Secondo i libri di scuola, la pila di Volta è stato il primo generatore di energia elettrica continua mai realizzato. Il primo esemplare fu costruito nel 1799 e presentato il 20 marzo del 1800 attraverso una lettera che Alessandro Volta scrisse all’allora presidente della Royal Society di Londra.
Ma alcuni reperti storici sembrano dimostrare che la pila fosse già stata scoperta molto tempo prima dai Parti, addirittura tra il 200 a.C e il 200 d.C.
Nel 1936, durante alcuni scavi presso Baghdad, precisamente a Khuyut Rabbou’a, venne rinvenuto un oggetto misterioso: una piccola anfora in argilla gialla, di forma ovoidale, lunga circa 15 centimetri, chiusa da un coperchio di bitume (una specie di asfalto) impermeabilizzante.
All’interno, tenuto bloccato dal bitume sia sopra che sotto, vi era un cilindro di rame, lungo 9 centimetri e largo 26 millimetri. All’interno del cilindro in rame, sempre tenuto fermo dal bitume, vi era una barra di ferro.
Per chi conosce il meccanismo di una pila a secco, il paragone è inevitabile: un oggetto di 2000 anni fa poteva benissimo essere una batteria, in grado di fornire energia elettrica!
Il primo a notare la somiglianza, un paio di anni dopo il ritrovamento, fu Wilhelm König, secondo alcune fonti direttore del Museo Iracheno di Baghdad, secondo altre un semplice lavoratore del museo: «dai suoi costituenti e dalla loro disposizione si potrebbe pensare che esso sia una specie di elemento galvanico o di batteria». Ma è solo grazie a Erich von Däniken e Peter Kolosimo che la teoria che l’elettricità fosse già disponibile nell’antica Persia si diffuse in modo acritico.
Com’è fatta una batteria? La pila di Daniell, quella il cui funzionamento più ricorda il reperto di Baghdad, è composta da due elettrodi immersi in opportune soluzioni, separati da un setto poroso. Nella pila a secco questa configurazione si può ottenere anche con una bacchetta di carbone circondata da un cilindro di zinco, entrambi tenuti fermi da pece nera. Intorno vi sono soluzioni gelificate di particolari composti.
Due diverse reazioni, che avvengono tra gli elettrodi e gli elettroliti (le sostanze disciolte nel liquido o nel gel in cui sono immersi), generano corrente. In sostanza, qualsiasi oggetto composto da metalli diversi può fungere da rudimentale pila se immerso in una opportuna soluzione acidula.
Numerosi sono stati i tentativi di riprodurre la configurazione del reperto e utilizzarlo come pila. Nemmeno i chimici sono concordi nell'ipotizzare che tipo di elettrolita potesse essere presente nella cella, in quanto per ottenere l'ossidazione del ferro e lo sviluppo di idrogeno dall’elettrolita si dovrebbero impiegare acidi forti, all’epoca sconosciuti[1].
Per esempio, nel 1963, l’ingegnere americano W.F.M. Gray[2] provò a usare una soluzione di solfato di rame (non noto all’epoca), dimostrando che, seppur per breve tempo, la pila era in grado di generare corrente. Jansen et al., invece, usarono il benzochinone, sostanza che si può ottenere dalle secrezioni di alcuni coleotteri, mescolandolo con l’aceto.
Anche lo scettico francese Henri Broch[3], professore di biofisica teoretica presso l’Università di Nizza Sophia Antipolis, accetta questa ipotesi, e ha provato a costruire un oggetto simile capace di generare una lieve differenza di potenziale[4].
Tuttavia, bisogna notare che i vari tentativi di riprodurre il reperto e farlo agire come batteria non funzionano molto bene perché manca un meccanismo di separazione tra gli elettroliti che reagiscono con i due elettrodi, come potrebbe essere un setto poroso o una gelatina. Inoltre, per far sì che la pila funzioni per più di qualche minuto e ottenere una corrente di intensità ragionevole bisognerebbe collegarne molte fra loro. Ad ogni modo, almeno in teoria, la possibilità che l’oggetto fosse effettivamente una rudimentale pila esiste, e non è al di fuori delle disponibilità tecniche del tempo.
Ma a cosa poteva servire una batteria 2000 anni fa? Secondo König e i sostenitori della teoria, con quella pila (anzi, con molte di quelle pile, collegate tra loro) sarebbero state eseguite elettroplaccature in oro. L’ipotesi deriva dall’aver trovato, sulle pareti interne di altri vasi di rame, riportati alla luce in Iraq e risalenti al 2500 a.C., una sottile patina bluastra che corrispondeva a uno strato placcato d’oro. Il metodo della placcatura consiste nel sospendere, con un filo metallico, l’oggetto da dorare in un bagno di sali cianidrici d’oro contenuti in un vaso poroso, il quale deve essere immerso a sua volta in un bagno di acqua salata, dove è immersa una lamina di zinco, collegata tramite il conduttore metallico all’oggetto da dorare. Durante il processo chimico che si sviluppa, l’oro metallico si deposita sull’oggetto. Una tecnica di questo tipo fu brevettata nel 1839 in Inghilterra, con la differenza che la pila di Baghdad è fatta utilizzando ferro invece che zinco, e quest’ultimo è molto più facile da ossidare rispetto al ferro. Inoltre, i sali cianidrici, costituiti da cianuro e oro, per quanto ne sappiamo non erano conosciuti all’epoca. Infine, questo è l’unico esemplare assemblato che sia stato trovato, mentre, come già detto, per ottenere una corrente non trascurabile sarebbero state necessarie molte pile collegate tra loro, e il reperto non presenta punti dove potessero essere collegati fili metallici.
L’ipotesi della batteria, dunque, sembra un po’ forzata e non è, come sostengono alcuni, l’unica possibile circa il misterioso oggetto. Questo, infatti, somiglia anche a dei contenitori di papiri che sono stati ritrovati in Seleucia.
Spesso i metalli erano utilizzati come simbolo delle divinità, il che spiegherebbe la presenza dei cilindri in rame e ferro all’interno del vaso. Broch, pur accettando l’ipotesi della batteria, sostiene che, se pur i Parti avessero conosciuto l’elettricità 2000 anni fa, questo non fa di loro un popolo “fuori dal tempo” dal punto di vista tecnologico. Non sono state ritrovate cronache, citazioni o dipinti dell’oggetto che possano far propendere per l’ipotesi di un suo uso come batteria. Si potrebbe piuttosto trattare di una scoperta, probabilmente casuale e isolata, che non ha portato a conseguenze pratiche di rilievo, dato che non è stato trovato alcun manufatto che potesse sfruttare la (scarsa) elettricità prodotta dalla pila. Per fare un esempio riguardante un altro popolo, gli storici concordano sul fatto che gli antichi Greci conoscessero la forza del vapore, ma, pur trattandosi di una scoperta promettente, non la sfruttarono per costruire treni o macchine industriali, ma solo per produrre piccole curiosità.
Costruire una pila come quella di cui abbiamo parlato in questo articolo non è difficile e potete provarci anche voi[5]. Collegate un filo elettrico a un pezzo di ferro, posto in un bicchiere di aceto (o di soluzione di solfato di rame). Otterrete così il primo elettrodo. Prendete quindi un secondo filo elettrico e togliete per qualche centimetro la plastica che lo avvolge, in modo da ottenere l’elettrodo di rame.
Con un tester potete verificare che si ottiene una corrente di qualche milliampere (molto bassa quindi), che varierà se provate a usare soluzioni diverse come elettroliti.
Ma alcuni reperti storici sembrano dimostrare che la pila fosse già stata scoperta molto tempo prima dai Parti, addirittura tra il 200 a.C e il 200 d.C.
Nel 1936, durante alcuni scavi presso Baghdad, precisamente a Khuyut Rabbou’a, venne rinvenuto un oggetto misterioso: una piccola anfora in argilla gialla, di forma ovoidale, lunga circa 15 centimetri, chiusa da un coperchio di bitume (una specie di asfalto) impermeabilizzante.
All’interno, tenuto bloccato dal bitume sia sopra che sotto, vi era un cilindro di rame, lungo 9 centimetri e largo 26 millimetri. All’interno del cilindro in rame, sempre tenuto fermo dal bitume, vi era una barra di ferro.
Per chi conosce il meccanismo di una pila a secco, il paragone è inevitabile: un oggetto di 2000 anni fa poteva benissimo essere una batteria, in grado di fornire energia elettrica!
Il primo a notare la somiglianza, un paio di anni dopo il ritrovamento, fu Wilhelm König, secondo alcune fonti direttore del Museo Iracheno di Baghdad, secondo altre un semplice lavoratore del museo: «dai suoi costituenti e dalla loro disposizione si potrebbe pensare che esso sia una specie di elemento galvanico o di batteria». Ma è solo grazie a Erich von Däniken e Peter Kolosimo che la teoria che l’elettricità fosse già disponibile nell’antica Persia si diffuse in modo acritico.
Com’è fatta una batteria? La pila di Daniell, quella il cui funzionamento più ricorda il reperto di Baghdad, è composta da due elettrodi immersi in opportune soluzioni, separati da un setto poroso. Nella pila a secco questa configurazione si può ottenere anche con una bacchetta di carbone circondata da un cilindro di zinco, entrambi tenuti fermi da pece nera. Intorno vi sono soluzioni gelificate di particolari composti.
Due diverse reazioni, che avvengono tra gli elettrodi e gli elettroliti (le sostanze disciolte nel liquido o nel gel in cui sono immersi), generano corrente. In sostanza, qualsiasi oggetto composto da metalli diversi può fungere da rudimentale pila se immerso in una opportuna soluzione acidula.
Numerosi sono stati i tentativi di riprodurre la configurazione del reperto e utilizzarlo come pila. Nemmeno i chimici sono concordi nell'ipotizzare che tipo di elettrolita potesse essere presente nella cella, in quanto per ottenere l'ossidazione del ferro e lo sviluppo di idrogeno dall’elettrolita si dovrebbero impiegare acidi forti, all’epoca sconosciuti[1].
Per esempio, nel 1963, l’ingegnere americano W.F.M. Gray[2] provò a usare una soluzione di solfato di rame (non noto all’epoca), dimostrando che, seppur per breve tempo, la pila era in grado di generare corrente. Jansen et al., invece, usarono il benzochinone, sostanza che si può ottenere dalle secrezioni di alcuni coleotteri, mescolandolo con l’aceto.
Anche lo scettico francese Henri Broch[3], professore di biofisica teoretica presso l’Università di Nizza Sophia Antipolis, accetta questa ipotesi, e ha provato a costruire un oggetto simile capace di generare una lieve differenza di potenziale[4].
Tuttavia, bisogna notare che i vari tentativi di riprodurre il reperto e farlo agire come batteria non funzionano molto bene perché manca un meccanismo di separazione tra gli elettroliti che reagiscono con i due elettrodi, come potrebbe essere un setto poroso o una gelatina. Inoltre, per far sì che la pila funzioni per più di qualche minuto e ottenere una corrente di intensità ragionevole bisognerebbe collegarne molte fra loro. Ad ogni modo, almeno in teoria, la possibilità che l’oggetto fosse effettivamente una rudimentale pila esiste, e non è al di fuori delle disponibilità tecniche del tempo.
Ma a cosa poteva servire una batteria 2000 anni fa? Secondo König e i sostenitori della teoria, con quella pila (anzi, con molte di quelle pile, collegate tra loro) sarebbero state eseguite elettroplaccature in oro. L’ipotesi deriva dall’aver trovato, sulle pareti interne di altri vasi di rame, riportati alla luce in Iraq e risalenti al 2500 a.C., una sottile patina bluastra che corrispondeva a uno strato placcato d’oro. Il metodo della placcatura consiste nel sospendere, con un filo metallico, l’oggetto da dorare in un bagno di sali cianidrici d’oro contenuti in un vaso poroso, il quale deve essere immerso a sua volta in un bagno di acqua salata, dove è immersa una lamina di zinco, collegata tramite il conduttore metallico all’oggetto da dorare. Durante il processo chimico che si sviluppa, l’oro metallico si deposita sull’oggetto. Una tecnica di questo tipo fu brevettata nel 1839 in Inghilterra, con la differenza che la pila di Baghdad è fatta utilizzando ferro invece che zinco, e quest’ultimo è molto più facile da ossidare rispetto al ferro. Inoltre, i sali cianidrici, costituiti da cianuro e oro, per quanto ne sappiamo non erano conosciuti all’epoca. Infine, questo è l’unico esemplare assemblato che sia stato trovato, mentre, come già detto, per ottenere una corrente non trascurabile sarebbero state necessarie molte pile collegate tra loro, e il reperto non presenta punti dove potessero essere collegati fili metallici.
L’ipotesi della batteria, dunque, sembra un po’ forzata e non è, come sostengono alcuni, l’unica possibile circa il misterioso oggetto. Questo, infatti, somiglia anche a dei contenitori di papiri che sono stati ritrovati in Seleucia.
Spesso i metalli erano utilizzati come simbolo delle divinità, il che spiegherebbe la presenza dei cilindri in rame e ferro all’interno del vaso. Broch, pur accettando l’ipotesi della batteria, sostiene che, se pur i Parti avessero conosciuto l’elettricità 2000 anni fa, questo non fa di loro un popolo “fuori dal tempo” dal punto di vista tecnologico. Non sono state ritrovate cronache, citazioni o dipinti dell’oggetto che possano far propendere per l’ipotesi di un suo uso come batteria. Si potrebbe piuttosto trattare di una scoperta, probabilmente casuale e isolata, che non ha portato a conseguenze pratiche di rilievo, dato che non è stato trovato alcun manufatto che potesse sfruttare la (scarsa) elettricità prodotta dalla pila. Per fare un esempio riguardante un altro popolo, gli storici concordano sul fatto che gli antichi Greci conoscessero la forza del vapore, ma, pur trattandosi di una scoperta promettente, non la sfruttarono per costruire treni o macchine industriali, ma solo per produrre piccole curiosità.
Costruire una pila come quella di cui abbiamo parlato in questo articolo non è difficile e potete provarci anche voi[5]. Collegate un filo elettrico a un pezzo di ferro, posto in un bicchiere di aceto (o di soluzione di solfato di rame). Otterrete così il primo elettrodo. Prendete quindi un secondo filo elettrico e togliete per qualche centimetro la plastica che lo avvolge, in modo da ottenere l’elettrodo di rame.
Con un tester potete verificare che si ottiene una corrente di qualche milliampere (molto bassa quindi), che varierà se provate a usare soluzioni diverse come elettroliti.
Note
1) Paszthory E. Electricity generation or Magic? The analysis of an unusual group of finds from Mesopotamia. MASCA Research Papers in Science and Technology 6:31-8 (1989).
2) Gray, W. F. M., A Shocking Discovery, J. of Electroch. Soc. 110 (9), 210C-211C (1963).
3) Henri Broch è anche fondatore del Laboratorio di Zetetica, un centro di ricerca presso l'Università di Nizza Sophia Antipolis, dedito alla verifica sperimentale dei fenomeni paranormali e alla diffusione del metodo scientifico e della zetetica, definita “l'arte del dubbio”.
4) Broch, H. Au Coeur de l'extra-ordinaire. L'Horizon Chimérique, 1991, 66-68.