Uno dei luoghi più suggestivi del Trentino è il castello di San Gottardo, una struttura medioevale risalente al XII secolo completamente incastonata su una cengia e protetta da una grotta naturale. Il castello guarda dall’alto la Piana Rotaliana, una pianura alluvionale tra l’Adige e il torrente Noce, ed è posto circa 100m sopra il paese di Mezzocorona. Sull’architrave della porta d’ingresso del castello, oggi diroccato, c’è tutt’oggi uno stemma di pietra rappresentante un drago.
Narra la leggenda che un giorno un basilisco, la cui descrizione, probabilmente un po’ rimaneggiata a posteriori, ricorda perfettamente Smaug, il drago de Lo Hobbit di J. R. R. Tolkien, si impadronì della cengia protetta dalla grotta, prima che vi fosse costruito il castello. Come da copione, subito cominciò a devastare, bruciare e divorare gli sfortunati abitanti della valle. I superstiti, terrorizzati, meditavano già la fuga ma, mentre pianificavano il da farsi, si parò dinnanzi a loro il prode conte Ugo Firmian, reduce dalla Terra Santa, e chiese loro di aspettare qualche ora, mentre lui faceva i conti col basilisco.
Recatosi al suo castello, che sarebbe in realtà stato costruito tre secoli dopo in epoca rinascimentale, indossò l’armatura, prese lo spadone e si fece dare un secchio di latte e uno specchio. Si arrampicò quindi cosi affardellato lungo il ripido sentiero che portava alla cengia e trovò il basilisco soporitamente addormentato. Sistemò allora davanti alla tana del drago il secchio di latte e dietro vi posizionò lo specchio. Al suo risveglio, il drago trovò il latte e cominciò a berlo come un gattino (è ben noto che i serpenti delle leggende vanno pazzi per il latte. Peccato che nessun serpente vero lo apprezzi) ma, alzato lo sguardo, si vide riflesso nello specchio. Anche questo basilisco, come tutti i suoi conspecifici, aveva la capacità di pietrificare con lo sguardo ma qui la storia si discosta dal canone perché, invece di autopietrificarsi guardando la sua immagine riflessa, il basilisco di Mezzocorona fa una cosa molto dolce: si comporta come un gattino allo specchio e comincia a guardare confuso la sua immagine, cercando dietro per vedere dov’è l’altro basilisco, guarda a destra, a sinistra e alla fine si alza su due zampe per guardarsi la pancia. A quel punto lo scaltro conte Firmian scatta e con la spada lo trafigge nell’unico punto debole, sotto la pancia. Non è chiaro come facesse il conte a conoscere il trucco.
La storia è simpatica, ma è più che probabile che la struttura originaria sia stata rimaneggiata in seguito, dopo che Nicolò Firmian, capitano della Val di Non, sposò l’ultima discendente della famiglia Mez, i signori locali (della “Terra di Mezzo”) che originariamente costruirono il castello. Il legame tra la famiglia Mez e i draghi non è noto, e non si può escludere che l’eroe originario della storia fosse San Gottardo, cui è dedicato il castello e che fu canonizzato grosso modo all’epoca della costruzione dello stesso, in qualche momento prima del 1181. San Gottardo era tedesco ma non aveva la stoffa dello sterminatore di draghi come San Giorgio, era un placido teologo, e non ci sono legami tra il santo e i lucertoloni volanti sputafuoco. Manca quindi ancora una base reale, un fondo di verità, a questa leggenda, che spieghi cosa abbia ispirato la famiglia Mez a mettersi un drago sulla porta di casa, e probabilmente a dare il via alla leggenda. Ci sono però due ipotesi molto interessanti. Nel 2004 il paleontologo Marco Avanzini, esplorando la grotta in cui è situato il castello, trovò tre superfici esposte su cui vi erano 50 impronte fossili di dinosauri risalenti a 220 milioni di anni fa e appartenenti a ben quattro tipi diversi di animali, alcuni bipedi, altri quadrupedi. Avanzini postulò dunque che sia stata l’osservazione di queste impronte anomale a ispirare la leggenda del drago. Tuttavia di solito le impronte di dinosauro appaiono come buchi nella roccia, specie se incomplete come queste, a chi non sa cosa sta guardando: sicuramente buchi strani ma non sufficienti, a parere di chi scrive, a collegarli a dei rettili giganteschi, a meno che non fosse stato trovato anche uno scheletro fossile, ora andato perduto. In mancanza di questo, un’altra ipotesi è possibile: la Piana Rotaliana era un terreno paludoso allagato su base stagionale, bonificata in epoca asburgica intorno al 1850, sebbene vi si coltivasse la vigna da tempi antichi. Nelle paludi la combustione del metano generato dalla decomposizione di resti organici causa fiammelle azzurre dette fuochi fatui. La vista della vallata dalla cengia di notte, quando si accendevano i fuochi fatui, doveva essere impressionante e poteva far pensare a creature che accendessero quei fuochi. Le due ipotesi non si escludono, anzi potrebbero corroborarsi a vicenda.
L’arco Alpino sembra essere un habitat ideale per draghi e basilischi, dal momento che vi è avvenuto il grosso degli avvistamenti italiani. La zona di Verbano-Cusio-Ossola, nei pressi del monte Rosa in Piemonte è dall’altro lato dell’arco alpino rispetto a Mezzocorona, ed è la zona d’Italia a più alta densità e biodiversità di draghi & affini: quasi ogni paesino ha la sua leggenda su misteriosi rettili e ogni tanto avvengono ancora avvistamenti. Il Comune di Malseco in Valle Vigezzo ha eretto addirittura un monumento al basilisco nella piazza principale del paese. I basilischi della Val d’Ossola, o bazalesch, sono però tutti piccoli, intorno al mezzo metro, e relativamente innocui.
Tutti i basilischi piemontesi sono accomunati dall’origine: nascono da un uovo senza tuorlo, deposto da un gallo e covato da un rospo sopra un mucchio di letame, immagino per mantenere costante la temperatura dell’uovo poiché la decomposizione del letame produce calore. Non fa una piega.
A Cannobio, sotto le torri del Gridone, in Valgrande, un cacciatore sostenne di aver visto un basilisco che puzzava così tanto da far scappare i cani e far vomitare lui stesso. Cresta e alucce a parte, la creatura descritta fa pensare a una biscia che, se spaventata, si finge morta e manda un odore nauseabondo che rimane per giorni sulle mani e sui vestiti. Un simile avvistamento è riportato in località Giavina de la Bisàa a Folsogno, dove vivrebbe un serpente con la cresta, quattro ali, il morso letale, un odore nauseabondo e la capacità di indurre sonnolenza e turbare con lo sguardo. A Cicogna, in bassa Valgrande, vive invece il Gasper, che deve essere una sottospecie del precedente, dotato di cresta enorme e squame rosse. A Dissimo ci sono invece serpentelli sottili dalla testa quadrata e gli occhi enormi (il serpente con gli occhiali) che avrebbero potere teratogeno sui feti. Una famiglia della Valchiusella sostiene invece di possedere un dente e un osso di basilisco, con proprietà curative contro i morsi delle vipere, che meriterebbero un po’ di analisi genetica e un po’ di debunking.
Tutte queste varianti sul tema di serpenti chimerici sono probabilmente vipere e bisce descritte con un po’ di fantasia, ma i fatti dimostrano che esattamente nella zona dove sono diffuse le leggende sui basilischi c’è effettivamente una nuova specie di vipera, la Vipera walser, che era sinora sfuggita alla scienza. Sfortunatamente, non ha la cresta sul capo, né il segno di un diamante bianco, ma magari l’osservazione di una vipera insolitamente differente dalle solite, visto che ha un areale minuscolo, potrebbe aver dato luogo a tutte queste leggende, poi mescolatesi con la tradizione sul basilisco.
Il mio drago piemontese preferito però è il serpente gatto, un serpente con la testa di gatto, il pelo e gli occhi grandi "da bambino", osservato anche in tempi recenti, nel 1992, da Giuseppe Costale, un dirigente del CAI, che è riuscito addirittura a procurarsi uno scheletro della creatura, con occhi tondi e testa di gatto. A questa creatura forse è possibile dare un’identità. I cercatori di funghi e gli alpinisti sono abituati a girare per boschi e conoscono relativamente bene gli animali. Le ossa in questione, secondo erpetologi esperti, appartengono a un mammifero, ma manca il cranio. Un mammifero che assomiglia a un gatto, ha gli occhi tondi, le zampe corte e la coda lunghissima che dà un effetto “serpeggiante” all’animale, è rarissimo, c'è in Piemonte, ed è la genetta. La genetta è un viverride, un parente delle manguste, ed è alloctona in Italia, ma sta popolando l’arco alpino proveniendo dalla Francia, dove fu introdotta dal Nordafrica, a partire dagli anni ’60, per cui viene occasionalmente osservata in Valle D’Aosta e Piemonte. Inserire un animale così esotico in un’area così impregnata da leggende sui basilischi è come mettere il fuoco accanto a paglia impregnata d’olio, ed ecco che nasce il serpente gatto.
Un’ultima osservazione: in Italia peninsulare i draghi sono molto più rari. Quelli dell’arco alpino sono probabilmente tutti derivati dalla tradizione germanica. Chi osserva qualcosa di insolito è portato a darsi spiegazioni con le informazioni che ha a portata di mano: se tutto quello che hai sono chiodi tutte le soluzioni assomiglieranno a martelli, e se tutto quello che hai sono basilischi tutte le spiegazioni delle osservazioni naturalistiche insolite andranno in quella direzione. Resta da capire che fine hanno fatto le storie di Plinio in Italia peninsulare. Stay tuned.
Narra la leggenda che un giorno un basilisco, la cui descrizione, probabilmente un po’ rimaneggiata a posteriori, ricorda perfettamente Smaug, il drago de Lo Hobbit di J. R. R. Tolkien, si impadronì della cengia protetta dalla grotta, prima che vi fosse costruito il castello. Come da copione, subito cominciò a devastare, bruciare e divorare gli sfortunati abitanti della valle. I superstiti, terrorizzati, meditavano già la fuga ma, mentre pianificavano il da farsi, si parò dinnanzi a loro il prode conte Ugo Firmian, reduce dalla Terra Santa, e chiese loro di aspettare qualche ora, mentre lui faceva i conti col basilisco.
Recatosi al suo castello, che sarebbe in realtà stato costruito tre secoli dopo in epoca rinascimentale, indossò l’armatura, prese lo spadone e si fece dare un secchio di latte e uno specchio. Si arrampicò quindi cosi affardellato lungo il ripido sentiero che portava alla cengia e trovò il basilisco soporitamente addormentato. Sistemò allora davanti alla tana del drago il secchio di latte e dietro vi posizionò lo specchio. Al suo risveglio, il drago trovò il latte e cominciò a berlo come un gattino (è ben noto che i serpenti delle leggende vanno pazzi per il latte. Peccato che nessun serpente vero lo apprezzi) ma, alzato lo sguardo, si vide riflesso nello specchio. Anche questo basilisco, come tutti i suoi conspecifici, aveva la capacità di pietrificare con lo sguardo ma qui la storia si discosta dal canone perché, invece di autopietrificarsi guardando la sua immagine riflessa, il basilisco di Mezzocorona fa una cosa molto dolce: si comporta come un gattino allo specchio e comincia a guardare confuso la sua immagine, cercando dietro per vedere dov’è l’altro basilisco, guarda a destra, a sinistra e alla fine si alza su due zampe per guardarsi la pancia. A quel punto lo scaltro conte Firmian scatta e con la spada lo trafigge nell’unico punto debole, sotto la pancia. Non è chiaro come facesse il conte a conoscere il trucco.
La storia è simpatica, ma è più che probabile che la struttura originaria sia stata rimaneggiata in seguito, dopo che Nicolò Firmian, capitano della Val di Non, sposò l’ultima discendente della famiglia Mez, i signori locali (della “Terra di Mezzo”) che originariamente costruirono il castello. Il legame tra la famiglia Mez e i draghi non è noto, e non si può escludere che l’eroe originario della storia fosse San Gottardo, cui è dedicato il castello e che fu canonizzato grosso modo all’epoca della costruzione dello stesso, in qualche momento prima del 1181. San Gottardo era tedesco ma non aveva la stoffa dello sterminatore di draghi come San Giorgio, era un placido teologo, e non ci sono legami tra il santo e i lucertoloni volanti sputafuoco. Manca quindi ancora una base reale, un fondo di verità, a questa leggenda, che spieghi cosa abbia ispirato la famiglia Mez a mettersi un drago sulla porta di casa, e probabilmente a dare il via alla leggenda. Ci sono però due ipotesi molto interessanti. Nel 2004 il paleontologo Marco Avanzini, esplorando la grotta in cui è situato il castello, trovò tre superfici esposte su cui vi erano 50 impronte fossili di dinosauri risalenti a 220 milioni di anni fa e appartenenti a ben quattro tipi diversi di animali, alcuni bipedi, altri quadrupedi. Avanzini postulò dunque che sia stata l’osservazione di queste impronte anomale a ispirare la leggenda del drago. Tuttavia di solito le impronte di dinosauro appaiono come buchi nella roccia, specie se incomplete come queste, a chi non sa cosa sta guardando: sicuramente buchi strani ma non sufficienti, a parere di chi scrive, a collegarli a dei rettili giganteschi, a meno che non fosse stato trovato anche uno scheletro fossile, ora andato perduto. In mancanza di questo, un’altra ipotesi è possibile: la Piana Rotaliana era un terreno paludoso allagato su base stagionale, bonificata in epoca asburgica intorno al 1850, sebbene vi si coltivasse la vigna da tempi antichi. Nelle paludi la combustione del metano generato dalla decomposizione di resti organici causa fiammelle azzurre dette fuochi fatui. La vista della vallata dalla cengia di notte, quando si accendevano i fuochi fatui, doveva essere impressionante e poteva far pensare a creature che accendessero quei fuochi. Le due ipotesi non si escludono, anzi potrebbero corroborarsi a vicenda.
L’arco Alpino sembra essere un habitat ideale per draghi e basilischi, dal momento che vi è avvenuto il grosso degli avvistamenti italiani. La zona di Verbano-Cusio-Ossola, nei pressi del monte Rosa in Piemonte è dall’altro lato dell’arco alpino rispetto a Mezzocorona, ed è la zona d’Italia a più alta densità e biodiversità di draghi & affini: quasi ogni paesino ha la sua leggenda su misteriosi rettili e ogni tanto avvengono ancora avvistamenti. Il Comune di Malseco in Valle Vigezzo ha eretto addirittura un monumento al basilisco nella piazza principale del paese. I basilischi della Val d’Ossola, o bazalesch, sono però tutti piccoli, intorno al mezzo metro, e relativamente innocui.
Tutti i basilischi piemontesi sono accomunati dall’origine: nascono da un uovo senza tuorlo, deposto da un gallo e covato da un rospo sopra un mucchio di letame, immagino per mantenere costante la temperatura dell’uovo poiché la decomposizione del letame produce calore. Non fa una piega.
A Cannobio, sotto le torri del Gridone, in Valgrande, un cacciatore sostenne di aver visto un basilisco che puzzava così tanto da far scappare i cani e far vomitare lui stesso. Cresta e alucce a parte, la creatura descritta fa pensare a una biscia che, se spaventata, si finge morta e manda un odore nauseabondo che rimane per giorni sulle mani e sui vestiti. Un simile avvistamento è riportato in località Giavina de la Bisàa a Folsogno, dove vivrebbe un serpente con la cresta, quattro ali, il morso letale, un odore nauseabondo e la capacità di indurre sonnolenza e turbare con lo sguardo. A Cicogna, in bassa Valgrande, vive invece il Gasper, che deve essere una sottospecie del precedente, dotato di cresta enorme e squame rosse. A Dissimo ci sono invece serpentelli sottili dalla testa quadrata e gli occhi enormi (il serpente con gli occhiali) che avrebbero potere teratogeno sui feti. Una famiglia della Valchiusella sostiene invece di possedere un dente e un osso di basilisco, con proprietà curative contro i morsi delle vipere, che meriterebbero un po’ di analisi genetica e un po’ di debunking.
Tutte queste varianti sul tema di serpenti chimerici sono probabilmente vipere e bisce descritte con un po’ di fantasia, ma i fatti dimostrano che esattamente nella zona dove sono diffuse le leggende sui basilischi c’è effettivamente una nuova specie di vipera, la Vipera walser, che era sinora sfuggita alla scienza. Sfortunatamente, non ha la cresta sul capo, né il segno di un diamante bianco, ma magari l’osservazione di una vipera insolitamente differente dalle solite, visto che ha un areale minuscolo, potrebbe aver dato luogo a tutte queste leggende, poi mescolatesi con la tradizione sul basilisco.
Il mio drago piemontese preferito però è il serpente gatto, un serpente con la testa di gatto, il pelo e gli occhi grandi "da bambino", osservato anche in tempi recenti, nel 1992, da Giuseppe Costale, un dirigente del CAI, che è riuscito addirittura a procurarsi uno scheletro della creatura, con occhi tondi e testa di gatto. A questa creatura forse è possibile dare un’identità. I cercatori di funghi e gli alpinisti sono abituati a girare per boschi e conoscono relativamente bene gli animali. Le ossa in questione, secondo erpetologi esperti, appartengono a un mammifero, ma manca il cranio. Un mammifero che assomiglia a un gatto, ha gli occhi tondi, le zampe corte e la coda lunghissima che dà un effetto “serpeggiante” all’animale, è rarissimo, c'è in Piemonte, ed è la genetta. La genetta è un viverride, un parente delle manguste, ed è alloctona in Italia, ma sta popolando l’arco alpino proveniendo dalla Francia, dove fu introdotta dal Nordafrica, a partire dagli anni ’60, per cui viene occasionalmente osservata in Valle D’Aosta e Piemonte. Inserire un animale così esotico in un’area così impregnata da leggende sui basilischi è come mettere il fuoco accanto a paglia impregnata d’olio, ed ecco che nasce il serpente gatto.
Un’ultima osservazione: in Italia peninsulare i draghi sono molto più rari. Quelli dell’arco alpino sono probabilmente tutti derivati dalla tradizione germanica. Chi osserva qualcosa di insolito è portato a darsi spiegazioni con le informazioni che ha a portata di mano: se tutto quello che hai sono chiodi tutte le soluzioni assomiglieranno a martelli, e se tutto quello che hai sono basilischi tutte le spiegazioni delle osservazioni naturalistiche insolite andranno in quella direzione. Resta da capire che fine hanno fatto le storie di Plinio in Italia peninsulare. Stay tuned.