Si dice che nel III secolo avanti Cristo, nel corso della guerra tra Roma e Cartagine, il generale romano Lucio Marcio "arse in Spagna" mentre incitava i suoi soldati a vendicare la morte dei condottieri Publio Cornelio e Gneo Cornelio Scipione, caduti in battaglia[1]. Siamo di fronte a uno dei più antichi casi di combustione umana spontanea? Prima di pensarlo dobbiamo fare i conti con la fonte di questo episodio: l'annalista romano Valerio Anziate, famoso per le esagerazioni e le falsificazioni che aveva introdotto nelle sue cronache ora perdute. Nella maggioranza dei casi, però, la veridicità degli episodi di autocombustione umana non è messa in discussione; casomai lo sono le cause che hanno provocato le fiamme e i meccanismi attraverso cui queste hanno consumato i corpi delle vittime. Nel caso del rogo dello sfortunato Lucio Marcio cosa pensarono i suoi legionari? Si era trattato di un segno degli dèi, di un eccesso di "impeto marziale", oppure di una torcia che si era avvicinata troppo al mantello del cavaliere?
L'interessante copertina sull'autocombustione umana spontanea (SHC) curata da Massimo Polidoro e Joe Nickell sul numero 69 di S&P mi ha portato a riflettere sul cruciale ruolo delle verifiche sperimentali e su come è variato nel tempo l'atteggiamento delle persone comuni, degli scienziati e dei medici a proposito di un fenomeno considerato misterioso. Penso che un poco di luce dal passato ci possa aiutare a comprendere meglio la situazione attuale.
In un mondo ideale, l'identificazione delle ragioni di una combustione umana che pensiamo anomala dovrebbe dipendere innanzitutto da verifiche medico-legali sui cadaveri, poi da una interpretazione chimico-fisica-fisiologica sottostante e infine da prove di laboratorio per verificare la fondatezza di questi presupposti. In realtà, però, per la SHC è quasi sempre successo l'opposto e il fenomeno dell'autocombustione umana è stato spesso affrontato in termini "ideologici", ossia eccessivamente legati alle dottrine preferite dai proponenti. Nel caso del rogo di Lucio Marcio, ad esempio, il frate domenicano Valerio Faenzi nel suo Dialogo sull'Origine delle Montagne del 1561, immaginò che il nobile romano fosse stato arso dal fuoco contenuto nel sottosuolo, che riteneva essere la forza che provocava il sollevamento delle montagne; la causa era eccezionale ma, al contrario degli episodi classici di SHC, l'origine delle fiamme era ritenuta esterna e non interna al corpo umano.
In generale, però, l'idea di autocombustione umana che si diffuse in Europa a partire dal Cinquecento deriva da una credenza popolare - nata nel Nord Europa - secondo cui un eccesso di superalcolici poteva innescarsi nello stomaco dei bevitori provocando fiamme che uscivano dalle bocche dei malcapitati. Al di là delle valutazione folcloristiche, per lungo tempo l'opinione medica si allineò con questa convinzione, con variazioni per chi riteneva che l'autocombustione derivasse dal fosforo contenuto nel corpo oppure dalle "qualità flogistiche" delle sostanze e interessasse solo tessuti malati. In un articolo apparso su Le Concours Médical lo psichiatra Claude Guionnet ha sottolineato che la teoria della SHC non era considerata improbabile dai dottori dalla fine del Seicento, e lo rimase fino alla prima metà dell'Ottocento[2]. Dopo la nascita della chimica moderna e i progressi nella fisica e nella biologia, gli scienziati si sbizzarrirono a teorizzare sui presunti meccanismi d'azione della SHC: ci fu chi pensò che l'alcol saturasse i tessuti rendendoli infiammabili e chi chiamò in causa un "fluido elettrico", una "decomposizione interna", oppure un microbo che produce gas combustibili[3]. Nonostante i richiami del chimico svedese Berzelius, che consigliava agli scienziati di sperimentare prima di avanzare ipotesi su fenomeni non provati, nell'Ottocento prevalsero gli studi teorici in cui l'alcol fungeva da combustibile, come quello del fisiologo Fontenelle de Julia nel 1823 o ancora un articolo pubblicato su una rivista medico-legale francese del 1878[4]. Già dal 1830, però, il chirurgo militare Guillaume Dupuytren (ideatore della classificazione delle ustioni) aveva chiamato in causa per le combustioni umane sospette il torpore causato dai liquori e aveva ipotizzato un meccanismo in cui i grassi corporei bruciano lentamente con gli abiti che fungono da stoppino, successivamente chiamato "effetto candela": in un soggetto inebetito dall'alcol e soffocato dai fumi del camino presso cui è seduto, «i vestiti prendono fuoco e si consumano, la pelle brucia, l'epidermide si spacca e il grasso fonde e scorre fuori; una parte spilla sul pavimento, la rimanente alimenta la combustione; viene il giorno e tutto è bruciato»[5].
Dopo che il clamoroso caso di autocombustione della contessa di Görlitz nel 1847 (in realtà un omicidio) fu indagato da autorevoli periti come il fisiologo Bischoff e il chimico von Liebig, l'ipotesi della "spontaneità" di questi eventi non «sparì dai tribunali, dall'arena scientifica e dalla letteratura», come pretesero alcuni contemporanei, ma fu guardato dai medici con maggior sospetto.6 Bischoff sperimentò su un cadavere varie sostanze combustibili mentre Liebig sostenne che l'alto contenuto di acqua nei tessuti umani ne impediva l'autocombustione anche quando molto grassi o impregnati di alcol[6]. Il presupposto errato dell'incombustibilità del corpo umano ostacolò le interpretazioni oggettive ma, nonostante questo, l'autocombustione umana continuò a comparire nella letteratura medica. Ancora nel 1893, un certo dottor Adrian Hava illustrò su un giornale medico di New Orleans i suoi tentativi di verificare questo fenomeno somministrando per mesi piccole quantità di monossido di carbonio (che pensava fosse ritenuto nei tessuti come prodotto della metabolizzazione dell'alcol) a galli, conigli, porcellini e altri animali. Hava dichiarò di aver avuto successo con i conigli dopo aver seguito accuratamente per 169 giorni questo trattamento, mentre per i galli occorrevano otto mesi[7]. Nessuno cercò di replicare questi crudeli esperimenti e nel corso del Novecento l'autocombustione umana "spontanea" scomparì dalla letteratura medica, per rimanere negli articoli e nei libri dedicati al mistero e al paranormale. La realtà dell'effetto candela fu finalmente indagata sperimentalmente nel 1965 dal medico D.J. Gee che dimostrò come il grasso umano, una volta infiammato da una fonte ad alta temperatura, era in grado di autosostenere la propria combustione anche a temperatura ambiente, bruciando lentamente e producendo una piccola fiamma e un fumo caliginoso. Gee condusse due esperimenti: nel primo sistemò attorno a una provetta uno strato di grasso umano, uno di pelle e uno di tessuto; avvicinato alla fiamma di un bunsen, una volta sciolto il grasso, l'involto bruciò autonomamente nel giro di un'ora. Nel secondo esperimento un cosciotto rivestito di cotone e collocato orizzontalmente bruciò lentamente lasciando solo l'osso calcinato e un mucchietto di ceneri[8]. Già dall'anno successivo alla pubblicazione, le conclusioni di Gee furono accolte in un testo di medicina legale in cui la combustione umana autosostenuta era definita "effetto candela" (in inglese wick effect) e classificata tra i processi che avvengono dopo la morte[9].
Nella sua tesi per il dottorato in antropologia presentata nel 1987, Guionnet ha raccolto 55 casi attribuiti all'autocombustione spontanea, riportati dalla fine del Seicento alla metà dell'Ottocento quando era stata eletta a teoria medica. Nella sua indagine, Bondeson ha raccolto 97 episodi di autocombustione umana descritti nella letteratura medica dal 1600 al 1900 e ha circoscritto a non più di 25 i casi degni di essere presi in considerazione, indicati in libri o nella stampa periodica durante il secolo trascorso.
Alcuni dati sono interessanti: nell'analisi di Bondeson la maggior parte dei casi di autocombustione ha riguardato donne (70 percento) ed è avvenuta in Francia (34 percento), seguita da Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. L'Italia non sembra essere ai primi posti, sebbene possa vantare il celebre episodio di combustione della contessa Bandi di Cesena, che fu descritto di fronte alla Royal Society nel 1731. Attualmente si ritiene che siano avvenute mediamente nel mondo una cinquantina di combustioni umane autosostenute. Si tratta di un fenomeno raro ma studiabile. Nel 2000, S. Gromb e un gruppo di ricercatori dell'ospedale universitario Pellegrin di Bordeax hanno illustrato su una rivista di medicina legale cinque casi di combustione umana (quattro donne e un uomo) avvenuti nella Francia orientale nei dodici anni precedenti[10]. In questi, come in altri episodi simili, solo alcune parti dei corpi erano completamente distrutte, mentre altre - inclusi i vestiti - erano intatte. Solo tre delle quattro donne descritte dai medici francesi erano corpulente ma in realtà, anche per i soggetti magri e apparentemente privi di tessuti adiposi, il grasso non è distribuito omogeneamente nel corpo ma localizzato in punti specifici. In quattro delle cinque vittime la zona andata in fumo era compresa tra il torace e le ginocchia (addome, bacino e area genitale), ossia i punti che - specialmente nelle donne - corrispondono di solito a dove il grasso è più concentrato. In tre vittime l'analisi del sangue non ha inoltre rilevato tracce di alcol: la stretta correlazione tra ubriachezza e combustione autosostenuta - che in passato si riteneva evidente per la presunta SHC - resta tutta da dimostrare, tranne per il fatto che l'alcol può favorire la pinguedine e questo può rendere maggiormente "combustibili" se si verifica un incidente.
Il ricercatore e esperto giudiziario Antoine Bagady ha potuto effettuare due perizie su vittime di autocombustione umana. Oltre a constatare che l'aspetto dei corpi si accordava a quanto previsto dall'effetto candela, Bagady ha osservato che, mentre la prima vittima era corpulenta e fortemente carbonizzata, la seconda era magra e molto carbonizzata solo in quelle parti del corpo (come le cosce e le natiche) che la letteratura medico-legale metteva in rapporto con un certo volume di grasso[11]. Una sperimentazione animale sistematica su carcasse e tessuti di maiale per verificare i dettagli della combustione umana autosostenuta è stata pubblicata nel 1999 sulla rivista Science & Justice da John DeHaan, del California Criminalistic Institute e da due collaboratori[12]. I ricercatori hanno dimostrato che i grassi corporei possono contribuire a sostenere una combustione innescata da una fonte di calore esterna che procede moderatamente se provvista di un adeguato "stoppino" e - se la massa combustibile non è troppo grande - produce un incendio sufficientemente piccolo da rimanere circoscritto ai resti umani senza propagarsi ad altri materiali infiammabili. In un differente esperimento la ricercatrice Angie M. Christensen, del Dipartimento di Antropologia dell'Università del Tennessee, ha dimostrato per la prima volta su un campione umano (un arto inferiore amputato) che il calore rilasciato dalla combustione era sufficientemente basso perché le fiamme rimanessero localizzate[13].
Una dimostrazione pratica degli esperimenti di DeHaan è stata compiuta nell'agosto 1998 dal programma televisivo QED, trasmesso dalla BBC[14]. Qui DeHaan, ha mostrato una combustione di un maiale avvolto in una coperta innescata dopo avervi versato una piccola quantità di benzina. Al termine della prova, durata cinque ore con fiamme basse, la parte toccata dal fuoco era completamente in cenere, incluse le ossa, mentre la stanza in cui era avvenuta la dimostrazione rimase relativamente intatta, tranne per lo scioglimento del rivestimento plastico di un televisore posto sopra un mobiletto alto. Nel 1991, DeHaan aveva investigato un caso di omicidio avvenuto negli USA, in cui una donna piuttosto corpulenta era stata distrutta nelle sue parti più carnose. Dopo l'arresto, gli assassini avevano confessato di aver cercato di bruciare il corpo versando su di esso mezzo litro di liquido per accendere il barbecue e appiccando il fuoco. Le prove che la combustione umana autosostenuta è un fenomeno naturale non spontaneo ma innescato dall'esterno riuscirà a persuadere tutti? Nuove teorie, alcune molto bizzarre, non sono mancate. Come in passato, solo la verifica sperimentale saprà dare ragione a chi propone queste ipotesi.
Andrea Albini
Collaboratore tecnico
presso l'Università di Pavia, dove si occupa di didattica
e dello studio di materiali per l'ingegneria elettrica
L'interessante copertina sull'autocombustione umana spontanea (SHC) curata da Massimo Polidoro e Joe Nickell sul numero 69 di S&P mi ha portato a riflettere sul cruciale ruolo delle verifiche sperimentali e su come è variato nel tempo l'atteggiamento delle persone comuni, degli scienziati e dei medici a proposito di un fenomeno considerato misterioso. Penso che un poco di luce dal passato ci possa aiutare a comprendere meglio la situazione attuale.
In un mondo ideale, l'identificazione delle ragioni di una combustione umana che pensiamo anomala dovrebbe dipendere innanzitutto da verifiche medico-legali sui cadaveri, poi da una interpretazione chimico-fisica-fisiologica sottostante e infine da prove di laboratorio per verificare la fondatezza di questi presupposti. In realtà, però, per la SHC è quasi sempre successo l'opposto e il fenomeno dell'autocombustione umana è stato spesso affrontato in termini "ideologici", ossia eccessivamente legati alle dottrine preferite dai proponenti. Nel caso del rogo di Lucio Marcio, ad esempio, il frate domenicano Valerio Faenzi nel suo Dialogo sull'Origine delle Montagne del 1561, immaginò che il nobile romano fosse stato arso dal fuoco contenuto nel sottosuolo, che riteneva essere la forza che provocava il sollevamento delle montagne; la causa era eccezionale ma, al contrario degli episodi classici di SHC, l'origine delle fiamme era ritenuta esterna e non interna al corpo umano.
In generale, però, l'idea di autocombustione umana che si diffuse in Europa a partire dal Cinquecento deriva da una credenza popolare - nata nel Nord Europa - secondo cui un eccesso di superalcolici poteva innescarsi nello stomaco dei bevitori provocando fiamme che uscivano dalle bocche dei malcapitati. Al di là delle valutazione folcloristiche, per lungo tempo l'opinione medica si allineò con questa convinzione, con variazioni per chi riteneva che l'autocombustione derivasse dal fosforo contenuto nel corpo oppure dalle "qualità flogistiche" delle sostanze e interessasse solo tessuti malati. In un articolo apparso su Le Concours Médical lo psichiatra Claude Guionnet ha sottolineato che la teoria della SHC non era considerata improbabile dai dottori dalla fine del Seicento, e lo rimase fino alla prima metà dell'Ottocento[2]. Dopo la nascita della chimica moderna e i progressi nella fisica e nella biologia, gli scienziati si sbizzarrirono a teorizzare sui presunti meccanismi d'azione della SHC: ci fu chi pensò che l'alcol saturasse i tessuti rendendoli infiammabili e chi chiamò in causa un "fluido elettrico", una "decomposizione interna", oppure un microbo che produce gas combustibili[3]. Nonostante i richiami del chimico svedese Berzelius, che consigliava agli scienziati di sperimentare prima di avanzare ipotesi su fenomeni non provati, nell'Ottocento prevalsero gli studi teorici in cui l'alcol fungeva da combustibile, come quello del fisiologo Fontenelle de Julia nel 1823 o ancora un articolo pubblicato su una rivista medico-legale francese del 1878[4]. Già dal 1830, però, il chirurgo militare Guillaume Dupuytren (ideatore della classificazione delle ustioni) aveva chiamato in causa per le combustioni umane sospette il torpore causato dai liquori e aveva ipotizzato un meccanismo in cui i grassi corporei bruciano lentamente con gli abiti che fungono da stoppino, successivamente chiamato "effetto candela": in un soggetto inebetito dall'alcol e soffocato dai fumi del camino presso cui è seduto, «i vestiti prendono fuoco e si consumano, la pelle brucia, l'epidermide si spacca e il grasso fonde e scorre fuori; una parte spilla sul pavimento, la rimanente alimenta la combustione; viene il giorno e tutto è bruciato»[5].
Dopo che il clamoroso caso di autocombustione della contessa di Görlitz nel 1847 (in realtà un omicidio) fu indagato da autorevoli periti come il fisiologo Bischoff e il chimico von Liebig, l'ipotesi della "spontaneità" di questi eventi non «sparì dai tribunali, dall'arena scientifica e dalla letteratura», come pretesero alcuni contemporanei, ma fu guardato dai medici con maggior sospetto.6 Bischoff sperimentò su un cadavere varie sostanze combustibili mentre Liebig sostenne che l'alto contenuto di acqua nei tessuti umani ne impediva l'autocombustione anche quando molto grassi o impregnati di alcol[6]. Il presupposto errato dell'incombustibilità del corpo umano ostacolò le interpretazioni oggettive ma, nonostante questo, l'autocombustione umana continuò a comparire nella letteratura medica. Ancora nel 1893, un certo dottor Adrian Hava illustrò su un giornale medico di New Orleans i suoi tentativi di verificare questo fenomeno somministrando per mesi piccole quantità di monossido di carbonio (che pensava fosse ritenuto nei tessuti come prodotto della metabolizzazione dell'alcol) a galli, conigli, porcellini e altri animali. Hava dichiarò di aver avuto successo con i conigli dopo aver seguito accuratamente per 169 giorni questo trattamento, mentre per i galli occorrevano otto mesi[7]. Nessuno cercò di replicare questi crudeli esperimenti e nel corso del Novecento l'autocombustione umana "spontanea" scomparì dalla letteratura medica, per rimanere negli articoli e nei libri dedicati al mistero e al paranormale. La realtà dell'effetto candela fu finalmente indagata sperimentalmente nel 1965 dal medico D.J. Gee che dimostrò come il grasso umano, una volta infiammato da una fonte ad alta temperatura, era in grado di autosostenere la propria combustione anche a temperatura ambiente, bruciando lentamente e producendo una piccola fiamma e un fumo caliginoso. Gee condusse due esperimenti: nel primo sistemò attorno a una provetta uno strato di grasso umano, uno di pelle e uno di tessuto; avvicinato alla fiamma di un bunsen, una volta sciolto il grasso, l'involto bruciò autonomamente nel giro di un'ora. Nel secondo esperimento un cosciotto rivestito di cotone e collocato orizzontalmente bruciò lentamente lasciando solo l'osso calcinato e un mucchietto di ceneri[8]. Già dall'anno successivo alla pubblicazione, le conclusioni di Gee furono accolte in un testo di medicina legale in cui la combustione umana autosostenuta era definita "effetto candela" (in inglese wick effect) e classificata tra i processi che avvengono dopo la morte[9].
Nella sua tesi per il dottorato in antropologia presentata nel 1987, Guionnet ha raccolto 55 casi attribuiti all'autocombustione spontanea, riportati dalla fine del Seicento alla metà dell'Ottocento quando era stata eletta a teoria medica. Nella sua indagine, Bondeson ha raccolto 97 episodi di autocombustione umana descritti nella letteratura medica dal 1600 al 1900 e ha circoscritto a non più di 25 i casi degni di essere presi in considerazione, indicati in libri o nella stampa periodica durante il secolo trascorso.
Alcuni dati sono interessanti: nell'analisi di Bondeson la maggior parte dei casi di autocombustione ha riguardato donne (70 percento) ed è avvenuta in Francia (34 percento), seguita da Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. L'Italia non sembra essere ai primi posti, sebbene possa vantare il celebre episodio di combustione della contessa Bandi di Cesena, che fu descritto di fronte alla Royal Society nel 1731. Attualmente si ritiene che siano avvenute mediamente nel mondo una cinquantina di combustioni umane autosostenute. Si tratta di un fenomeno raro ma studiabile. Nel 2000, S. Gromb e un gruppo di ricercatori dell'ospedale universitario Pellegrin di Bordeax hanno illustrato su una rivista di medicina legale cinque casi di combustione umana (quattro donne e un uomo) avvenuti nella Francia orientale nei dodici anni precedenti[10]. In questi, come in altri episodi simili, solo alcune parti dei corpi erano completamente distrutte, mentre altre - inclusi i vestiti - erano intatte. Solo tre delle quattro donne descritte dai medici francesi erano corpulente ma in realtà, anche per i soggetti magri e apparentemente privi di tessuti adiposi, il grasso non è distribuito omogeneamente nel corpo ma localizzato in punti specifici. In quattro delle cinque vittime la zona andata in fumo era compresa tra il torace e le ginocchia (addome, bacino e area genitale), ossia i punti che - specialmente nelle donne - corrispondono di solito a dove il grasso è più concentrato. In tre vittime l'analisi del sangue non ha inoltre rilevato tracce di alcol: la stretta correlazione tra ubriachezza e combustione autosostenuta - che in passato si riteneva evidente per la presunta SHC - resta tutta da dimostrare, tranne per il fatto che l'alcol può favorire la pinguedine e questo può rendere maggiormente "combustibili" se si verifica un incidente.
Il ricercatore e esperto giudiziario Antoine Bagady ha potuto effettuare due perizie su vittime di autocombustione umana. Oltre a constatare che l'aspetto dei corpi si accordava a quanto previsto dall'effetto candela, Bagady ha osservato che, mentre la prima vittima era corpulenta e fortemente carbonizzata, la seconda era magra e molto carbonizzata solo in quelle parti del corpo (come le cosce e le natiche) che la letteratura medico-legale metteva in rapporto con un certo volume di grasso[11]. Una sperimentazione animale sistematica su carcasse e tessuti di maiale per verificare i dettagli della combustione umana autosostenuta è stata pubblicata nel 1999 sulla rivista Science & Justice da John DeHaan, del California Criminalistic Institute e da due collaboratori[12]. I ricercatori hanno dimostrato che i grassi corporei possono contribuire a sostenere una combustione innescata da una fonte di calore esterna che procede moderatamente se provvista di un adeguato "stoppino" e - se la massa combustibile non è troppo grande - produce un incendio sufficientemente piccolo da rimanere circoscritto ai resti umani senza propagarsi ad altri materiali infiammabili. In un differente esperimento la ricercatrice Angie M. Christensen, del Dipartimento di Antropologia dell'Università del Tennessee, ha dimostrato per la prima volta su un campione umano (un arto inferiore amputato) che il calore rilasciato dalla combustione era sufficientemente basso perché le fiamme rimanessero localizzate[13].
Una dimostrazione pratica degli esperimenti di DeHaan è stata compiuta nell'agosto 1998 dal programma televisivo QED, trasmesso dalla BBC[14]. Qui DeHaan, ha mostrato una combustione di un maiale avvolto in una coperta innescata dopo avervi versato una piccola quantità di benzina. Al termine della prova, durata cinque ore con fiamme basse, la parte toccata dal fuoco era completamente in cenere, incluse le ossa, mentre la stanza in cui era avvenuta la dimostrazione rimase relativamente intatta, tranne per lo scioglimento del rivestimento plastico di un televisore posto sopra un mobiletto alto. Nel 1991, DeHaan aveva investigato un caso di omicidio avvenuto negli USA, in cui una donna piuttosto corpulenta era stata distrutta nelle sue parti più carnose. Dopo l'arresto, gli assassini avevano confessato di aver cercato di bruciare il corpo versando su di esso mezzo litro di liquido per accendere il barbecue e appiccando il fuoco. Le prove che la combustione umana autosostenuta è un fenomeno naturale non spontaneo ma innescato dall'esterno riuscirà a persuadere tutti? Nuove teorie, alcune molto bizzarre, non sono mancate. Come in passato, solo la verifica sperimentale saprà dare ragione a chi propone queste ipotesi.
Andrea Albini
Collaboratore tecnico
presso l'Università di Pavia, dove si occupa di didattica
e dello studio di materiali per l'ingegneria elettrica
1) Faenzi, 2006
2) Cit. in Rouzé, 1987
3) Adelson, 1952, pp. 801-805
4) Il richiamo di Berzelius è in Bondeson, 1997, pp. 5-6; i riferimenti ai due articoli scientifici francesi sono in Bagady, 2002, p. 30, note 20 e 21
5) Dupuytren G., "Leçon sur la combustion dite spontanée", in La Lancette Française, 1830, vol. 97, n. 2, pp. 385-386. Cit. in Bagady, 2002, p. 30 6) Heilbron, 1994, p. 295 e 305-306
6) Sappiamo che perché un liquido si infiammi deve avere un'alta concentrazione di alcol, ma il corpo umano non può sopportare più di 3-4 grammi di alcol per litro di sangue prima che subentri il coma e la morte. Rouzé, 1987; Bagady, 2002
7) Adelson, 1952, pp. 804-806; Heilbron, 1994, p. 306; Bondeson, 1997, p. 13
8) Gee D.J., "A case of spontaneous combustion", in Medicine, Science and the Law, 1965, vol. 5, pp. 37-38. Cit. in Rouzé, 1987; Bagady, 2002; Gromb et al., 2000
9) Firth J.B. (1966), Medical Jurisprudence and Toxicology (12esima ediz. a cura di John Glaister Jr.), Edimburgo: Churchill Livingstone. Cit. in Bagady, 2002, p. 25, nota 6 e p. 31
10) Gromb et al., 2000
11) Bagady, 2002, pp. 28-29
12) DeHaan et al., 1999. Un ulteriore esperimento è stato pubblicato nel 2001: vedi DeHaan e Nurbakhsh, 2001
13) Christensen A.M., "Experiments in the combustibility of the human body", in Journal of Forensic Science, 2002, vol. 47, n. 2, pp. 466-470
14) "New light on human torch mystery" (news.bbc.co.uk/1/hi/uk/158853.stm ). "Wick effect" in en.wikipedia.org
Bibliografia
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- Bagady A., "Les combustions humaines: réalité biophysique ou mystére paranormal", Science et Pseudoscience, 2002, n. 253, pp. 24-31 (www.pseudo-sciences.org ).
- Benecke M., "Spontaneous human combustion. Thoughts of a forensic biologist", in Skeptical Inquirer, mar./apr. 1998, pp. 47-51.
- Bondeson J. (1997), A Cabinet of Medical Curiosity, Londra e New York: Norton, pp. 1-25.
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- DeHaan J.D., Campbell S.J., Nurbakhsh S., "Combustion of animal fat and its implications for the consumption of human bodies in fires", in Science & Justice, 1999, vol. 39, n. 1, pp. 27-38.
- DeHann J.D., Nurbakhsh S., "Sustained combustion of an animal carcass and its implications for the consumption of human bodies in fire", in Journal of Forensic Science, 2001, vol. 46, n. 5, pp. 1076-1081.
- Faenzi V. (2006), Sull'origine delle montagne, Verbania: Tararà Edizioni.
- Gromb S., Lavigne X., Kerautret G., Grosleron-Gros N., Dabadie P., "Spontaneuous human combustion: a sometimes incomprehensible phenomenon", in Journal of Clinical Forensic Medicine, 2000, vol. 7, pp. 29-31.
- Heilbron J.L., "The affair of the countess Görlitz", in Proceedings of the American Philosophical Society, 1994, vol. 138, n. 2, pp. 284-316.
- Nickell J. (1988), Secrets of the Supernatural, Buffalo (N.Y.): Prometheus Books, pp. 149-157.
- Nickell J., "Fiery tales that spontaneously destruct", in Skeptical Inquirer, marzo/aprile 1998, pp. 15-17 e 62.
- Nickell J., "Indagine su un caso di SHC", in S&P n. 69, 2006, pp. 26-30.
- Polidoro M., "Chi gioca col fuoco...", in S&P n. 69, 2006, pp. 20-24.
- Rouzé M., "La combustion spontanée du corps humain: mythe ou réalité?", in Science et Pseudoscience, 1987, n. 168 (www.pseudo-sciences.org ).