L’ultimo unicorno

  • In Articoli
  • 16-06-2016
  • di Lorenzo Rossi
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La recente scoperta della sopravvivenza tardiva di una specie precedentemente ritenuta estinta 350.000 anni fa ha riacceso un dibattito sulle affascinanti corrispondenze che possono intercorrere tra folklore e paleontologia.

Questa volta a salire agli onori di cronaca è stata una figura molto radicata nell’immaginario collettivo e sempre in grado di suscitare interesse e curiosità: l’unicorno (di un precedente caso avente per protagonista il mitologico animale Query si era già occupata qui ). Ma procediamo con ordine...

Nel 1808 il naturalista Johann Fischer descrisse il genere Elasmotherium, a cui appartenevano tre specie di rinoceronti diffusi in Eurasia e apparsi sulla Terra circa 2,5 milioni di anni fa. Tra queste, quella di cui si dispone del maggior numero di informazioni è l’elasmoterio siberiano (Elasmotherium sibiricum), che poteva raggiungere una lunghezza di circa quattro metri e mezzo ed essere alto sino a due metri. Oltre alle dimensioni ciclopiche e al fatto di essere verosimilmente ricoperto di pelo, altri aspetti che lo distinguevano dagli attuali rinoceronti erano gli arti più slanciati e un grande singolo corno, che cresceva in corrispondenza della fronte anziché in prossimità delle narici.

Di questo corno, composto di cheratina, non esistono resti fossili e la sua presenza è ipotizzata, con un alto grado di attendibilità, dalle strutture del cranio dell’animale giunto sino a noi.

Nel 1878, epoca in cui la paleontologia era ancora una disciplina giovane e la radiodatazione non era ancora di ausilio alla stratigrafia, lo zoologo tedesco Johann Friedrich von Brandt ipotizzò che il colossale animale potesse essere stato contemporaneo dell’Homo sapiens[1]. A supporto di questa teoria citò un’opera, apparsa nel 1866, del viaggiatore e orientalista Friedrich Wilhelm Radloff, nella quale era riportata un’antica leggenda del popolo siberiano degli Evenchi, che raccontava dell’uccisione di un bue nero dalle dimensioni gigantesche e dotato, nel mezzo della fronte, di un corno così grosso da potere essere trasportato solo con l’ausilio di una slitta.

In seguito la moderna paleontologia, datando la scomparsa dell’elasmoterio a oltre 300.000 anni fa, chiuse le porte al possibile incontro tra questi animali e l’uomo moderno. Questo spiega perché un recente studio[2] della Tomsk State University (Russia), che documenta l’esistenza della specie nel Kazakistan nord-orientale sino ad appena (geologicamente parlando) 28.000 anni fa, è stato ripreso da diversi siti internet per rilanciare l’avvincente quesito: l’elasmoterio è alla base delle leggende sull’unicorno?

A ciascuno il suo


Una cosa che gli studiosi e appassionati di folklore sanno bene è che, a livello di costrutto dell’immaginario umano, non esiste un solo unicorno. Questa figura appare infatti in un numero considerevole di forme ben differenziate nelle leggende di tutto il mondo. Nella tradizione cinese è descritto a volte come simile ad un ariete, un leopardo, una volpe o un cavallo, per gli arabi è simile ad una gazzella, ma ne esiste anche una varietà descritta come una lepre, per gli europei è riconducibile ad un cavallo bianco e così via. L’unica caratteristica che accomuna queste figure è la presenza di un corno sulla fronte. Ciò renderebbe quindi più verosimile l’ipotesi che l’elasmoterio sia stato all’origine di una delle tante forme locali dell’unicorno, piuttosto che della leggenda nella sua totalità.

D’altronde il cercare di ricondurre questo mito così diffuso ad un’unica radice si è sempre rivelato un’impresa alquanto ardua (chi volesse approfondire alcuni aspetti sulla “storia naturale” dell’unicorno può trovare qualche informazione di base al link indicato alla nota 3[3]).

Una delle ipotesi più accreditate vuole all’origine dell’unicorno il rinoceronte indiano (Rhinoceros unicornis). Sono infatti molti gli autori dell’antichità che inseriscono questa creatura tra la fauna dell’India, descrivendola come una specie selvatica il cui corno ha straordinarie proprietà terapeutiche. Questa credenza è purtroppo sopravvissuta sino ai giorni nostri, dove nel mercato illegale della medicina tradizionale la polvere ricavata dal corno dei rinoceronti è venduta a carissimo prezzo.

Ma torniamo ora alle leggende degli Evenchi riguardanti il gigantesco bue nero. Possono essere messe in relazione con l’incontro tra uomini moderni ed elasmoteri?

C’era una volta, tanto tempo fa...


A questo punto si rende interessante fare un parallelo con altre creature gigantesche nelle quali Homo sapiens si è imbattuto e che sono state sicuramente all’origine di leggende sopravvissute sino in epoca storica. Stiamo parlando dei mammut, parenti degli attuali elefanti che vivevano in Europa, Asia e Nord America sino alla fine dell’ultima Era Glaciale.

Ebbene, le popolazioni siberiane indigene degli Jakuti, Khanti e Coriachi tramandavano sino all’inizio dell’Ottocento curiose storie riguardo a un misterioso, enorme animale, chiamato “mamantu” (animale sotterraneo). Nell’antichità questi racconti erano ben conosciuti anche ai Cinesi, che con la Siberia avevano instaurato rapporti commerciali. Nello Shen yi jing, un testo probabilmente dei primi secoli e.v., si fa riferimento ad un grande animale simile ad un ratto che vive sotto al ghiaccio, nelle profondità del terreno. Se questi animali vengono accidentalmente in contatto con la luce del sole, muoiono all’istante, e quando ciò accade le popolazioni locali ne raccolgono i due enormi denti a forma di piccone per inciderli e ricavarne utensili e oggetti decorativi.

Dovettero passare molti anni prima che si scoprisse che quelle leggende avevano un incredibile fondo di verità: i mamantu non erano infatti altro che carcasse di mammut straordinariamente conservatesi nel permafrost, il peculiare terreno della Siberia settentrionale caratterizzato da fanghiglia congelata.

Ma se un animale molto ben conosciuto dai primi uomini moderni (che lo hanno anche raffigurato con notevoli dettagli sulle pareti delle caverne) ed estintosi in epoche relativamente molto recenti (poco meno di 10.000 anni fa per quanto concerne il continente[4]) ha dato origine a leggende basate solo sul ritrovamento dei suoi resti, è davvero possibile che l’elasmoterio, estintosi 18.000 anni prima, sia all’origine di racconti che lo descrivono in vita?

Sebbene gli antropologi culturali non escludano la sopravvivenza di tradizioni orali anche in archi di tempo piuttosto elevati[5], per quanto riguarda l’elasmoterio questa congettura, a meno di futuri auspicabili nuovi sviluppi, resta probabilmente ancora troppo debole.

Originariamente pubblicato su Queryonline, il 25 aprile 2016 .

Note


4) Sull’isola di Wrangel, che si separò dalla Siberia circa 13.000 anni fa a causa dell’innalzamento dei mari, i mammut sopravvissero isolati dal resto del continente sino a circa 3.500 anni fa.
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