Nel precedente numero di questa rubrica abbiamo parlato di oggetti che sembravano prendere fuoco da soli. Questa volta, invece, parliamo dell’ancor più terribile fenomeno dell’autocombustione umana.
Si aggirano tra 100 e 200 i presunti casi in cui delle persone hanno improvvisamente preso fuoco, senza apparenti fonti esterne di innesco, e sono state ritrovate trasformate quasi totalmente in cenere, con solo alcune parti, generalmente degli arti inferiori, rimaste intatte. Questi episodi di autocombustione umana, detti SHC, dall’inglese Spontaneous Human Combustion, si caratterizzano anche per la quasi assenza di danni sugli oggetti circostanti o sulle pareti della stanza in cui si trova la vittima.
Il fenomeno è raro, ma non recente: già nel 1800 l’agronomo e filantropo francese Pierre-Aimé Lair provò a catalogare tutti i casi di SHC nel libro Essai sur les combustions humaines[1], partendo da una donna alcolizzata, morta tra le fiamme nel 1673 dopo essere andata a dormire su un pagliericcio.
Tra i casi più famosi, invece, c’è quello della contessa Cornelia Zangari di Cesena, nonna materna di colui che sarebbe diventato papa Pio VI. La contessa aveva 62 anni quando, una mattina, la domestica trovò al suo posto solo i piedi, un pezzo di gamba fino alle ginocchia, parte della testa, tre dita e un cumulo di cenere. Padre Giuseppe Bianchini, che descrisse l’episodio alla Royal Society di Londra nel 1731, raccontò anche che la stanza fu trovata impregnata di una strana sostanza grassa e giallastra. Il caso della contessa Zangari veniva spesso citato da Charles Dickens, che sosteneva non esistessero cause esterne note che potessero spiegare i fenomeni di SHC, tanto da far morire così un personaggio in uno dei suoi romanzi, Casa desolata.
Tra i casi meglio documentati, invece, c’è quello, avvenuto a metà ’900 a St. Petersburg in Florida, della signora Mary Reeser, di cui furono trovati sul pavimento solo qualche osso affumicato e un piede in mezzo alle ceneri. La polizia rilevò una strana sostanza grassa e oleosa sul soffitto, che si estendeva sulle pareti fino a circa un metro dal pavimento. Per il resto non c’erano molti danni in casa: il calore aveva liquefatto solo l’interruttore della luce, un bicchiere di plastica e una scatola di candele. L’incidente non sembrava avere spiegazioni. Persino l’FBI brancolava nel buio[2]. Significativa è la dichiarazione che rilasciò il dottor Wilton M. Krogman, antropologo della Scuola di Medicina dell’Università della Pennsylvania ed esperto internazionale sugli effetti del fuoco sul corpo umano: «la considero la cosa più incredibile che abbia mai visto. Se ci penso, mi si drizzano i peli sul collo dalla paura. Se vivessi nel Medioevo, parlerei forse di magia nera». Anche lui, alla fine, dovette arrendersi di fronte al tentativo di capire cosa fosse successo.
Per prendere fuoco, infatti, qualunque corpo ha bisogno di una temperatura molto alta, una sorgente di combustibile e un agente ossidante. L’agente ossidante più comune è l’ossigeno presente nell’aria. Erano gli altri due elementi a mancare sulla scena. Infatti, il corpo umano è composto per circa il 60-65% di acqua, il che rende più difficile possa bruciare interamente. Pensate che un forno crematorio raggiunge circa 1300 gradi centigradi!
I giornali, ovviamente, avanzarono le ipotesi più fantasiose: un fulmine globulare l’aveva colpita, o forse la signora Reeser aveva ingerito dell’esplosivo? Tra le varie ipotesi fece molta presa quella della combustione spontanea.
Joe Nickell, ricercatore senior dell’International Committee for Skeptical Inquiry (CSI) e John F. Fisher, analista forense del laboratorio di criminologia della polizia di Orange County, hanno condotto una lunga indagine sull’SHC, esaminando trenta casi[3]. Un elemento ricorrente era l’abitudine delle vittime al consumo di alcool, ed infatti erano spesso in stato di ubriachezza l’ultima volta che erano state viste prima della combustione. La stessa correlazione è stata evidenziata da uno studio successivo, condotto da Mark Benecke, biologo forense del dipartimento di medicina legale della polizia di New York, insieme al suo collega David Pescod, su 200 casi di presunta SHC[4]. I quattro ricercatori sono tutti concordi nel ritenere, però, che l’alcool presente nell’organismo possa essere considerato la causa degli incidenti solo in quanto rende le persone più imprudenti col fuoco e meno pronte a rispondere in maniera efficace di fronte a un incidente. L’origine vera e propria delle combustioni non è da cercarsi all’interno dell’organismo, ma al di fuori. Infatti, spiega Benecke, «in letteratura non esistono casi noti in cui gli organi interni di un corpo bruciato sono stati trovati più danneggiati delle parti esterne. Questa osservazione pratica è una prova del fatto che la combustione non comincia mai dall’interno di un corpo».
Se si cerca attentamente, vicino ai corpi bruciati è sempre stata ritrovata una possibile fonte di accensione, come candele, lampade a olio o camini che possono aver dato origine alla combustione. Ma dov’è il combustibile necessario per portare avanti il processo? L’ipotesi più accreditata è che possa verificarsi una sorta di “effetto candela inverso”, partendo dai vestiti o dai capelli della vittima, che iniziano a bruciare e, man mano, fanno colare il grasso del corpo, che li impregna e alimenta così la combustione. Nella maggior parte dei casi le vittime non erano magre e le uniche parti a rimanere più o meno intatte sono state gli arti inferiori, che contengono meno grasso e spesso non sono coperti da indumenti. Inoltre, è stata notata una correlazione tra la distruzione del corpo delle vittime e le fonti combustibili esterne, come per esempio poltrone, tappeti, etc., a riprova che la fonte di calore è esterna al corpo.
Eppure, un corpo che brucia in questo modo non può raggiungere i 1300 gradi centigradi come in un forno crematorio. Come si spiega che le vittime si siano trasformate in cenere? L’errore, in questo caso, sta nel ritenere che sia necessaria una temperatura così alta affinché un corpo possa essere carbonizzato. In realtà i forni crematori raggiungono tali temperature per terminare il processo in tempi relativamente brevi, di circa un’ora o poco più. In tempi più lunghi è sufficiente una temperatura più bassa per ottenere lo stesso risultato. Anzi, talvolta il fuoco può essere così basso da non generare fiamme, il che spiega come mai le stanze non abbiano subito danni rilevanti.
Il caso della signora Reeser, così come molti altri di cui esiste adeguata documentazione, risulta perfettamente spiegabile alla luce di quanto detto. Stando ai rapporti della polizia e agli altri documenti originali, la signora era stata vista per l’ultima volta dodici ore prima mentre, seduta sulla sua poltrona, fumava una sigaretta. Indossava una vestaglia di tessuto sintetico e aveva appena preso due pillole per dormire.
Uno degli ultimi casi di presunta SHC si è verificato nell’agosto del 2013 in India, ma presenta caratteristiche diverse da quelle degli altri casi noti. Il protagonista della storia, infatti, è il piccolo Rahul, un bimbo di appena 2 mesi e mezzo del Tamil Nadu (India meridionale). Rahul è stato ricoverato più volte per gravi ustioni su tutto il corpo senza causa apparente, la prima delle quali appena nove giorni dopo essere nato. A parte le ustioni, secondo i medici è un bambino sano e forte. Ma qualche giorno dopo essere tornato a casa il corpo di Rahul è nuovamente ustionato.
Al quarto episodio il bambino viene ricoverato al Kilpauk Medical College di Chennai per indagini più approfondite. Secondo il pediatra Narayana Babu, che lo ha in cura, a provocare le ustioni potrebbe essere «l'emissione di un qualche gas altamente combustibile attraverso i pori»[5]. Secondo Kalpesh Gajiwala, specialista del Tata Memorial Hospital di Mumbai, «un’ipotesi plausibile è che alcuni particolari batteri dell’intestino convertano il cibo in metano, sostanza combustibile[6]».
Tra gli abitanti del paese si inizia a diffondere la voce che il demonio si sia impossessato di Rahul[7]. Dopo l’ultima dimissione dall’ospedale, passano un paio di anni senza che di Rahul si sappia più niente. Nel 2015 la famiglia torna al centro dei riflettori perché la SHC sembra aver colpito anche il fratellino di Rahul, di soli sette giorni. Che si tratti di una sindrome di origine genetica?
In realtà all’ipotesi di SHC ci credono in pochi, sia perché non è mai stata scientificamente provata, sia perché i valori degli esami dei due bambini non mostrano nessun segno particolare. Per studiare il caso viene formata una commissione medica, la quale ritiene si tratti di maltrattamenti e sia qualcuno a provocare le ustioni[8]. Il Legal Resource Center for Child Rights chiede sia fatta una indagine sulla famiglia dei bambini, che potrebbe aver provocato le ustioni per ottenere sostegno economico da parte del governo. Quando si pensava che il primogenito Rahul avesse una malattia rara, infatti, il governo aveva dato ai suoi genitori una casa a energia solare e assistenza finanziaria. Anche in questo triste caso, quindi, sembra che di spontaneo ci sia ben poco.
Si aggirano tra 100 e 200 i presunti casi in cui delle persone hanno improvvisamente preso fuoco, senza apparenti fonti esterne di innesco, e sono state ritrovate trasformate quasi totalmente in cenere, con solo alcune parti, generalmente degli arti inferiori, rimaste intatte. Questi episodi di autocombustione umana, detti SHC, dall’inglese Spontaneous Human Combustion, si caratterizzano anche per la quasi assenza di danni sugli oggetti circostanti o sulle pareti della stanza in cui si trova la vittima.
Il fenomeno è raro, ma non recente: già nel 1800 l’agronomo e filantropo francese Pierre-Aimé Lair provò a catalogare tutti i casi di SHC nel libro Essai sur les combustions humaines[1], partendo da una donna alcolizzata, morta tra le fiamme nel 1673 dopo essere andata a dormire su un pagliericcio.
Tra i casi più famosi, invece, c’è quello della contessa Cornelia Zangari di Cesena, nonna materna di colui che sarebbe diventato papa Pio VI. La contessa aveva 62 anni quando, una mattina, la domestica trovò al suo posto solo i piedi, un pezzo di gamba fino alle ginocchia, parte della testa, tre dita e un cumulo di cenere. Padre Giuseppe Bianchini, che descrisse l’episodio alla Royal Society di Londra nel 1731, raccontò anche che la stanza fu trovata impregnata di una strana sostanza grassa e giallastra. Il caso della contessa Zangari veniva spesso citato da Charles Dickens, che sosteneva non esistessero cause esterne note che potessero spiegare i fenomeni di SHC, tanto da far morire così un personaggio in uno dei suoi romanzi, Casa desolata.
Tra i casi meglio documentati, invece, c’è quello, avvenuto a metà ’900 a St. Petersburg in Florida, della signora Mary Reeser, di cui furono trovati sul pavimento solo qualche osso affumicato e un piede in mezzo alle ceneri. La polizia rilevò una strana sostanza grassa e oleosa sul soffitto, che si estendeva sulle pareti fino a circa un metro dal pavimento. Per il resto non c’erano molti danni in casa: il calore aveva liquefatto solo l’interruttore della luce, un bicchiere di plastica e una scatola di candele. L’incidente non sembrava avere spiegazioni. Persino l’FBI brancolava nel buio[2]. Significativa è la dichiarazione che rilasciò il dottor Wilton M. Krogman, antropologo della Scuola di Medicina dell’Università della Pennsylvania ed esperto internazionale sugli effetti del fuoco sul corpo umano: «la considero la cosa più incredibile che abbia mai visto. Se ci penso, mi si drizzano i peli sul collo dalla paura. Se vivessi nel Medioevo, parlerei forse di magia nera». Anche lui, alla fine, dovette arrendersi di fronte al tentativo di capire cosa fosse successo.
Per prendere fuoco, infatti, qualunque corpo ha bisogno di una temperatura molto alta, una sorgente di combustibile e un agente ossidante. L’agente ossidante più comune è l’ossigeno presente nell’aria. Erano gli altri due elementi a mancare sulla scena. Infatti, il corpo umano è composto per circa il 60-65% di acqua, il che rende più difficile possa bruciare interamente. Pensate che un forno crematorio raggiunge circa 1300 gradi centigradi!
I giornali, ovviamente, avanzarono le ipotesi più fantasiose: un fulmine globulare l’aveva colpita, o forse la signora Reeser aveva ingerito dell’esplosivo? Tra le varie ipotesi fece molta presa quella della combustione spontanea.
Joe Nickell, ricercatore senior dell’International Committee for Skeptical Inquiry (CSI) e John F. Fisher, analista forense del laboratorio di criminologia della polizia di Orange County, hanno condotto una lunga indagine sull’SHC, esaminando trenta casi[3]. Un elemento ricorrente era l’abitudine delle vittime al consumo di alcool, ed infatti erano spesso in stato di ubriachezza l’ultima volta che erano state viste prima della combustione. La stessa correlazione è stata evidenziata da uno studio successivo, condotto da Mark Benecke, biologo forense del dipartimento di medicina legale della polizia di New York, insieme al suo collega David Pescod, su 200 casi di presunta SHC[4]. I quattro ricercatori sono tutti concordi nel ritenere, però, che l’alcool presente nell’organismo possa essere considerato la causa degli incidenti solo in quanto rende le persone più imprudenti col fuoco e meno pronte a rispondere in maniera efficace di fronte a un incidente. L’origine vera e propria delle combustioni non è da cercarsi all’interno dell’organismo, ma al di fuori. Infatti, spiega Benecke, «in letteratura non esistono casi noti in cui gli organi interni di un corpo bruciato sono stati trovati più danneggiati delle parti esterne. Questa osservazione pratica è una prova del fatto che la combustione non comincia mai dall’interno di un corpo».
Se si cerca attentamente, vicino ai corpi bruciati è sempre stata ritrovata una possibile fonte di accensione, come candele, lampade a olio o camini che possono aver dato origine alla combustione. Ma dov’è il combustibile necessario per portare avanti il processo? L’ipotesi più accreditata è che possa verificarsi una sorta di “effetto candela inverso”, partendo dai vestiti o dai capelli della vittima, che iniziano a bruciare e, man mano, fanno colare il grasso del corpo, che li impregna e alimenta così la combustione. Nella maggior parte dei casi le vittime non erano magre e le uniche parti a rimanere più o meno intatte sono state gli arti inferiori, che contengono meno grasso e spesso non sono coperti da indumenti. Inoltre, è stata notata una correlazione tra la distruzione del corpo delle vittime e le fonti combustibili esterne, come per esempio poltrone, tappeti, etc., a riprova che la fonte di calore è esterna al corpo.
Eppure, un corpo che brucia in questo modo non può raggiungere i 1300 gradi centigradi come in un forno crematorio. Come si spiega che le vittime si siano trasformate in cenere? L’errore, in questo caso, sta nel ritenere che sia necessaria una temperatura così alta affinché un corpo possa essere carbonizzato. In realtà i forni crematori raggiungono tali temperature per terminare il processo in tempi relativamente brevi, di circa un’ora o poco più. In tempi più lunghi è sufficiente una temperatura più bassa per ottenere lo stesso risultato. Anzi, talvolta il fuoco può essere così basso da non generare fiamme, il che spiega come mai le stanze non abbiano subito danni rilevanti.
Il caso della signora Reeser, così come molti altri di cui esiste adeguata documentazione, risulta perfettamente spiegabile alla luce di quanto detto. Stando ai rapporti della polizia e agli altri documenti originali, la signora era stata vista per l’ultima volta dodici ore prima mentre, seduta sulla sua poltrona, fumava una sigaretta. Indossava una vestaglia di tessuto sintetico e aveva appena preso due pillole per dormire.
Uno degli ultimi casi di presunta SHC si è verificato nell’agosto del 2013 in India, ma presenta caratteristiche diverse da quelle degli altri casi noti. Il protagonista della storia, infatti, è il piccolo Rahul, un bimbo di appena 2 mesi e mezzo del Tamil Nadu (India meridionale). Rahul è stato ricoverato più volte per gravi ustioni su tutto il corpo senza causa apparente, la prima delle quali appena nove giorni dopo essere nato. A parte le ustioni, secondo i medici è un bambino sano e forte. Ma qualche giorno dopo essere tornato a casa il corpo di Rahul è nuovamente ustionato.
Al quarto episodio il bambino viene ricoverato al Kilpauk Medical College di Chennai per indagini più approfondite. Secondo il pediatra Narayana Babu, che lo ha in cura, a provocare le ustioni potrebbe essere «l'emissione di un qualche gas altamente combustibile attraverso i pori»[5]. Secondo Kalpesh Gajiwala, specialista del Tata Memorial Hospital di Mumbai, «un’ipotesi plausibile è che alcuni particolari batteri dell’intestino convertano il cibo in metano, sostanza combustibile[6]».
Tra gli abitanti del paese si inizia a diffondere la voce che il demonio si sia impossessato di Rahul[7]. Dopo l’ultima dimissione dall’ospedale, passano un paio di anni senza che di Rahul si sappia più niente. Nel 2015 la famiglia torna al centro dei riflettori perché la SHC sembra aver colpito anche il fratellino di Rahul, di soli sette giorni. Che si tratti di una sindrome di origine genetica?
In realtà all’ipotesi di SHC ci credono in pochi, sia perché non è mai stata scientificamente provata, sia perché i valori degli esami dei due bambini non mostrano nessun segno particolare. Per studiare il caso viene formata una commissione medica, la quale ritiene si tratti di maltrattamenti e sia qualcuno a provocare le ustioni[8]. Il Legal Resource Center for Child Rights chiede sia fatta una indagine sulla famiglia dei bambini, che potrebbe aver provocato le ustioni per ottenere sostegno economico da parte del governo. Quando si pensava che il primogenito Rahul avesse una malattia rara, infatti, il governo aveva dato ai suoi genitori una casa a energia solare e assistenza finanziaria. Anche in questo triste caso, quindi, sembra che di spontaneo ci sia ben poco.
Note
1) Lair, Pierre-Aimé (1880), Essai sur les combustions humaines, Parigi: Crapelet.
2) Reader’s Digest Mysteries of the Unexplained, Reader’s Digest Association, Inc., Pleasantville, New York, 1982, p. 87.
3) Nickell, Joe e Fisher, John F., “Spontaneous Human Combustion”, The Fire and Arson Investigator, 34, n. 3, marzo 1984, pp. 4-11; 34, n. 4, giugno 1984, pp. 3-8.
4) Benecke, Marc. “Spontaneous Human Combustion. Thoughts of a Forensic Biologist”. The Skeptical Inquirer, marzo/aprile 1998.