un poliziotto, tirò fuori la pistola ma fu fermato in tempo e, al termine di una breve colluttazione, portato via dagli agenti.

Condotto in centrale, Oswald fu accusato dell'omicidio di Tippit. In tasca gli trovarono la pistola usata per l'assassinio del poliziotto e due documenti di identità, uno genuino e uno falso, intestato a tale Alek Hidell, lo stesso nome (si scoprirà) usato per ordinare via posta il Mannlicher Carcano. La polizia impiegò poco tempo per apprendere che Oswald era un impiegato del Texas School Book Depository, quell'unico impiegato mancante senza permesso dopo l'attentato. Era un ex marine che aveva vissuto per qualche tempo in Russia dichiarandosi marxista.

Venne interrogato per dodici ore, da quel venerdì pomeriggio alla mattina della domenica. Il test della paraffina accertò che aveva sparato da poco; gli furono mostrate delle fotografie che lo ritraevano mentre imbracciava il Carcano, ma negò di averlo mai acquistato. Alcuni testimoni lo riconobbero come il killer di Tippit. Ore dopo l'arresto fu incriminato anche per l'assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Ma non ci fu tempo per celebrare un processo: Jack Ruby, titolare di un night club a Dallas, uomo iracondo e malato di protagonismo, fu talmente sconvolto dall'uccisione di JFK da desiderare la morte del suo assassino. Per due giorni presidiò, senza alcun titolo, la centrale di polizia e meditò sul da farsi senza però trovare il coraggio di agire. Alla fine, la domenica mattina, uscì di casa con la sua pistola, andò a pagare un vaglia in un ufficio Western Union e poi si diresse nuovamente alla Centrale. Gli andò bene: Oswald non era ancora stato trasferito per via di un lieve ritardo nelle operazioni. Jack Ruby si infilò tra la folla di giornalisti e di agenti nel sotterraneo della stazione, aspettò il passaggio di Oswald e fece fuoco, ferendolo mortalmente.

Questi i fatti. Ma è inutile nascondersi dietro un dito: nonostante siano trascorsi più di quarant'anni la morte di JFK coincide con una parola: complotto. Cospirazioni, segreti inconfessabili, trame della Cia e della mafia: di questo e di altro si parlò già all'indomani dell'attentato, cavalcando l'emotività del pubblico e la sostanziale ignoranza delle prove raccolte contro Lee Harvey Oswald. Si è vociferato di tiri incrociati, di una pallottola che zigzaga inverosimilmente, della testa di Kennedy che si muove colpita da davanti e non da dietro, di troppi testimoni scomodi morti in circostanze sospette.

In realtà, come dimostrato dagli articoli presenti in questo numero speciale di Scienza & Paranormale, tutte le prove portano all'identificazione di un unico colpevole. La natura della ferita alla testa di JFK, con la tipica apertura "a rosa" delle ossa del cranio, è compatibile unicamente con un colpo da dietro. La ferita alla schiena e alla gola di Kennedy provengono da un unico colpo sparato alle spalle e lo studio della posizione dei corpi dei due feriti porta all'inevitabile conclusione che un unico proiettile causò le due ferite di JFK e le cinque riscontrate sul corpo del governatore. La Commissione Warren, incaricata dal Presidente Johnson di far luce sulla dinamica dell'attentato, stabilì con certezza questi punti chiave dell'assassinio ma non riuscì a fermare l'onda di controinchieste, di falsi scoop, di rivelazioni e di falsità sfociate nel celebre film di Oliver Stone, JFK - Un caso ancora aperto. Il rifiuto di un'intera nazione di accomunare a un Presidente così amato e conosciuto un assassino così squallido e animato da un malsano impeto rivoluzionario hanno sinora avuto la meglio sulla razionalità e sul rigore delle scienze forensi.

Federico Ferrero Laureato in Giurisprudenza e giornalista. Si occupa per assione del caso Kennedy e ha raccolto sul sito Web www.johnkennedy.it le sue ricerche. Per contatti: [email protected]

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