Comunicare bene l'incertezza per comunicare la scienza

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  • 21-11-2019
  • di Giuseppe Stilo
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L’incertezza è dappertutto. Accettare questo dato vuol dire mettersi al centro del ragionamento scientifico. Le incertezze però non sono tutte uguali. Esiste, ad esempio, un’incertezza di fondo, che concerne il futuro: un esempio può essere la curva effettiva di sopravvivenza dei pazienti a cinque anni dall’insorgere di una patologia. Questo tipo di incertezza è chiamata aleatoria e, come dice il nome, ha a che fare con l’idea di casualità intrinseca al fenomeno indagato, in quanto si riferisce a quantità che sono intrinsecamente variabili nel tempo, nello spazio o nelle popolazioni di individui o oggetti.

Esiste però un secondo tipo di incertezza, definita “epistemica”. Al contrario della prima, riguarda soprattutto la nostra mancanza di conoscenza. Concerne i fatti, i numeri, la conoscenza basata sull’evidenza per cose che sono già accadute o che stanno avvenendo adesso. Com’è facile intuire, questa seconda incertezza è quella con cui un po’ tutti, ma più di altri gli scienziati e gli addetti alla comunicazione della scienza hanno a che fare ogni giorno.

La psicologa sociale Anne Marthe van der Bles, che lavora presso il Winton Centre for Risk and Evidence Communication dell’Università di Cambridge, insieme ad altri studiosi si è accorta con stupore che gli studi sul “come” far arrivare in modo corretto al proprio pubblico questo genere di incertezza non sono poi così numerosi.

Per questo di recente hanno pubblicato sulla rivista Royal Society Open Science un’analisi di vasta portata che s’intitola Communicating uncertainty about facts, numbers and science[1].

Gli autori sono partiti da una constatazione: spesso chi deve comunicare un risultato scientifico o assumere decisioni pubbliche è convinto che raccontare le incertezze su un argomento o su una ricerca possa produrre conseguenze negative[2]. Si teme che la manifestazione dell’incertezza sia considerata un segnale d’incompetenza, che possa incoraggiare critiche non costruttive o che comunque diminuisca la fiducia in chi ne è messo al corrente. Eppure non tutti sono così pessimisti. Una filosofa come l’inglese Onora O’Neill[3] ha suggerito che una comunicazione trasparente dell’incertezza potrebbe contribuire ad accrescere la fiducia nelle istituzioni, non a minarla.

L’opportunità di presentare l’incertezza, poi, è legata a filo doppio a un altro rischio, che gli autori hanno notato: quello dell’eccessiva semplificazione. Esistono, al momento, diverse linee-guida sul come parlare di cifre, quantità e incertezze, ma per van der Bles e i suoi colleghi spesso queste seguono schemi rigidi, basati su poche alternative che rischiano di esser applicate in modo affrettato e automatico. In questi casi la possibilità di ingenerare confusione è elevata.

Insomma, per van der Bles, se si ha paura di menzionare l’incertezza, se non se ne conosce bene la natura, la tipologia e le specificità, se non si riesce a comunicarla in modo adeguato e se quando si devono assumere decisioni si cela il fatto che l’evidenza di cui disponiamo non è totalmente affidabile, le conseguenze potrebbero essere assai gravi. Si pensi al caso ormai “classico” del presunto programma nucleare militare di Saddam Hussein. Nell’autunno del 2002 l’incapacità di valutare i dubbi sul suo stato di avanzamento spinse i vertici americano e britannico a decidere l’invasione dell’Iraq e l’abbattimento del suo governo, con conseguenze geopolitiche che si riverberano ancor oggi sullo scacchiere internazionale.

Van der Bles, dunque, riassume lo stato dell’arte sulla comunicazione dell’incertezza epistemica, oltre che sui metodi e sugli effetti socio-psicologici che questa comunicazione potrebbe avere. Gli autori considerano il loro studio soltanto un primo passo: serve molta ricerca empirica. Quello che possono offrire, comunque, è uno schema di base da cui è possibile partire.

Questo schema indica tre punti che possono essere oggetto d’incertezza: i fatti, i numeri e i modelli scientifici. Per ognuno di questi tre oggetti si possono avere due livelli d’incertezza: quello diretto, che tocca specifici fatti, numeri o modelli, e quello indiretto, che mette in discussione la qualità stessa della nostra conoscenza. Infine, la griglia presenta una lunga serie di modi d’azione, derivati da svariati ambiti disciplinari, suggeriti a chi si trova a dover comunicare l’incertezza.

Prima di tutto, occorre considerare su che cosa verte l’incertezza. Ad esempio, nel caso del global warming potrebbe riguardare il fatto che le temperature medie globali sono aumentate dal 1850 a oggi, che questo aumento è stato di circa 1,88 °C o che sia dovuto all’effetto serra.

Poi occorre domandarsi perché c’è incertezza. Deriva da divergenze fra i climatologi? Da fluttuazioni naturali? Dalla difficoltà nell’effettuare misurazioni accurate?

In questo modo, rendendone più analitica la valutazione si riesce a capire meglio una cosa fondamentale: come il pubblico cui la comunicazione è destinata percepisce l’incertezza. Tale percezione, infatti, appare legata alle qualità specifica di ciò che è incerto.

Gli schemi comprendono un buon numero di case studies concreti dai quali è stato possibile ricavare modelli, strategie, tecniche e fornire qualche suggerimento per migliorarle.

Alla fine, occorrerà scegliere modalità ed espressioni adeguate al tipo di incertezza e al grado di precisione che possediamo (o che ci manca!). Nel farlo, gli autori si raccomandano di mantenere sempre separato ciò che diciamo circa la dimensione dell’incertezza da quella dell’evidenza che stiamo cercando di comunicare. Per spiegare meglio con un esempio: non si deve confondere l’effetto carcinogeno delle carni rosse (che è basso) con la certezza che tale effetto vi sia (certezza che invece è alta). In questi momenti, le possibilità di confusione in chi ascolta sono purtroppo assai elevate.

In molti casi la “rivelazione” delle ambiguità epistemiche fatta a strati, progressiva, rappresenta un approccio che può rivelarsi efficace[4]. Allo stesso modo, è molto importante la comunicazione informale/personale, come quella che di norma s’instaura nel rapporto medico/paziente.

Una piccola nota: l’incertezza presa in considerazione nello studio riguarda ciò che sappiamo del passato e del presente e non l’aleatorietà del futuro; occorre però sempre tener presente che il rapporto fra le due è sfumato. È possibile dire a un paziente che è a rischio di eventi cardiovascolari nel futuro solo perché sappiamo qualcosa del suo quadro di salute presente (è obeso, lo stato delle coronarie non è buono...) e del suo passato (è un ex-fumatore, è stato un consumatore di cocaina in gioventù...). Sul piano pratico questo rapporto complicato fra incertezza sul passato e sul futuro andrà preso sempre in attento esame per non produrre effetti perversi.

Sullo sfondo di tutto ciò, la dimensione psicologica occupa un posto importante. Di fatto, non si tratta solo di trovare strategie tecnicamente “corrette”, ma anche di interpretare gli effetti dell’incertezza su chi ci ascolta. Tali effetti potranno essere di tipo cognitivo, e dunque incidere sulla comprensione degli argomenti, oppure di tipo emozionale, quindi colpire l’affettività, i valori e le convinzioni di fondo, o magari influire sulla fiducia e sui comportamenti; potrebbero addirittura influire sui processi decisionali, ad esempio sulla linea politica da seguire o sulla destinazione di fondi a una ricerca.

Secondo lo studio di van der Bles, uno dei limiti più gravi della nostra conoscenza è che al momento non c’è un numero di studi tale da poter determinare se gli effetti psicologici di tipo emotivo legati all’incertezza sono in prevalenza positivi o negativi. Sulla direzione “buona” o “cattiva” di questi effetti, per quel che ne sappiamo, possono influire parecchio i pregiudizi sull’argomento, e, non ultimi, anche i legami tra i destinatari della comunicazione e chi la presenta. Gli autori insistono sul fatto che un buon motivo per cui non si dovrebbe ingigantire il timore verso la comunicazione dell’incertezza è che sul piano empirico non ne sappiamo abbastanza.

Un’annotazione che può valere di chiusura è quella che van der Bles e gli altri autori dello studio ripetono più volte. Per quanto ne sappiamo, affermare apertamente che esiste un’incertezza non vuol dire per forza minare la fiducia e l’attendibilità di chi la afferma.

I motivi per i quali chi deve parlare di scienza e di pseudoscienze può esitare a presentarla sono facili ad intuirsi. Tuttavia, questo lavoro esorta ad andare nella direzione opposta: a non esserne troppo preoccupati, a non cedere al luogo comune secondo il quale “la gente vuole solo certezze” e, come per altre questioni, a “spacchettare” la nozione di incertezza, a valutarne tipologia, pubblico e caratteristiche e a renderla occasione per una miglior comunicazione della mentalità scientifica e degli approcci razionali nei confronti della realtà.

Note

1) Van der Bles Anne Marthe; van der Linden, Sanders; Freeman Alexandra L. J.; Mitchell, James; Galvao, Ana B.;Zaval, Lisa: Spiegelhalter David J. “Communicating uncertainty about facts, numbers and science”, Royal Society Open Science, 6: 181870, 2019. Disponibile all’url: https://bit.ly/2VHkvUI .
2) Fischhoff, Baruch. “Communicating uncertainty:fulfilling the duty to inform”, Issues in Science and Technology, 28, estate 2012, pp. 63–70. Disponibile all’url: https://bit.ly/35z98me .
3) O’Neill, Onora. Reith Lectures 2002: A Question of Trust, Lecture 4: Trust & Transparency. BBC Radio4 Reith Lectures.
4) Kloprogge, Penny; van der Sluijs, Jeroen; Wardekker, Arjan. Uncertainty communication: issues and good practice. Rapporto preparato su incarico della MNP (Agenzia per la Valutazione Ambientale dei Paesi Bassi), Utrecht, dicembre 2007. Disponibile all’url: https://bit.ly/2OQHeMM .

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