Il verme della morte nel deserto

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  • 12-12-2017
  • di Lisa Signorile
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Sul pianeta Arrakis, nel romanzo Dune, nell’Alto deserto sabbioso verso l’equatore, immensi vermi giganti vivono nel sottosuolo producendo spezia, una sostanza che dona la prescienza, e ne escono solo se attirati da un rumore ritmico.

Sul pianeta Terra, nel mondo reale, nel deserto sabbioso del Gobi in Mongolia, vivrebbero vermi lunghi meno di un metro ma capaci di uccidere anche a distanza con un veleno letale o con una scarica elettrica. L’unico problema è che nessuno scienziato li ha mai visti o fotografati.

Allghoi khorkhoi in lingua mongola significa “verme intestino”, e questo ne descrive l’aspetto piuttosto bene. Queste misteriose creature sarebbero lunghe da mezzo metro a un metro, eccezionalmente un metro e mezzo, rosse, cilindriche, con le due estremità della testa e della coda identiche e ricordano ai pastori tribali, come colore e dimensioni, l’intestino di una vacca. Tutte le fonti concordano che la creatura vivrebbe nella zona sabbiosa della Mongolia meridionale verso il confine con la Cina, e la sua presenza sarebbe associata all’unico arbusto della zona, il saxaul, e al parassita delle sue radici, la pianta priva di clorofilla Cynomorium songaricum che, come il verme, è rossa e di aspetto cilindrico. Il verme vive in profondità nella sabbia e ne emerge, o almeno è avvistato, solo nei mesi più caldi, giugno e luglio, in particolare dopo la pioggia, rimanendo in letargo durante il freddissimo e lunghissimo inverno del Gobi.

Non si sa di cosa si nutra l’allghoi khorkhoi, né a dire la verità se si nutra in generale perché la testa non sembra avere caratteristiche evidenti come bocca, narici o occhi, ma in una specie fossoria questo non è sorprendente: gli occhi in generale si riducono di dimensione e vengono coperti di pelle; bocca e narici sono protette in modo da evitare l’ingresso dei detriti. Secondo il folklore mongolo il verme intestino è attratto dal giallo, è letale al contatto ed è in grado di spruzzare a distanza un veleno potentissimo capace di corrodere all’istante i metalli e far diventare giallo tutto ciò che tocca. È inoltre in grado di uccidere a distanza anche intere mandrie di cammelli, per cui è stato ipotizzato che emetta scariche elettriche come le torpedini. Una tesi avvalorata dalla storia (non verificata) di un geologo morto sul colpo dopo aver piantato per terra una barra di metallo, e dalla cui terra smossa sarebbe emerso un verme. Dalla fine di giugno in poi la creatura sarebbe meno velenosa e meno letale e il suo avvistamento non equivarrebbe necessariamente a morte.

I nomadi del deserto ne sono terrorizzati, ne parlano sottovoce, se proprio devono, ed evitano di pronunciarne il nome per non attirare sventure su di sé, e molti sono i resoconti di seconda e terza mano del cugino del cognato di qualcuno che ha visto l’animale, o che è morto ucciso dalla creatura. I testimoni oculari scarseggiano e malgrado molteplici missioni esplorative da parte degli occidentali, condotte con le tecnologie più sofisticate, non esistono al momento foto, video, resti o anche tracce fossili che consentano almeno di conoscere l’effettivo aspetto del verme delle sabbie.

Il primo resoconto che abbiamo in occidente di questa creatura lo dobbiamo al paleontologo americano Roy Chapman Andrews, nel suo libro del 1926 Sulle tracce dell’uomo antico, un resoconto della spedizione del 1922 del Museo Americano di Storia Naturale alla ricerca di fossili di dinosauro. In un capitolo del libro Andrew racconta che al suo arrivo in Mongolia, per ottenere tutti i permessi necessari, incontrò una delegazione del governo mongolo che includeva il Primo Ministro e il Ministro degli Esteri della nazione. Dopo aver sbrigato le faccende burocratiche, il Primo Ministro gli chiese se, già che c’era, poteva catturare per il governo mongolo un esemplare di allergorhai-horhai (l’ortografia cambia notevolmente a seconda di chi scrive, a causa della traslitterazione), perché la zona di scavo coincideva con l’areale del verme. Andrew riporta che ne aveva già sentito parlare spesso e non rimase sorpreso dalla richiesta. Racconta inoltre che tutti i delegati presenti credevano fermamente nell’esistenza della creatura: anche se nessuno di loro l’aveva mai vista di persona, molti avevano un lontano parente che ne poteva testimoniare l’esistenza. Andrew, piuttosto scettico, accettò di buon grado dichiarando che non ci sarebbe stato pericolo per sé: avrebbe afferrato il verme con dei forcipi lunghi per evitare spruzzi di veleno e si sarebbe protetto dalla vista della velenosa creatura indossando degli occhiali da sole. In un resoconto successivo Andrew, che ligio al dovere cercò il verme anche se scettico, aggiunse un dettaglio importante: in ogni zona dove le testimonianze dicevano che si potesse ritrovare il verme, i residenti (per quanto residente possa essere un mongolo del deserto), dicevano che la zona era invece quell’altra lì vicino. Un perfetto pattern da leggenda metropolitana, senza lo smog della metropoli.

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Il paleontologo e scrittore russo Ivan Efremov (Yephremov) partecipò a una spedizione in Mongolia organizzata dall’Accademia Russa delle Scienze nel triennio 1946-1949 e raccolse numerose storie sull’Allghoi khorkhoi dall’anziano mongolo Tseveng; ad esempio, il verme vive nelle dune sabbiose del Khaldzan dzakh, circa 130 km a sud est di Dalandzadgad. Stando a quanto riportato da Efremov, l’anziano si irritò per la derisione degli scienziati russi, esplodendo con le seguenti parole: «Ridete solo perché non sapete niente e non capite niente. L’Allghoi khorkhoi è una cosa terribile!» Efremov rimase colpito e raccontò questa storia nel suo resoconto della spedizione intitolato Deroga Vetrov (Il percorso del vento), e anche in un racconto di fantascienza intitolato Olgoï-Khorkhoï. Questo racconto fu una delle leve principali che spinsero il maggiore esperto di vermi assassini mongoli, l’ingegnere e criptozoologo ceco Ivan Meckerle, a cercare la creatura nel Gobi.

Meckerle racconta che a una festa incontrò una ragazza mongola che gli sussurrò in un orecchio la leggenda del verme e lui ne rimase così colpito che cominciò a cercare informazioni nella letteratura in modo minuzioso, ritrovando ad esempio per primo il resoconto di Andrew e persino il riferimento al verme mannaro del deserto del Gobi di Tolkien nelle prime bozze del Signore degli Anelli. Poteva fare poco altro perché il governo comunista mongolo proibiva ogni riferimento alla cosa e negava permessi di ricerca. Subito dopo la caduta del muro (e del governo mongolo comunista), tuttavia, Meckerle in compagnia di un fotografo, di un medico, di una guida e di un interprete organizzò una prima spedizione di ricerca in Mongolia, seguita da una seconda spedizione due anni dopo, ovviamente senza altri risultati che resoconti di seconda mano. Dopo di lui altri hanno provato, almeno una dozzina di grosse spedizioni, tra cui il famoso Centre for Fortean Zoology inglese esperto in criptozoologia, ma tutti hanno fallito.

Certo trovare una creatura che vive sepolta in un deserto immenso dove le condizioni per i ricercatori sono estreme è come trovare un ago in un pagliaio, ma il fatto che non sia stato trovato sinora non vuol dire che il verme non esista. Molti animali sono stati scoperti grazie a qualcuno che, sentiti i racconti di nativi o viaggiatori, organizza spedizioni e scopre nuove specie. Tra questi l’okapi, il panda, il drago di komodo e il gorilla di montagna, ma sono tutti animali grandi e terrestri. Per il verme-intestino non abbiamo idea di quanto ci sia di vero nella leggenda. È possibile indubbiamente che sia una creatura del tutto di fantasia, ma è strano che i vari resoconti di testimoni indipendenti siano comunque piuttosto coerenti nelle descrizioni e nel comportamento. Nel suo libro The Beasts That Hide from Man: Seeking the World's Last Undiscovered Animals (Cosimo, Inc., 2014), il criptobiologo Karl Shuker analizza tutte le varie possibilità, e le scarta quasi tutte. Vermi oligocheti, larve di insetti, cecilie, lucertole apode, scinchi, anfisbene, serpenti, nessuno corrisponde con precisione alla descrizione, quasi nessuno è velenoso e certamente nessuno tranne le torpedini uccide tramite scariche elettriche. Tuttavia ammette che in molti casi il folklore popolare rende velenose specie del tutto innocue, come accade da noi coi serpenti, solo per timore e scarsa conoscenza. Molti rettili hanno le zampe, come gli scinchi delle sabbie che però effettivamente “nuotano” sotto la superficie del deserto in Arabia Saudita. Le anfisbene sono tutte tropicali e di solito legate a climi umidi, le cecilie sono anfibi e hanno bisogno di acqua.

Se dovessi scommettere, la mia puntata ricadrebbe su un animale non velenoso, ma altrimenti piuttosto simile alla descrizione. Eryx johnii è detto anche il “boa delle sabbie rosso”, vive nei deserti di Iran, Pakistan e nord dell’India, è rosso, ha il corpo completamente cilindrico con la testa uguale alla coda ed è lungo circa 2 o tre piedi, 60-90 cm. Supponiamo che ci sia una sottospecie, o una specie simile in Mongolia, ed il gioco è fatto. E già che siamo lì a supporre, potremmo addirittura pensare a una specie isolata di serpente che evolve un morso velenoso per necessità, non sarebbe la prima volta che accade. Il resto lo fanno il timore, il folklore e la fantasia.

Per ora, non ci resta che aspettare e sperare che qualcuno, prima o poi, riesca a trovare il misterioso verme delle sabbie e a sopravvivere per raccontarlo, possibilmente prima che si estingua a causa del riscaldamento globale.
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