Per i giovani delle società ricche e democratiche l’accesso all’istruzione è oramai un fatto scontato e, anziché un privilegio, viene spesso vissuto come un’inevitabile incombenza, spesso affrontata controvoglia.
È bene tuttavia ricordare che in molti paesi del mondo le cose non stanno affatto così. La possibilità di frequentare scuole e università è un privilegio concesso a pochi e negato invece a molti. Secondo un rapporto[1], presentato qualche anno fa da Save the Children e dall'Education for All Global Monitoring Report dell'Unesco, ben 50 milioni di bambini tra i sei e i quindici anni non hanno accesso all'istruzione. Tra questi 28,5 milioni dovrebbero frequentare le scuole elementari e più della metà sono bambine. Altri 20 milioni dovrebbero invece essere studenti delle scuole superiori. Innumerevoli sono le cause che impediscono a questi ragazzi di frequentare le scuole. Tra queste, il reclutamento dei minori da parte di gruppi armati, il bombardamento delle scuole, le intimidazioni a studenti e insegnanti, le uccisioni, i ferimenti e tutte le brutture che caratterizzano le guerre e i regimi totalitari.
Oltre agli orrori delle guerre, una mentalità retrograda intrisa di pregiudizi sessisti rende particolarmente difficile l’accesso allo studio alle bambine e alle ragazze in diverse parti del mondo.
Simbolo della lotta per il diritto all’istruzione femminile è oramai diventata Malala Yousafzai. La giovane pakistana, fin dall’età di 11 anni, ha tenuto un blog in cui denunciava i soprusi del regime talebano nei confronti delle donne e delle bambine. Per questo motivo, il 9 ottobre 2012, mentre tornava a casa sul pullman scolastico, Malala è stata gravemente ferita alla testa da uomini armati. L’attentato è stato rivendicato da Hsanullah Ihsan, portavoce dei talebani pakistani. Secondo quanto dichiarato dal leader talebano, la ragazza «è il simbolo degli infedeli e dell'oscenità» e, qualora fosse sopravvissuta, sarebbe stata nuovamente oggetto di attentati.
Per fortuna la ragazza, grazie alle cure ricevute all’ospedale militare di Peshawar prima e a quello di Birmingham poi, è sopravvissuta al crudele attentato.
In occasione del suo sedicesimo compleanno, il 12 luglio 2013, Malala ha parlato al Palazzo di Vetro a New York, lanciando un accorato appello per il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini di tutto il mondo. Il 10 ottobre 2013 è stata insignita del Premio Sakharov per la libertà di pensiero e il 10 ottobre 2014 ha ricevuto il premio Nobel per la pace, assieme all'attivista indiano Kailash Satyarthi. La motivazione che ha indotto il comitato norvegese all’assegnazione del prestigioso premio è stata la seguente: «per la loro lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all'istruzione». Come ha affermato la stessa Malala:
Prendiamo in mano i nostri libri e le nostre penne [...]. Sono le nostre armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo [...].
La pace in ogni casa, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni nazione - questo è il mio sogno. L’istruzione per ogni bambino e bambina del mondo. Sedermi a scuola e leggere libri insieme a tutte le mie amiche è un mio diritto[2].
La storia di Malala, pur nella sua drammaticità, ha avuto un lieto fine. Purtroppo però non sempre le cose vanno in questo modo e i fatti di cronaca spesso ci mostrano episodi di agghiacciante efferatezza. È il caso, ad esempio, della triste storia di Farkhunda Malikzada.
Farkhunda Malikzada era una ragazza afgana di 27 anni che studiava diritto islamico e lavorava come maestra volontaria. Il 19 marzo 2015 Malikzada si è recata al santuario di Shah-Do Shamshira, nel centro di Kabul. Durante una sua visita precedente aveva notato un sedicente indovino vendere degli amuleti “magici”. Gli amuleti vengono chiamati tawiz e sono costituiti da brevi testi scritti su piccoli pezzi di carta. Essi vengono venduti alle donne, illudendole di poter trovare in tal modo marito o avere figli.
Il 19 marzo, nel cortile del santuario, Malikzada ha denunciato pubblicamente il commercio di amuleti, accusando l’indovino di plagiare i propri clienti, diffondendo superstizioni, contravvenendo a quanto stabilito dall’Islam. Anche se la dinamica dei fatti non è certa, secondo alcune testimonianze, Malikzada avrebbe raccolto alcuni degli amuleti e li avrebbe bruciati dentro a un cestino. A questo punto il custode del santuario avrebbe però accusato la ragazza di aver bruciato pagine del Corano. Secondo una testimonianza, a conferma della sua accusa, il custode avrebbe preso i resti bruciati dei fogliettini e aggiunto a essi dei pezzi bruciacchiati delle pagine di un vecchio Corano. La folla ha dato credito al custode del santuario e ha barbaramente aggredito Malikzada. Esiste un terribile video[3] che mostra gli ultimi minuti di vita della povera ragazza afgana. Una folla inferocita si accanisce contro di lei picchiandola a morte, trascinandola con un'auto, lapidando il suo corpo oramai esanime e, infine, bruciando i suoi poveri resti. Quello che colpisce nel video, oltre alla cieca ferocia degli assalitori, è la totale indifferenza della polizia, presente al linciaggio.
Per fortuna il barbaro assassinio di Malikzada ha suscitato diverse reazioni di sdegno nel paese e nel mondo. Quattro giorni dopo il tragico evento, duecento donne hanno organizzato una manifestazione di protesta a Kabul. Dure reazioni contro il governo, la polizia e la magistratura afgana sono emerse anche da parte di diversi attivisti.
Il processo che ne è scaturito ha visto, nel mese di maggio 2015, la condanna a morte di quattro assalitori di Malikzada e la condanna a sedici anni di carcere per altri otto. Undici poliziotti sono stati condannati a un anno di carcere per non essere intervenuti durante il linciaggio. Ad agosto la pena di morte dei quattro condannati è stata però commutata in venti anni di reclusione. Appare inoltre piuttosto probabile che molti degli aguzzini di Malikzada siano rimasti totalmente impuniti.
La tragica storia di Malikzada non è purtroppo un caso isolato. Altri nel mondo hanno pagato con la vita il loro impegno contro la superstizione e a favore dell’istruzione e dell’emancipazione. È il caso, ad esempio, di tre attivisti indiani. Il 30 agosto 2015 è stato ucciso a colpi di pistola l’esponente razionalista Malleshappa Madivalappa Kalburgi[4]. Kalburgi aveva 77 anni ed era attivo da anni nella promozione del pensiero scientifico e laico. Diversi gruppi integralisti indù lo odiavano, soprattutto per la sua opera di debunking nei confronti di molte superstizioni locali. Prima di lui, in India vi erano state altre due vittime. Nel febbraio 2015 è stato ucciso l’attivista politico Govind Pansare[5], a causa del suo impegno contro l’oscurantismo che caratterizza numerose tradizioni indù. Nell’agosto 2013 era stato invece ucciso Narendra Dabholkar[6], medico che si è battuto contro la superstizione dilagante, fondando, tra l’altro, il Maharashtra Andhashraddha Nirmoolan Samiti (MANS) (Comitato per l'eliminazione della superstizione nel Maharashtra).
È bene tuttavia ricordare che in molti paesi del mondo le cose non stanno affatto così. La possibilità di frequentare scuole e università è un privilegio concesso a pochi e negato invece a molti. Secondo un rapporto[1], presentato qualche anno fa da Save the Children e dall'Education for All Global Monitoring Report dell'Unesco, ben 50 milioni di bambini tra i sei e i quindici anni non hanno accesso all'istruzione. Tra questi 28,5 milioni dovrebbero frequentare le scuole elementari e più della metà sono bambine. Altri 20 milioni dovrebbero invece essere studenti delle scuole superiori. Innumerevoli sono le cause che impediscono a questi ragazzi di frequentare le scuole. Tra queste, il reclutamento dei minori da parte di gruppi armati, il bombardamento delle scuole, le intimidazioni a studenti e insegnanti, le uccisioni, i ferimenti e tutte le brutture che caratterizzano le guerre e i regimi totalitari.
Oltre agli orrori delle guerre, una mentalità retrograda intrisa di pregiudizi sessisti rende particolarmente difficile l’accesso allo studio alle bambine e alle ragazze in diverse parti del mondo.
Simbolo della lotta per il diritto all’istruzione femminile è oramai diventata Malala Yousafzai. La giovane pakistana, fin dall’età di 11 anni, ha tenuto un blog in cui denunciava i soprusi del regime talebano nei confronti delle donne e delle bambine. Per questo motivo, il 9 ottobre 2012, mentre tornava a casa sul pullman scolastico, Malala è stata gravemente ferita alla testa da uomini armati. L’attentato è stato rivendicato da Hsanullah Ihsan, portavoce dei talebani pakistani. Secondo quanto dichiarato dal leader talebano, la ragazza «è il simbolo degli infedeli e dell'oscenità» e, qualora fosse sopravvissuta, sarebbe stata nuovamente oggetto di attentati.
Per fortuna la ragazza, grazie alle cure ricevute all’ospedale militare di Peshawar prima e a quello di Birmingham poi, è sopravvissuta al crudele attentato.
In occasione del suo sedicesimo compleanno, il 12 luglio 2013, Malala ha parlato al Palazzo di Vetro a New York, lanciando un accorato appello per il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini di tutto il mondo. Il 10 ottobre 2013 è stata insignita del Premio Sakharov per la libertà di pensiero e il 10 ottobre 2014 ha ricevuto il premio Nobel per la pace, assieme all'attivista indiano Kailash Satyarthi. La motivazione che ha indotto il comitato norvegese all’assegnazione del prestigioso premio è stata la seguente: «per la loro lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all'istruzione». Come ha affermato la stessa Malala:
Prendiamo in mano i nostri libri e le nostre penne [...]. Sono le nostre armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo [...].
La pace in ogni casa, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni nazione - questo è il mio sogno. L’istruzione per ogni bambino e bambina del mondo. Sedermi a scuola e leggere libri insieme a tutte le mie amiche è un mio diritto[2].
La storia di Malala, pur nella sua drammaticità, ha avuto un lieto fine. Purtroppo però non sempre le cose vanno in questo modo e i fatti di cronaca spesso ci mostrano episodi di agghiacciante efferatezza. È il caso, ad esempio, della triste storia di Farkhunda Malikzada.
Farkhunda Malikzada era una ragazza afgana di 27 anni che studiava diritto islamico e lavorava come maestra volontaria. Il 19 marzo 2015 Malikzada si è recata al santuario di Shah-Do Shamshira, nel centro di Kabul. Durante una sua visita precedente aveva notato un sedicente indovino vendere degli amuleti “magici”. Gli amuleti vengono chiamati tawiz e sono costituiti da brevi testi scritti su piccoli pezzi di carta. Essi vengono venduti alle donne, illudendole di poter trovare in tal modo marito o avere figli.
Il 19 marzo, nel cortile del santuario, Malikzada ha denunciato pubblicamente il commercio di amuleti, accusando l’indovino di plagiare i propri clienti, diffondendo superstizioni, contravvenendo a quanto stabilito dall’Islam. Anche se la dinamica dei fatti non è certa, secondo alcune testimonianze, Malikzada avrebbe raccolto alcuni degli amuleti e li avrebbe bruciati dentro a un cestino. A questo punto il custode del santuario avrebbe però accusato la ragazza di aver bruciato pagine del Corano. Secondo una testimonianza, a conferma della sua accusa, il custode avrebbe preso i resti bruciati dei fogliettini e aggiunto a essi dei pezzi bruciacchiati delle pagine di un vecchio Corano. La folla ha dato credito al custode del santuario e ha barbaramente aggredito Malikzada. Esiste un terribile video[3] che mostra gli ultimi minuti di vita della povera ragazza afgana. Una folla inferocita si accanisce contro di lei picchiandola a morte, trascinandola con un'auto, lapidando il suo corpo oramai esanime e, infine, bruciando i suoi poveri resti. Quello che colpisce nel video, oltre alla cieca ferocia degli assalitori, è la totale indifferenza della polizia, presente al linciaggio.
Per fortuna il barbaro assassinio di Malikzada ha suscitato diverse reazioni di sdegno nel paese e nel mondo. Quattro giorni dopo il tragico evento, duecento donne hanno organizzato una manifestazione di protesta a Kabul. Dure reazioni contro il governo, la polizia e la magistratura afgana sono emerse anche da parte di diversi attivisti.
Il processo che ne è scaturito ha visto, nel mese di maggio 2015, la condanna a morte di quattro assalitori di Malikzada e la condanna a sedici anni di carcere per altri otto. Undici poliziotti sono stati condannati a un anno di carcere per non essere intervenuti durante il linciaggio. Ad agosto la pena di morte dei quattro condannati è stata però commutata in venti anni di reclusione. Appare inoltre piuttosto probabile che molti degli aguzzini di Malikzada siano rimasti totalmente impuniti.
La tragica storia di Malikzada non è purtroppo un caso isolato. Altri nel mondo hanno pagato con la vita il loro impegno contro la superstizione e a favore dell’istruzione e dell’emancipazione. È il caso, ad esempio, di tre attivisti indiani. Il 30 agosto 2015 è stato ucciso a colpi di pistola l’esponente razionalista Malleshappa Madivalappa Kalburgi[4]. Kalburgi aveva 77 anni ed era attivo da anni nella promozione del pensiero scientifico e laico. Diversi gruppi integralisti indù lo odiavano, soprattutto per la sua opera di debunking nei confronti di molte superstizioni locali. Prima di lui, in India vi erano state altre due vittime. Nel febbraio 2015 è stato ucciso l’attivista politico Govind Pansare[5], a causa del suo impegno contro l’oscurantismo che caratterizza numerose tradizioni indù. Nell’agosto 2013 era stato invece ucciso Narendra Dabholkar[6], medico che si è battuto contro la superstizione dilagante, fondando, tra l’altro, il Maharashtra Andhashraddha Nirmoolan Samiti (MANS) (Comitato per l'eliminazione della superstizione nel Maharashtra).
Note
1) Attacks On education. The impact of conflict and grave violations on children’s futures, Save the Children, London 2013, disponibile in versione integrale all’indirizzo: http://tinyurl.com/jgmy4e9 ;
2) M. Yousafzai, C. Lamb, Io sono Malala, Garzanti, Milano, 2014;
3) A.J. Rubin, “Flawed Justice After a Mob Killed an Afghan Woman”, The New York Times, 26 dicembre 2015: http://tinyurl.com/j8wqcdn . Il video pubblicato dal New York Times è una sintesi di molti filmati registrati col cellulare da diverse persone che hanno assistito al linciaggio di Malikzada, compresi alcuni dei suoi assassini.
4) S. Gupta, “Indian Scholar Who Criticized Worship of Idols Is Killed”, The New York Times, 30 agosto 2015: http://tinyurl.com/psmqs5b ;
5) R. Puniyani, “Who killed Govind Pansare?”, The Indian Express, 11 marzo 2015: http://tinyurl.com/j4hyrgy ;
6) R. Bhasin, “Dabholkar murder case: 2 suspects identified, CBI to High Court”, The Indian Express, 25 dicembre 2015: http://tinyurl.com/hkths8u .