La verità di un’affermazione non ha niente a che vedere con la sua credibilità, e viceversa, recita una delle leggi di Murphy, nota anche come legge di Parker quando riguarda le affermazioni politiche. Idealmente, per prendere delle decisioni consapevoli e basate su informazioni accurate, tipiche di una società democratica, non dovremmo prestare fede ad affermazioni o teorie che non risultino adeguatamente sostenute dai fatti. Tuttavia, i nostri giudizi possono essere influenzati dalla percezione soggettiva della credibilità della fonte da cui riceviamo l’informazione.
Numerosi studi condotti in ambito comunicativo hanno dimostrato come tale percezione dipenda dalla valutazione simultanea di molteplici dimensioni, tra cui le più importanti risultano essere l’affidabilità e la competenza della fonte. Affinché una fonte venga considerata affidabile, deve essere percepita come sincera, degna di fiducia e ben intenzionata. Il giudizio sulla competenza della fonte ha a che fare invece con il livello di conoscenza ed esperienza che le si riconosce rispetto al messaggio che veicola. Tali dimensioni possono combinarsi in vario modo dando origine a diverse valutazioni ma, in linea generale, l’impatto persuasivo della fonte di comunicazione è maggiore se questa viene percepita come sia affidabile che competente.
Gli studiosi hanno a lungo dibattuto su quale delle due dimensioni, l’affidabilità o la competenza della fonte comunicativa, esercitasse un maggiore effetto persuasivo. Secondo le rassegne degli studi disponibili sull’argomento fino ai primi anni ’60 (Anderson e Clevenger, 1963; McGuire, 1969) sarebbe la competenza del locutore, nei termini delle conoscenze possedute, del livello educativo e dello status sociale, ad influenzare maggiormente le inferenze sulla sua credibilità, mentre l’effetto dell’affidabilità percepita sarebbe di gran lunga minore o quasi del tutto assente. Alcune evidenze più recenti sembrano però smentire queste prime conclusioni. McGinnies e Ward (1980) utilizzarono diverse fonti ad alta o bassa affidabilità e competenza per determinare il relativo effetto persuasivo di ciascuna dimensione e delle loro diverse combinazioni. Sebbene, prevedibilmente, la condizione che influenzava maggiormente le opinioni delle persone fosse quella in cui la fonte di comunicazione era caratterizzata sia da un’elevata affidabilità che da un’elevata competenza, in generale la fonte più persuasiva risultava essere quella di cui le persone si fidavano di più, a prescindere dalla sua competenza. Da qui il titolo del loro articolo Better liked than right, che tradotto in italiano suonerebbe pressappoco come Meglio (essere) apprezzati che dire la verità.
All’Università di Edimburgo, abbiamo studiato l’effetto persistente della disinformazione, rilevando come le false credenze sui vaccini possano essere più efficacemente corrette da fonti considerate dagli studenti come affidabili (ad esempio, gli amici o la famiglia) piuttosto che esperte (ad esempio, i dottori). Nello specifico, i partecipanti leggevano una storia su un bambino che, a seguito di una vaccinazione contro una malattia fittizia da noi chiamata Brainpox, i cui sintomi e conseguenze venivano descritti come gravi e preoccupanti, sviluppava l’ADHD, ovvero il disturbo da deficit dell’attenzione o iperattività che comporta difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività. Nella storia si faceva riferimento ad un possibile collegamento tra il vaccino e l’ADHD. I partecipanti venivano attribuiti casualmente ad una condizione di controllo in cui questa voce non veniva smentita o ad una delle due condizioni sperimentali in cui una fonte ad alta o bassa competenza (rispettivamente, il sito della British Association of General Paediatrics o personaggi celebri) o ad alta o bassa affidabilità (rispettivamente, la famiglia e gli amici o un programma televisivo) smentivano chiaramente ogni nesso causale tra il vaccino e l’ADHD. I partecipanti erano chiamati poi a rispondere ad alcune domande aperte che sollecitavano inferenze e giudizi personali sulla storia che avevano appena letto (ad esempio, se la decisione di vaccinare il bambino fosse stata giusta o meno o se i genitori avevano avuto un qualche ruolo nello sviluppo del disturbo d’attenzione del bambino) e indicavano altresì la probabilità con la quale avrebbero vaccinato il loro figlio contro la Brainpox. Ciò che è emerso è che l’effetto persistente della disinformazione, in questo caso il riferimento ad un nesso causale tra il vaccino e l’ADHD, si associava sistematicamente ad una minore intenzione vaccinale a prescindere dalla credibilità della fonte della smentita. Inoltre, la convinzione che il vaccino e l’ADHD fossero in qualche modo collegati era ugualmente presente nelle risposte dei soggetti che ricevevano una correzione da una fonte molto o poco competente, mentre era minore nel caso di una fonte affidabile rispetto ad una poco affidabile, come ad indicare che ci facciamo convincere della sicurezza dei vaccini più da coloro di cui ci fidiamo che dagli esperti; quindi la formula vincente è un esperto di cui ci fidiamo. D’altronde, come sottolineano Myers e Pineda, il calo vaccinale che si sta sperimentando in svariati paesi ha a che fare fondamentalmente con un problema di fiducia; ad esempio, anche se la comunità scientifica dichiara che, in ragione delle numerosissime evidenze esistenti, non vi è alcun legame tra il vaccino MPR contro il morbillo, la parotite e la rosolia e l’autismo, i genitori hanno bisogno di sentirsi rassicurati da una persona di cui si fidano e che dica loro chiaramente che le due cose non sono connesse.
Risultati analoghi provengono da studi che hanno indagato la persistenza della disinformazione in ambito politico. Ad esempio, gli esperimenti condotti da Guillory e Geraci hanno dimostrato come la sola competenza della fonte comunicativa non sia sufficiente a modificare le opinioni negative dei partecipanti circa un candidato politico fittizio, la cui integrità veniva inizialmente messa in dubbio e poi restaurata. Invece, una fonte percepita come degna di fiducia riusciva a dipanare i dubbi dei partecipanti sull’onestà del candidato ed influenzava positivamente le loro intenzioni di votare per lui alle elezioni. Similmente, Swire e colleghi hanno dimostrato come le persone si lascino convincere della veracità di alcune informazioni, anche se palesemente inaccurate, se queste provengono da fonti da loro considerate affidabili. In alcuni esperimenti condotti prima delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, elettori sia Repubblicani che Democratici venivano chiamati ad esprimere il loro parere circa alcune affermazioni fatte dall’attuale Presidente Donald Trump durante la sua campagna elettorale. Alcune di queste erano vere, come ad esempio il fatto che l’America avesse speso 2 trilioni di dollari nella guerra in Iraq, mentre altre affermazioni erano false, come l’esistenza di un nesso causale tra vaccini ed autismo. L’aspetto interessante è che gli elettori Democratici rimanevano scettici nei confronti di affermazioni vere come quelle sul bilancio della guerra, se queste venivano attribuite al Presidente Trump rispetto ad una fonte non specificata. Specularmente, i Repubblicani tendevano a credere maggiormente ad affermazioni false come quella sui vaccini, se queste provenivano da una fonte per loro affidabile come il Presidente Trump o, anche se si convincevano del contrario, ovvero che ciò che aveva detto il Presidente Trump era sbagliato, si dichiaravano comunque decisi a votare per lui. Si tratta di un effetto noto in psicologia come bias di conferma, per cui si conferisce maggiore credibilità ad affermazioni che rinforzano le proprie convinzioni preesistenti, mentre si ignorano quelle che le contraddicono. Per questo, anche di fronte a prove contrarie, preserviamo le nostre convinzioni. Come ci spiegano chiaramente Ross e Anderson, le credenze possono sopravvivere a potenti sfide logiche o empiriche. Esse possono sopravvivere, e persino essere rafforzate, da prove che, per osservatori più distaccati, le dovrebbero indebolire. Queste credenze possono anche sopravvivere alla distruzione totale delle loro basi probatorie originali.
Oltre all’affidabilità e alla competenza, altri fattori concorrono a determinare la credibilità della fonte. Ad esempio, lo psicologo Leonard Bickman ha dimostrato il potenziale persuasivo esercitato dalle fonti autorevoli. In un esperimento condotto nel 1974, persone che indossavano un’uniforme da guardia giurata o vestite in borghese chiedevano ad alcuni passanti di compiere azioni alquanto bizzarre, come raccogliere un sacchetto per terra al loro posto o dare delle monetine a un uomo fermo davanti ad un parchimetro. Indipendentemente da ciò che veniva chiesto, le persone risultavano più condiscendenti quando colui dal quale ricevevano l’ordine era vestito in uniforme. Naturalmente in questo caso trattandosi di ordini, in gioco c’è anche l’obbedienza oltre la persuasione, e si può (talvolta si deve) obbedire a un ordine anche se non si è persuasi della sua bontà o utilità. Altri studi hanno evidenziato l’importanza delle caratteristiche fisiche della fonte, per cui risulta più convincente una fonte considerata attraente, nonché la sua familiarità e somiglianza rispetto alla persona che riceve il messaggio, caratteristiche che favoriscono meccanismi di identificazione. Sono tutti principi che il mondo del marketing conosce molto bene e che sfrutta accostando le marche a testimonial celebri, con i quali il pubblico si identifica e che stima.
Non bisogna tuttavia trascurare che l’attribuzione di credibilità ad una certa fonte comunicativa è determinata non solo dalle qualità proprie della fonte ma anche dalle caratteristiche dei destinatari. Ad esempio, i tratti di personalità, lo stile cognitivo, la maggiore o minore propensione alla fiducia o al sospetto, le precedenti esperienze con una certa fonte, nonché le risorse cognitive che si intendono dedicare al messaggio, sono tutti elementi che influenzano la percezione della credibilità della fonte e il suo potenziale persuasivo.
I processi di valutazione della credibilità assumono oggi una particolare rilevanza in riferimento alla rete e ai media digitali, che forniscono una miriade di informazioni di facile reperibilità e di diversa attendibilità per sollecitare le più svariate decisioni, dall’acquisto di prodotti o servizi alla richiesta di diagnosi mediche o psicologiche online. Con la diffusione del Web 2.0 e la partecipazione interattiva degli utenti alla pubblicazione di contenuti, si è verificata un’orizzontalizzazione del sapere per cui alcuni pensano che consultando molti siti diventano a loro modo degli esperti, ma quei siti potrebbero non presentare affermazioni attendibili o verificabili; gli utenti più vulnerabili potrebbero proprio essere coloro che hanno maggiore sfiducia nei confronti delle fonti ‘istituzionali’. Per la comprensione di un certo argomento è indispensabile conoscere in maniera approfondita un metodo che permetta di maturare un senso critico verso ciò che si legge. Un ulteriore aspetto problematico è legato al fatto che le persone tendono ad avere relazioni amicali e sentimentali con quelli che la pensano come loro (sia in rete che nel mondo reale) e che la somiglianza è un buon predittore della stabilità delle relazioni; gli utenti tendono a selezionare e condividere contenuti provenienti da fonti che rinforzano le loro opinioni e credenze, creando nicchie di simil-pensiero che facilitano la polarizzazione delle idee e la diffusione di teorie complottiste. Ne è un chiaro esempio la diffusione online di gruppi antivaccinisti.
Si potrebbe pensare che i giovani di oggi, i cosiddetti nativi digitali, siano indenni da queste trappole grazie alla familiarità ed abilità tecnica che dimostrano nei confronti delle nuove tecnologie. Sfortunatamente, è vero il contrario. Alcuni studi hanno dimostrato difatti come i più giovani siano consumatori passivi di informazioni, in quanto tendono a fidarsi della bontà dei contenuti trovati sul web, manifestando scarsa capacità di riflessione critica. Ad esempio, Metzger e colleghi hanno esaminato la capacità dei giovani di valutare correttamente le fonti online, riscontrando in particolare come coloro con una maggiore necessità di capire e dare un senso al mondo (una tendenza che prende il nome di need for cognition) e con una più spiccata flessibilità ed apertura mentale ricorressero più frequentemente a specifiche euristiche nella valutazione dell’informazione digitale. Tuttavia, sorprendentemente, i ragazzi che dichiaravano di essere più allenati nella valutazione delle fonti online, e che di fatto impiegavano maggiormente strategie analitiche nelle loro valutazioni, erano anche quelli che credevano più facilmente alle bufale riportate nei siti. Secondo gli autori dello studio, questi risultati sottolineano come i più giovani utilizzino acriticamente le strategie che hanno appreso senza capirne il vero significato. Risulta quindi necessario un percorso media-educativo con un approccio diverso, focalizzato sull’acquisizione di un metodo critico e su forme di riflessività più profonde, piuttosto che sul mero apprendimento di euristiche e strategie mentali. È difatti quello che si propone lo storico Sam Wineburg insieme al suo gruppo di ricerca dell’Università di Stanford, ideando un percorso educativo (gratuito ed accessibile online seguendo il link http://sheg.stanford.edu ) per apprendere a leggere come uno storico (reading like a historian), ovvero a valutare criticamente le fonti ponendosi domande relative all’autore che scrive, al contesto in cui scrive e all’esistenza di ulteriori evidenze a supporto di ciò che scrive. Riuscire a distinguere i fatti dalle opinioni non è facile, perché spesso si assomigliano così tanto che si confondono, esattamente come capita nel film Inside Out ai personaggi Gioia e Tristezza scontrando due scatoloni che contengono i fatti e le opinioni e confondendone i contenuti. Allo stesso modo, i giudizi di credibilità risentono dell’effetto di livellamento operato dai media, che appiattiscono il valore dei fatti mischiando informazioni attendibili e non attendibili.
A complicare ancor più le cose, secondo lo psicologo cognitivo Stephan Lewandowsky, quando riceviamo per la prima volta un’informazione tendiamo a credere che questa sia vera ed anzi per comprenderla adeguatamente dobbiamo almeno parzialmente accettare che sia vera. Difatti, valutare la credibilità della fonte da cui proviene è cognitivamente più dispendioso rispetto alla mera presunzione di verità; richiede un maggiore sforzo attentivo, il richiamare in memoria fatti che già conosciamo e in cui crediamo e il confrontarli con quello che abbiamo appena appreso. Per evitare tutto ciò, siamo portati a compiere per così dire un atto di fede, piuttosto che ad adottare una posizione di sano scetticismo. Ma la scienza non è il dominio delle credenze e delle opinioni. Gli scienziati possono raccogliere i fatti, le evidenze, in modi diversi ma, a prescindere dalla metodologia utilizzata, sottopongono i loro dati ad un attento scrutinio assumendo una tipica disposizione che il sociologo Robert K. Merton ha definito scetticismo organizzato; ovvero, nell’analisi di questi dati partono da una posizione di scrupoloso dubbio ed assumono quest’atteggiamento di incredulità in modo sistematico ed in gruppo.
Per la maggior parte di noi, risulta molto difficile valutare la credibilità delle evidenze scientifiche, così come lo è per molti scienziati fuori dal loro campo di specializzazione. Per tale motivo, occorre rivolgersi ad esperti che aiutino a separare i fatti dalle false informazioni divulgate da fonti di dubbia credibilità. Diventa ancor più importante, quindi, l’acquisizione di uno strumentario metodologico alla base delle scelte che effettuiamo, che permetta di valutare con riflessività critica la credibilità delle informazioni che riceviamo.
Un esperimento pioneristico nell’ambito della credibilità delle fonti è quello di Hovland e Weiss del 1951 nel quale i partecipanti, tutti cittadini degli USA, venivano esposti ad una serie di affermazioni su temi contestati, provenienti da fonti più o meno credibili.
Per esempio, vi era un’affermazione in cui si sosteneva l’utilità di fabbricare sottomarini atomici; ad alcune persone venne riferito che il messaggio proveniva da una figura di grande credibilità, il fisico atomico J. Robert Oppenheimer, mentre ad altre venne detto che si trattava della Pravda, il giornale ufficiale del partito comunista, una fonte ritenuta poco attendibile. I ricercatori misurarono gli atteggiamenti dei partecipanti rispetto al tema del messaggio prima dell’esperimento, subito dopo, e a distanza di alcune settimane, riscontrando come le fonti ritenute molto credibili producevano cambiamenti più rilevanti rispetto a quelle poco credibili.
Tuttavia, con il passare del tempo tale effetto si affievoliva; le persone tendevano a ricordare in modo dissociato il messaggio e la fonte da cui esso proveniva e tornavano alle loro opinioni originali.
Numerosi studi condotti in ambito comunicativo hanno dimostrato come tale percezione dipenda dalla valutazione simultanea di molteplici dimensioni, tra cui le più importanti risultano essere l’affidabilità e la competenza della fonte. Affinché una fonte venga considerata affidabile, deve essere percepita come sincera, degna di fiducia e ben intenzionata. Il giudizio sulla competenza della fonte ha a che fare invece con il livello di conoscenza ed esperienza che le si riconosce rispetto al messaggio che veicola. Tali dimensioni possono combinarsi in vario modo dando origine a diverse valutazioni ma, in linea generale, l’impatto persuasivo della fonte di comunicazione è maggiore se questa viene percepita come sia affidabile che competente.
Gli studiosi hanno a lungo dibattuto su quale delle due dimensioni, l’affidabilità o la competenza della fonte comunicativa, esercitasse un maggiore effetto persuasivo. Secondo le rassegne degli studi disponibili sull’argomento fino ai primi anni ’60 (Anderson e Clevenger, 1963; McGuire, 1969) sarebbe la competenza del locutore, nei termini delle conoscenze possedute, del livello educativo e dello status sociale, ad influenzare maggiormente le inferenze sulla sua credibilità, mentre l’effetto dell’affidabilità percepita sarebbe di gran lunga minore o quasi del tutto assente. Alcune evidenze più recenti sembrano però smentire queste prime conclusioni. McGinnies e Ward (1980) utilizzarono diverse fonti ad alta o bassa affidabilità e competenza per determinare il relativo effetto persuasivo di ciascuna dimensione e delle loro diverse combinazioni. Sebbene, prevedibilmente, la condizione che influenzava maggiormente le opinioni delle persone fosse quella in cui la fonte di comunicazione era caratterizzata sia da un’elevata affidabilità che da un’elevata competenza, in generale la fonte più persuasiva risultava essere quella di cui le persone si fidavano di più, a prescindere dalla sua competenza. Da qui il titolo del loro articolo Better liked than right, che tradotto in italiano suonerebbe pressappoco come Meglio (essere) apprezzati che dire la verità.
All’Università di Edimburgo, abbiamo studiato l’effetto persistente della disinformazione, rilevando come le false credenze sui vaccini possano essere più efficacemente corrette da fonti considerate dagli studenti come affidabili (ad esempio, gli amici o la famiglia) piuttosto che esperte (ad esempio, i dottori). Nello specifico, i partecipanti leggevano una storia su un bambino che, a seguito di una vaccinazione contro una malattia fittizia da noi chiamata Brainpox, i cui sintomi e conseguenze venivano descritti come gravi e preoccupanti, sviluppava l’ADHD, ovvero il disturbo da deficit dell’attenzione o iperattività che comporta difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività. Nella storia si faceva riferimento ad un possibile collegamento tra il vaccino e l’ADHD. I partecipanti venivano attribuiti casualmente ad una condizione di controllo in cui questa voce non veniva smentita o ad una delle due condizioni sperimentali in cui una fonte ad alta o bassa competenza (rispettivamente, il sito della British Association of General Paediatrics o personaggi celebri) o ad alta o bassa affidabilità (rispettivamente, la famiglia e gli amici o un programma televisivo) smentivano chiaramente ogni nesso causale tra il vaccino e l’ADHD. I partecipanti erano chiamati poi a rispondere ad alcune domande aperte che sollecitavano inferenze e giudizi personali sulla storia che avevano appena letto (ad esempio, se la decisione di vaccinare il bambino fosse stata giusta o meno o se i genitori avevano avuto un qualche ruolo nello sviluppo del disturbo d’attenzione del bambino) e indicavano altresì la probabilità con la quale avrebbero vaccinato il loro figlio contro la Brainpox. Ciò che è emerso è che l’effetto persistente della disinformazione, in questo caso il riferimento ad un nesso causale tra il vaccino e l’ADHD, si associava sistematicamente ad una minore intenzione vaccinale a prescindere dalla credibilità della fonte della smentita. Inoltre, la convinzione che il vaccino e l’ADHD fossero in qualche modo collegati era ugualmente presente nelle risposte dei soggetti che ricevevano una correzione da una fonte molto o poco competente, mentre era minore nel caso di una fonte affidabile rispetto ad una poco affidabile, come ad indicare che ci facciamo convincere della sicurezza dei vaccini più da coloro di cui ci fidiamo che dagli esperti; quindi la formula vincente è un esperto di cui ci fidiamo. D’altronde, come sottolineano Myers e Pineda, il calo vaccinale che si sta sperimentando in svariati paesi ha a che fare fondamentalmente con un problema di fiducia; ad esempio, anche se la comunità scientifica dichiara che, in ragione delle numerosissime evidenze esistenti, non vi è alcun legame tra il vaccino MPR contro il morbillo, la parotite e la rosolia e l’autismo, i genitori hanno bisogno di sentirsi rassicurati da una persona di cui si fidano e che dica loro chiaramente che le due cose non sono connesse.
Risultati analoghi provengono da studi che hanno indagato la persistenza della disinformazione in ambito politico. Ad esempio, gli esperimenti condotti da Guillory e Geraci hanno dimostrato come la sola competenza della fonte comunicativa non sia sufficiente a modificare le opinioni negative dei partecipanti circa un candidato politico fittizio, la cui integrità veniva inizialmente messa in dubbio e poi restaurata. Invece, una fonte percepita come degna di fiducia riusciva a dipanare i dubbi dei partecipanti sull’onestà del candidato ed influenzava positivamente le loro intenzioni di votare per lui alle elezioni. Similmente, Swire e colleghi hanno dimostrato come le persone si lascino convincere della veracità di alcune informazioni, anche se palesemente inaccurate, se queste provengono da fonti da loro considerate affidabili. In alcuni esperimenti condotti prima delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, elettori sia Repubblicani che Democratici venivano chiamati ad esprimere il loro parere circa alcune affermazioni fatte dall’attuale Presidente Donald Trump durante la sua campagna elettorale. Alcune di queste erano vere, come ad esempio il fatto che l’America avesse speso 2 trilioni di dollari nella guerra in Iraq, mentre altre affermazioni erano false, come l’esistenza di un nesso causale tra vaccini ed autismo. L’aspetto interessante è che gli elettori Democratici rimanevano scettici nei confronti di affermazioni vere come quelle sul bilancio della guerra, se queste venivano attribuite al Presidente Trump rispetto ad una fonte non specificata. Specularmente, i Repubblicani tendevano a credere maggiormente ad affermazioni false come quella sui vaccini, se queste provenivano da una fonte per loro affidabile come il Presidente Trump o, anche se si convincevano del contrario, ovvero che ciò che aveva detto il Presidente Trump era sbagliato, si dichiaravano comunque decisi a votare per lui. Si tratta di un effetto noto in psicologia come bias di conferma, per cui si conferisce maggiore credibilità ad affermazioni che rinforzano le proprie convinzioni preesistenti, mentre si ignorano quelle che le contraddicono. Per questo, anche di fronte a prove contrarie, preserviamo le nostre convinzioni. Come ci spiegano chiaramente Ross e Anderson, le credenze possono sopravvivere a potenti sfide logiche o empiriche. Esse possono sopravvivere, e persino essere rafforzate, da prove che, per osservatori più distaccati, le dovrebbero indebolire. Queste credenze possono anche sopravvivere alla distruzione totale delle loro basi probatorie originali.
Oltre all’affidabilità e alla competenza, altri fattori concorrono a determinare la credibilità della fonte. Ad esempio, lo psicologo Leonard Bickman ha dimostrato il potenziale persuasivo esercitato dalle fonti autorevoli. In un esperimento condotto nel 1974, persone che indossavano un’uniforme da guardia giurata o vestite in borghese chiedevano ad alcuni passanti di compiere azioni alquanto bizzarre, come raccogliere un sacchetto per terra al loro posto o dare delle monetine a un uomo fermo davanti ad un parchimetro. Indipendentemente da ciò che veniva chiesto, le persone risultavano più condiscendenti quando colui dal quale ricevevano l’ordine era vestito in uniforme. Naturalmente in questo caso trattandosi di ordini, in gioco c’è anche l’obbedienza oltre la persuasione, e si può (talvolta si deve) obbedire a un ordine anche se non si è persuasi della sua bontà o utilità. Altri studi hanno evidenziato l’importanza delle caratteristiche fisiche della fonte, per cui risulta più convincente una fonte considerata attraente, nonché la sua familiarità e somiglianza rispetto alla persona che riceve il messaggio, caratteristiche che favoriscono meccanismi di identificazione. Sono tutti principi che il mondo del marketing conosce molto bene e che sfrutta accostando le marche a testimonial celebri, con i quali il pubblico si identifica e che stima.
Non bisogna tuttavia trascurare che l’attribuzione di credibilità ad una certa fonte comunicativa è determinata non solo dalle qualità proprie della fonte ma anche dalle caratteristiche dei destinatari. Ad esempio, i tratti di personalità, lo stile cognitivo, la maggiore o minore propensione alla fiducia o al sospetto, le precedenti esperienze con una certa fonte, nonché le risorse cognitive che si intendono dedicare al messaggio, sono tutti elementi che influenzano la percezione della credibilità della fonte e il suo potenziale persuasivo.
I processi di valutazione della credibilità assumono oggi una particolare rilevanza in riferimento alla rete e ai media digitali, che forniscono una miriade di informazioni di facile reperibilità e di diversa attendibilità per sollecitare le più svariate decisioni, dall’acquisto di prodotti o servizi alla richiesta di diagnosi mediche o psicologiche online. Con la diffusione del Web 2.0 e la partecipazione interattiva degli utenti alla pubblicazione di contenuti, si è verificata un’orizzontalizzazione del sapere per cui alcuni pensano che consultando molti siti diventano a loro modo degli esperti, ma quei siti potrebbero non presentare affermazioni attendibili o verificabili; gli utenti più vulnerabili potrebbero proprio essere coloro che hanno maggiore sfiducia nei confronti delle fonti ‘istituzionali’. Per la comprensione di un certo argomento è indispensabile conoscere in maniera approfondita un metodo che permetta di maturare un senso critico verso ciò che si legge. Un ulteriore aspetto problematico è legato al fatto che le persone tendono ad avere relazioni amicali e sentimentali con quelli che la pensano come loro (sia in rete che nel mondo reale) e che la somiglianza è un buon predittore della stabilità delle relazioni; gli utenti tendono a selezionare e condividere contenuti provenienti da fonti che rinforzano le loro opinioni e credenze, creando nicchie di simil-pensiero che facilitano la polarizzazione delle idee e la diffusione di teorie complottiste. Ne è un chiaro esempio la diffusione online di gruppi antivaccinisti.
Si potrebbe pensare che i giovani di oggi, i cosiddetti nativi digitali, siano indenni da queste trappole grazie alla familiarità ed abilità tecnica che dimostrano nei confronti delle nuove tecnologie. Sfortunatamente, è vero il contrario. Alcuni studi hanno dimostrato difatti come i più giovani siano consumatori passivi di informazioni, in quanto tendono a fidarsi della bontà dei contenuti trovati sul web, manifestando scarsa capacità di riflessione critica. Ad esempio, Metzger e colleghi hanno esaminato la capacità dei giovani di valutare correttamente le fonti online, riscontrando in particolare come coloro con una maggiore necessità di capire e dare un senso al mondo (una tendenza che prende il nome di need for cognition) e con una più spiccata flessibilità ed apertura mentale ricorressero più frequentemente a specifiche euristiche nella valutazione dell’informazione digitale. Tuttavia, sorprendentemente, i ragazzi che dichiaravano di essere più allenati nella valutazione delle fonti online, e che di fatto impiegavano maggiormente strategie analitiche nelle loro valutazioni, erano anche quelli che credevano più facilmente alle bufale riportate nei siti. Secondo gli autori dello studio, questi risultati sottolineano come i più giovani utilizzino acriticamente le strategie che hanno appreso senza capirne il vero significato. Risulta quindi necessario un percorso media-educativo con un approccio diverso, focalizzato sull’acquisizione di un metodo critico e su forme di riflessività più profonde, piuttosto che sul mero apprendimento di euristiche e strategie mentali. È difatti quello che si propone lo storico Sam Wineburg insieme al suo gruppo di ricerca dell’Università di Stanford, ideando un percorso educativo (gratuito ed accessibile online seguendo il link http://sheg.stanford.edu ) per apprendere a leggere come uno storico (reading like a historian), ovvero a valutare criticamente le fonti ponendosi domande relative all’autore che scrive, al contesto in cui scrive e all’esistenza di ulteriori evidenze a supporto di ciò che scrive. Riuscire a distinguere i fatti dalle opinioni non è facile, perché spesso si assomigliano così tanto che si confondono, esattamente come capita nel film Inside Out ai personaggi Gioia e Tristezza scontrando due scatoloni che contengono i fatti e le opinioni e confondendone i contenuti. Allo stesso modo, i giudizi di credibilità risentono dell’effetto di livellamento operato dai media, che appiattiscono il valore dei fatti mischiando informazioni attendibili e non attendibili.
A complicare ancor più le cose, secondo lo psicologo cognitivo Stephan Lewandowsky, quando riceviamo per la prima volta un’informazione tendiamo a credere che questa sia vera ed anzi per comprenderla adeguatamente dobbiamo almeno parzialmente accettare che sia vera. Difatti, valutare la credibilità della fonte da cui proviene è cognitivamente più dispendioso rispetto alla mera presunzione di verità; richiede un maggiore sforzo attentivo, il richiamare in memoria fatti che già conosciamo e in cui crediamo e il confrontarli con quello che abbiamo appena appreso. Per evitare tutto ciò, siamo portati a compiere per così dire un atto di fede, piuttosto che ad adottare una posizione di sano scetticismo. Ma la scienza non è il dominio delle credenze e delle opinioni. Gli scienziati possono raccogliere i fatti, le evidenze, in modi diversi ma, a prescindere dalla metodologia utilizzata, sottopongono i loro dati ad un attento scrutinio assumendo una tipica disposizione che il sociologo Robert K. Merton ha definito scetticismo organizzato; ovvero, nell’analisi di questi dati partono da una posizione di scrupoloso dubbio ed assumono quest’atteggiamento di incredulità in modo sistematico ed in gruppo.
Per la maggior parte di noi, risulta molto difficile valutare la credibilità delle evidenze scientifiche, così come lo è per molti scienziati fuori dal loro campo di specializzazione. Per tale motivo, occorre rivolgersi ad esperti che aiutino a separare i fatti dalle false informazioni divulgate da fonti di dubbia credibilità. Diventa ancor più importante, quindi, l’acquisizione di uno strumentario metodologico alla base delle scelte che effettuiamo, che permetta di valutare con riflessività critica la credibilità delle informazioni che riceviamo.
Per saperne di più
- Anderson, K., & Clevenger, T. (1963). A summary of experimental research in ethos. Speech Monographs, 30, 59-78.
- Bickman, L. (1974). The social power of a uniform. Journal of Applied Social Psychology, 4, 47-61.
- Burbules, N. C. (1998). Rhetorics of the Web: Hyperreading and critical literacy. In I. Snyder (Ed.), Page to screen: Taking literacy into the electronic era (pp. 102-122). London: Routledge.
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- Hargittai, E., Fullerton, L., Menchen-Trevino, E., & Thomas, K. Y. (2010). Trust online: Young adults’ evaluation of web content. International Journal of Communication, 4, 468-494.
- Hovland, C. L., & Weiss, W. (1951). The influence of source credibility on communication effectiveness. The Public Opinion Quarterly, 15(4), 635-650.
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- Metzger, M. J., Flanagin, A. J., Markov, A., Grossman, R., & Bulger, M. (2015). Believing the unbelievable: Understanding young people’s information literacy beliefs and practices in the United States. Journal of Children and Media, 9(3), 325-348.
- Myers, M. G., & Pineda, D. (2009). Misinformation about vaccines. In: A. Barrett & L. R. Stanberry (Eds.), Vaccines for Biodefense and Emerging and Neglected Diseases (pp. 255-270). London, UK: Elsevier.
- Pluviano, S., Della Sala, S., & Watt, C. (2017). Correcting vaccines misinformation: The effects of source expertise and trustworthiness. Manuscript under review.
- Pornpitakpan, C. (2004). The persuasiveness of source credibility: A critical review of five decades’ evidence. Journal of Applied Social Psychology, 34(2), 243-281.
- Ross, L., & Anderson, C. A. (1982). Shortcomings in the attribution process: On the origins and maintenance of erroneous social assessments. In: D. Kahneman, P. Slovic, & A. Tversky (Eds.), Judgment under uncertainty: Heuristics and biases (pp. 129-152).
- Swire, B., Berinsky, A. J., Lewandowsky, S., Ecker, U. K. (2017). Processing political misinformation: Comprehending the Trump phenomenon. Royal Society Open Science, 4, 160802.
- Wineburg, S. (2016). Why historical thinking is not about history. History News, 71(2), 13-16.
Il primo esperimento sul ruolo dell’affidabilità delle fonti
Un esperimento pioneristico nell’ambito della credibilità delle fonti è quello di Hovland e Weiss del 1951 nel quale i partecipanti, tutti cittadini degli USA, venivano esposti ad una serie di affermazioni su temi contestati, provenienti da fonti più o meno credibili.
Per esempio, vi era un’affermazione in cui si sosteneva l’utilità di fabbricare sottomarini atomici; ad alcune persone venne riferito che il messaggio proveniva da una figura di grande credibilità, il fisico atomico J. Robert Oppenheimer, mentre ad altre venne detto che si trattava della Pravda, il giornale ufficiale del partito comunista, una fonte ritenuta poco attendibile. I ricercatori misurarono gli atteggiamenti dei partecipanti rispetto al tema del messaggio prima dell’esperimento, subito dopo, e a distanza di alcune settimane, riscontrando come le fonti ritenute molto credibili producevano cambiamenti più rilevanti rispetto a quelle poco credibili.
Tuttavia, con il passare del tempo tale effetto si affievoliva; le persone tendevano a ricordare in modo dissociato il messaggio e la fonte da cui esso proveniva e tornavano alle loro opinioni originali.